Giorgio Napolitano, il comunista che si fece re per salvare la repubblica

Giorgio Napolitano, l'unico Presidente rieletto

Giorgio Napolitano, l’unico Presidente rieletto

Nella primavera del 2006 l’Italia è chiamata di nuovo alle urne. I risultati poco lusinghieri del governo Berlusconi lasciano pensare a una facile affermazione del centrosinistra, guidato come dieci anni prima da Romano Prodi. Ma una scintillante campagna elettorale dell’ex Cavaliere permette a Forza Italia e soci di azzerare negli ultimi giorni il distacco.

Si vota nell’ultima settimana di aprile e il risultato è un testa a testa avvincente fra le due coalizioni. Solo grazie al voto degli italiani all’estero, il centrosinistra ottiene una strettissima vittoria. Sono solo 24 mila i voti di distanza fra i due schieramenti. Formalmente vince Prodi, ma nella sostanza è un pareggio. Anche perché la rinnovata la nuova legge elettorale, ribattezzata “porcellum” dal suo stesso estensore, il leghista Roberto Calderoli, determina una maggioranza solida solo alla Camera. In Senato l’Unione, riedizione dell’Ulivo del ’96, ha solo un paio di seggi di vantaggio. E due settimane dopo l’inizio della legislatura, è già il momento di scegliere il nuovo inquilino del Quirinale. [Read more…]

Quirinale, Renzi ha il nome: Sergio. Ma quale?

Montecitorio. Qui da oggi si elegge il Presidente della Repubblica

Montecitorio. Qui da oggi si elegge il Presidente della Repubblica

Eccoci. Finalmente. I giorni del Colle sono iniziati. Probabilmente saranno almeno tre. Una sorta di weekend lungo. Ore politicamente caldissime che coincidono con i giorni della merla, i più freddi dell’anno.

Due anni fa c’era il sole quando 101 franchi pugnalatori affossavano la candidatura di Romano Prodi, chiudendo di fatto la stagione di Pierluigi Bersani alla guida del PD. Erano serate primaverili quelle in cui si ngrossava il coro pentastellato fuori da Montecitorio. “Ro-do-tà, Ro-do-tà”, gridavano più o meno consapevoli i manifestanti dell’ultim’ora, promettendo una rivoluzione mai arrivata. Giorni confusi. Lo psicodramma del Partito Democratico e l’alba soffusa dei movimenti. Lo stallo della politica tradizionale, la rielezione di re Giorgio. [Read more…]

Francesco Cossiga, il sardomuto che si mise a picconare

Francesco Cossiga, capo di Stato fra il 1985 e il 1992

Francesco Cossiga, capo di Stato fra il 1985 e il 1992

Dopo l’uragano Pertini, il Quirinale è percepito in modo diverso rispetto al decennio precedente. Ma finita la stagione dell’emergenza, la politica sente il bisogno di rimarcare i confini. In chiave elettorale, la situazione è abbastanza fluida. Assorbita l’ondata emotiva seguita alla morte di Enrico Berlinguer, la Dc ha arginato l’avanzata del Pci. Funzionale in tal senso è il consenso registrato dai socialisti di Craxi, saldamente alla guida del governo.

Ciriaco De Mita e un giovane Francesco Cossiga

Ciriaco De Mita e un giovane Francesco Cossiga

A dare le carte nelle elezioni presidenziali del 1985 tocca di nuovo alla Dc e precisamente al segretario Ciriaco De Mita che impone senza esitazioni il nome di un cinquantasettenne sardo che ha vissuto un decennio complicato Francesco Cossiga. Nel nostro racconto lo abbiamo lasciato a Montecitorio, 1962, svenuto al momento dell’elezione di Segni. Ma sa quel giorno il giovane giurista sassarese che lavorava per lo zio appena eletto, ha fatto parecchia strada. Fiero anticomunista, nonostante la stretta parentela con Enrico Berlinguer (sono cugini), dimostra sia per maturità politica, sia nell’aspetto più dei suoi 57 anni. Nel discorso di inizio mandato, appare teso, pallido, col volto segnato dalla vitiligine. Ha somatizzato i fatti degli ultimi anni.

Quando le Br rapiscono Moro, Cossiga è ministro degli Interni. Lo statista pugliese non è un semplice collega di partito. È un amico vero, il primo a credere nelle sue capacità all’inizio degli anni ’60. Non aver potuto fare niente per fermare il calvario di Moro lo tormenterà per tutta la vita. Da presidente del Consiglio, incarico ricoperto fra l’estate del ’79 e quella dell’80, assiste inerme alle stragi di Ustica e Bologna. Sale al Colle con “prudenza, moderazione e buon senso”. Sette anni dopo, ripensare a quell’ingresso in punta di piedi farà sorridere.

La sua presidenza è da dividere in due fasi. La caduta del muro di Berlino è lo spartiacque della sua attività al Quirinale. Fino alla fine del 1989, Cossiga assolve le sue funzioni diligentemente. Una sorta di notaio. È una figura silenziosa e invisibile. Lo ribattezzano il “sardomuto”. Per comunicare usa prevalentemente un baracchino per radioamatori. I destinatari delle sue comunicazioni non sono gli italiani, ma appassionati di tutto il mondo che condividono il singolare hobby. Riempie di collaboratori sardi il Quirinale, sul quale s’ironizza possa sventolare presto la bandiera dei 4 mori.

9 novembre 1989: cade dopo 28 anni il muro di Berlino

9 novembre 1989: cade dopo 28 anni il muro di Berlino

I fatti di Berlino sono un elettroshock. “È tutto finito”, gli grida al telefono l’ambasciatore italiano nella Ddr. Il Cossiga “picconatore” invece inizia proprio in quella notte di novembre. Tutto a un tratto la “democrazia bloccata” italiana non ha più senso. Sveste i panni del notaio istituzionale e comincia a parlare a braccio. Non più agli amici radioamatori, ma a tutta la nazione. Va a braccio, senza titubanze. Invoca “il vento della libertà”, la “caduta del muro italiano”. Di fatto chiude l’epoca della conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti. La Dc scopre di trovarsi davanti un altro Pertini. Stavolta ce l’ha addirittura in casa. Perde qualsiasi remora. Confessa candidamente di aver fatto parte di un’organizzazione militare segreta, Gladio, voluta dalla Nato per prevenire l’espansionismo sovietico.

Coperina del settimanale satirico Cuore del 1990

Coperina del settimanale satirico Cuore del 1990

Caduto il muro, si vuole togliere autentiche pietre dalle scarpe. La sinistra s’infuria, i compagni di partito restano attoniti. Ma lui prosegue quotidianamente in una sistematica dissoluzione delle ipocrisie. Si fa scudo del fatto che molti suoi critici hanno scheletri voluminosi nell’armadio. I suoi rapporti con gli esponenti del panorama politico si fanno complessi. In un discorso alla fiera di Roma del 1991, definisce Craxi “un burattinaio qualunquista, anticipandone i nefasti destini giudiziari. In tanti lo ritengono pazzo, ma al di là di una forma di ciclotimia che gli provoca frequenti sbalzi d’umore, è lucidissimo. Confessa d’ispirarsi a certi personaggi del teatro elisabettiano. In sostanza, fa il matto per dire la verità.

Nel giugno del ’91, invia alla Camera un lunghissimo messaggio. Ottantadue cartelle in cui propone una profonda revisione costituzionale. In parole povere, esorta i deputati a fare uso dell’articolo 138 per rinnovare una carta costruita in un mondo che non è più lo stesso del 1946. Il parlamento lascia cadere il suo appello. I giornali, loro sì, impazziscono per stargli dietro. Sono costretti a inventare la figura del “quirinalista”, un cronista che ogni giorno raccoglie le sue “picconate”. Un termine entrato nel gergo giornalistico e suggerito dallo stesso Cossiga.

Apostrofa gli avversari politici con appellativi dispregiativi e farseschi. Occhetto, leader della sinistra post comunista, è lo “zombie coi baffi”; De Mita, suo principale sostenitore nel 1985, diventa il “Lepido di Nusco”, bollandolo come un boss di provincia intento a spartirsi il potere, come il triumviro romano che divise l’impero con Antonio e Ottaviano. Nella Dc ci si interroga su come placarlo. La sinistra di Occhetto, coadiuvata dai Radicali, chiede l’impeachment. Cossiga reagisce dimettendosi prima dal suo partito e poi dal suo incarico presidenziale.

Una tipica espressione di Cossiga

Una tipica espressione di Cossiga

Lascia il 25 aprile del 1992. È la sua liberazione. La seconda dopo quella del 9 novembre dell’89. La magistratura poche settimane dopo archivia le accuse nei suoi confronti. Nel frattempo è appena nata Tangentopoli. Ma quello Cossiga ce l’aveva già raccontato.

Giovanni Leone, un napoletano al Colle con troppa gente intorno

Giovanni Leone, al Quirinale dal 1971 al 1978

Giovanni Leone, al Quirinale dal 1971 al 1978

Sette anni dopo l’elezione di Saragat, il Parlamento torna a riunirsi in seduta comune nel periodo natalizio. E anche stavolta la strada della decisione è in salita. I nomi in ballo sono Fanfani, Moro, di nuovo Saragat e Leone. Appare evidente che in un modo o nell’altro al Quirinale s’insedierà un democristiano. Ma le guerre intestine del partito di maggioranza determinano incertezza. Come nella tradizione delle precedenti elezioni, il candidato ufficiale viene ripetutamente “bruciato”. Questa volta “il supplizio cinese” evocato da Leone nel ’64 tocca ad Amintore Fanfani. I deputati del Manifesto lo irridono scrivendo sulla scheda frasi come “maledetto nanetto, non verrai mai eletto”. Il brevilineo statista aretino deve arrendersi dopo undici tentativi falliti.

La pista che porta a Moro viene scartata per logiche interne. In sostanza, il partito tende verso la destra, sospinto su questa linea da Giulio Andreotti, eterno burattinaio. Fra astensioni, veti e ricerche di compromesso, la soluzione Leone prende sempre più corpo. È già la terza volta che il giurista napoletano, riconosciuto come uno dei massimi penalisti italiani, si avvicina al Colle.

Nel ’62, due anni prima dello psicodramma di Natale, era stato a un passo dalla carica più prestigiosa. Nel giorno dell’elezione di Segni, Leone aveva ricevuto una proposta “indecente” da parte di Palmiro Togliatti. Le sinistre erano disposte a far convergere i voti su di lui, pur di non avere il sardo al Quirinale. Leone, all’epoca Presidente della Camera, rifiutò. Si sarebbe messo in una condizione troppo difficile. Un democristiano spinto dai comunisti. Suonava troppo male. C’era da aspettare. E dopo la beffa del ’64, il sogno di Leone si realizzava alla vigilia di Natale. Dopo 23 scrutini, coi voti determinanti del Movimento Sociale di Giorgio Almirante.

C’è chi grida al rigurgito nostalgico, adducendo la breve militanza di Leone nel fascismo. Ma il nuovo presidente non è uomo di parte. È un mediatore, un uomo di diritto, un tifoso del Napoli e un personaggio pittoresco. Ma non certo un nostalgico. Con lui sbarca al Quirinale una famiglia chiassosa, composta dall’affascinante moglie Vittoria e tre figli maschi. Uno di essi, Giancarlo, è dal 2012 direttore di Rai 1.

La famiglia Leone ritratta al Quirinale

La famiglia Leone ritratta al Quirinale

Il Colle diventa un salotto per ospiti provenienti dal mondo della finanza, dell’industria e degli affari. E i maggiori problemi della presidenza Leone nascono proprio dalle sue frequentazioni. Di per sè infatti, i suoi sette anni sono deliberatamente incolori. È il primo Presidente a sciogliere le camere, ma fin da subito marca una rispettosa distanza dalle scelte politiche di governo e parlamento. Si limita a garantire l’osservanza della Costituzione. La sua politica internazionale è ricordata più per esuberanze da turista esagitato che per abili relazioni diplomatiche. Canta, balla, gioca.

Fa da notaio e da giullare. E piace alla gente che adora la sua genuinità partenopea. Ma tutto si spezza nel 1976. A febbraio scoppia uno scandalo internazionale. È una storia di tangenti che riguarda una compagnia aerea americana, Lockheed, che avrebbe corrotto politici di mezzo mondo per convincerli a dotarsi dei mezzi dell’azienda. L’amicizia di Leone con Crociani, amministratore delegato di Finmeccanica, coinvolto nella vicenda, viene ritenuta prova certa del suo coinvolgimento.

Uno degli aerei dello scandalo: l'Hercules della Lockheed

Uno degli aerei dello scandalo: l’Hercules della Lockheed

Qualcuno arriva a sostenere che sia uno dei grandi registi dell’intera operazione. Su consiglio di Andreotti, Leone sceglie di non difendersi dalle infamanti accuse. Si dice addirittura che “Antelope Cobbler” , nome in codice scoperto dagli inquirenti, sarebbe proprio lui. I giornalisti si buttano a capofitto sulla storia. Fioccano le inchieste, firmate da Gianluigi Melega e Camilla Cederna. Entrambi lavorano per “L’Espresso” . La Cederna scriverà, in coincidenza con la fine del mandato presidenziale un libro velenosissimo sulla carriera di Leone. Un pamphlet che le costerà una condanna per diffamazione e il pagamento di 35 milioni di lire come risarcimento.

Pisa, 1975: Leone fa le corna a un gruppo di contestatori

Pisa, 1975: Leone fa le corna a un gruppo di contestatori

Intanto Leone, nelle sue visite ufficiali, viene pesantemente contestato dalla gente. A Pisa, risponde agli insulti degli studenti facendo le corna. I maligni dicono che la moglie Vittoria le facesse a lui, senza usare necessariamente indice e mignolo. Col tempo accuse e campane denigratorie nei confronti di Leone si sgonfiano. Troppo tardi per salvare la poltrona presidenziale. Sull’onda della forte campagna denigratoria, i partiti cominciano a chiedere la sua testa. Polemiche che vengono congelate durante i drammatici 55 giorni della prigionia di Aldo Moro. Il Presidente è l’unico insieme ai socialisti a sostenere la linea del dialogo con le Brigate Rosse. Non viene ascoltato. Un mese dopo il ritrovamento del corpo dello statista pugliese, la pressione dei partiti per un suo addio anticipato si fa sempre più soffocante. Il 15 giugno è il giorno decisivo. Il Pci chiede formalmente le sue dimissioni. È il senatore Paolo Bufalini a portargli la formale richiesta del suo partito. Poche ore dopo, Andreotti e Zaccagnini, preso atto della situazione, lo “obbligano” alle dimissioni. Leone si convince che è arrivato il momento di togliere il disturbo.

Con sei mesi d’anticipo, lascia il Quirinale. Prima di farlo, rivolge uno struggente saluto televisivo agli italiani. “Avete avuto un presidente onesto per sei anni e mezzo”, dice. Una ventina di anni dopo Marco Pannella ed Emma Bonino si scuseranno pubblicamente con lui, riconoscendo di avere preso un abbaglio.

Giuseppe Saragat, il presidente che mandava telegrammi e sognava la terza via

Giuseppe Saragat, Presidente della Repubblica 1964 - 1971

Giuseppe Saragat, Presidente della Repubblica 1964 – 1971

Natale a Montecitorio. Non è un cinepanettone degli anni ’60, ma l’incredibile fotografia delle elezioni presidenziali del 1964. Le più inattese. L’ictus che ha messo fuori gioco Antonio Segni costringe il Parlamento a scegliere il nuovo inquilino del Quirinale a distanza di soli due anni dall’ultima proclamazione. Ma deputati e senatori non sono gli stessi del ’62. In mezzo c’è stata una tornata elettorale che ha registrato il flop del primo governo di centrosinistra.

Il Paese vive un periodo di recessione dopo i lucenti anni del miracolo economico. La Dc è ancora al potere ma le correnti interne fanno più rumore del solito. E nel segreto dell’urna, i nodi vengono al pettine. La segreteria democristiana punta ostinatamente su Giovanni Leone, giurista napoletano. Un uomo per tutte le stagioni, già titolare di un governo di transizione nel mezzo della crisi coi socialisti. Ma per il pittoresco politico partenopeo non è ancora arrivato il momento buono. Incassa quindici no. Lo definisce “un supplizio cinese”. Mettere d’accordo le varie anime del partito è impresa più ardua del solito.

Gli scrutini iniziano il 16 dicembre e proseguono anche a Natale e Santo Stefano. La gente, credendo che i politici siano pagati con “festivi” e “superfestivi” come se lavorassero in azienda, ritiene che temporeggino di proposito per fare cassa. Non è così, ma è il segno del calo di fiducia nella politica. La Chiesa riprova a mettere bocca, ma l’operazione provoca solo risposte ironiche. Come quella di alcuni parlamentari che scrivono sulla scheda “Lodovico Montini”, fratello del pontefice e deputato ultraconservatore. Di quale partito non serve dirlo.

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La prima pagina del Corriere della Sera del 29 dicembre 1964

Nel caos si fa strada un nome che Aldo Moro aveva in mente già due anni prima. Non è un democristiano, né un liberale. Era socialista ma si è staccato con la storica scissione di Palazzo Barberini del 1947. È anche, ironia del destino, l’uomo che involontariamente ha “causato” lo stato di infermità di Segni. E a quattro mesi dal diverbio col suo predecessore, Giuseppe Saragat diventa il nuovo Presidente della Repubblica. Sono stati necessari ventuno scrutini, ma almeno il messaggio di Capodanno è salvo. Saragat viene eletto il 28 dicembre, anche coi voti dell’ala destra del partito comunista. Quella in mano a Giorgio Amendola, suo compagno di prigionia in tempo di guerra.

Il nuovo capo di Stato è un torinese figlio di immigrati sardi. I suoi detrattori lo dipingono come un mezzo alcolista, ma sono commenti viziati dal peccato originale della scissione. Lo chiamano “social fascista”; gli danno del traditore. E si scandalizzano per le sue idee filoamericane e filoisraeliane. Ma il vero sogno di Saragat è creare una sinistra italiana che prenda come modello i laburisti inglesi e lasci perdere il dogmatismo sovietico.

Saragat con la figlia Ernestina nella sede del Psdi a Roma

Saragat con la figlia Ernestina nella sede del Psdi a Roma

Non ha una first lady. Da qualche anno è vedovo e l’unica donna accanto a lui è la figlia Ernestina che lo accompagna spesso in occasioni ufficiali. Brutalmente schietto, impulsivo, ma anche determinato come pochi. Fra tutti i presidenti eletti, è quello che ha la carriera politica più ricca. Un percorso fatto di amarezze, di scissioni e di ricongiungimenti. Un cammino che s’incrocia perennemente con quello del suo alter ego socialista, Pietro Nenni. Il sogno di una riunificazione socialista viene realizzato nel ’66 ma è un fuoco di paglia. Tre anni dopo ognuno riparte per la sua strada. I socialdemocratici mirano a essere una terza forza indipendente. L’ideale saldatura fra proletariato e classe media. Sogni, perché la realtà mostra un partito che si limita a una posizione di fiancheggiamento della DC.

Nei suoi accorati messaggi presidenziali si richiama alla responsabilità dei cittadini. Vuole dare l’idea di un capo dello Stato presente e attento a tutto ciò che succede. A volte esagera. Si congratula con il pugile Benvenuti per il successo in un incontro. E in un’epoca in cui i cinguettii sono solo suoni di uccelli, lo fa attraverso un telegramma. Ne invia dozzine ogni giorno. I napoletani lo soprannominano “don Peppino ‘o telegramma”.

Attraversa il ’68 e la strage di piazza Fontana. L’alba di un periodo difficilissimo, eppure Saragat coltiva l’ambizione di una riconferma. E la possibilità diventa un caso internazionale. I socialdemocratici tedeschi sarebbero arrivati a offrire 200 miliardi ai comunisti italiani per votarlo alle presidenziali del ’71. Una proposta che il segretario Luigi Longo porta a Mosca. Avrebbe significato autonomia finanziaria per il Pci. Al Pcus si va alla votazione. Per un solo voto, l’offerta viene rigettata. Morirà nel 1988, poco prima che l’universo socialista fosse travolto da Tangentopoli.

Antonio Segni, l’agricoltore sardo voluto dal Vaticano

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Antonio Segni, Presidente dal 1962 al 1964

Il 1962 è un anno cruciale per la politica italiana. La Dc, dopo vari tentativi andati a vuoto, si appresta a varare il primo governo di centrosinistra. Aldo Moro e Fanfani dettano la linea. Ma c’è scetticismo. Sono in tanti a temere che l’accordo coi socialisti possa rivelarsi un cavallo di Troia per i comunisti.

È in questo clima, fra sospetti e veti incrociati, che si tengono in primavera le quarte elezioni presidenziali. E in quest’occasione, la Chiesa vuole dire la sua. Il Vaticano preme per far sedere al Quirinale un candidato ostile al progetto di Moro e Fanfani. Il cardinale Montini, segretario di Stato nonché futuro Paolo VI, orienta i dirigenti della balena bianca su un nome preciso.

Un sardo: Antonio Segni, giurista di Sassari, esponente di punta della corrente dorotea. Per eleggerlo, ci vogliono nove scrutini, ma per la prima e unica volta nella storia delle Presidenziali, la Dc riesce a portare al Colle il suo candidato ufficiale. Un suo giovane collaboratore, al momento della proclamazione, l’11 maggio, sviene nei corridoi di Montecitorio per l’emozione. Non immagina certo che un paio di decenni dopo, sentirà lo stesso annuncio col suo nome. Il ragazzo svenuto si chiama Francesco Cossiga, è nipote di Segni e le parole che non riesce a dire in quel momento, le restituirà con gli interessi un ventennio dopo.

 

 

Segni è un agricoltore da generazioni. È un proprietario terriero, ma si batte per una riforma che garantisca una migliore ripartizione delle terre. Ama la Sardegna in modo viscerale. E ogni weekend torna nella sua regione, col volo Ciampino-Alghero. Se glielo lasciassero fare, guiderebbe anche l’aereo. L’aviazione è la sua grande passione.

Il governo di centrosinistra produce risultati deludenti nelle elezioni politiche del ’63. Sia democristiani che socialisti perdono consensi e intanto si affacciano all’orizzonte le nubi della prima crisi economica del dopoguerra.

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Segni con John Fitzgerald Kennedy nel 1963. Per entrambi sono gli ultimi mesi felici

Segni vorrebbe affidarsi a Mario Scelba, l’inventore della “Celere”, il ministro dell’Interno dal pugno di ferro. Se le condizioni politiche glielo permettessero, gli darebbe subito l’incarico per un “governo del Presidente”. Ma per senso di Stato e obbedienza al partito, dà nuovamente a Moro la possibilità di formare, nella prima metà del 1964, un nuovo esecutivo di centrosinistra.

Dubbi e paranoie attraversano l’animo del capo di Stato. Segni teme che i frequenti disordini che incendiano il Paese siano l’antipasto di un’imminente strategia sovversiva. Ha paura soprattutto dell’emergere di piccoli gruppi della sinistra extraparlamentare. Movimenti antagonisti con possibili derive terroristiche. E per prevenire un’escalation di violenza, progetta alcune contromisure.

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Il generale De Lorenzo

Nell’estate del 1964, contatta i più alti rappresentanti delle Forze Armate, tra cui il generale De Lorenzo, per sette anni capo dei servizi segreti. Sarebbe proprio lui l’ideatore del celebre “Piano Solo”, un progetto militare di emergenza per mantenere l’ordine pubblico. O forse un vero e proprio colpo di stato, secondo l’inchiesta de “L’Espresso” che nel 1967 fece luce sulla questione. Uno scoop che finì in tribunale, con la querela per diffamazione al direttore Eugenio Scalfari. Come per molti segreti della storia italiana, la risposta potrebbe essere in cassetti che difficilmente verranno aperti. Ma torniamo all’estate del ’64.

Crisi di governo, settimane di incontri e di decisioni rimandate. Alla fine, Nenni decide di appoggiare Moro in un nuovo tentativo di governo condiviso. La situazione sembra calmarsi.

Ma il 7 agosto durante un acceso diverbio con Saragat alla presenza di Moro, una trombosi paralizza il presidente Segni. Nessuno ha mai chiarito cosa sia davvero successo nel “salotto cinese” del Quirinale, ma l’Italia per quattro mesi si affida alla reggenza di Merzagora, presidente del Senato. Il sardo morirà otto anni dopo, senza mai riprendersi del tutto. E senza poter dire se il “Piano Solo” fosse qualcosa più di una forzatura giornalistica.

Luigi Einaudi, il liberale zoppo che fece correre l’Italia

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Luigi Einaudi, Presidente dal 1948 al 1955

L’Italia del 1948 è una nazione ancora impolverata dalle macerie. La vittoria elettorale della Democrazia Cristiana ha determinato una chiara scelta di campo nella logica dell’emergente guerra fredda. Gli americani aiuteranno a ricostruire il Paese col piano Marshall, ma per rialzarsi in fretta c’è bisogno soprattutto di forte iniziativa individuale, di pragmatismo e di spirito imprenditoriale. Valori liberali.

E il secondo Presidente della Repubblica arriva proprio da quell’area politica: l’economista di fama mondiale Luigi Einaudi. Piemontese della provincia di Cuneo, simpatizzante monarchico, ma soprattutto governatore della Banca d’Italia. Un uomo concreto, già ministro del Bilancio del quarto governo De Gasperi. [Read more…]

Enrico De Nicola, il Presidente provvisorio

Enrico De Nicola, Presidente dal 1946 al 1948

Enrico De Nicola, Presidente dal 1946 al 1948

“M’inchino con animo reverente e commosso di fonte alla volontà sovrana dell’Assemblea Costituente. In fede, Enrico De Nicola”. Era il 28 gennaio del 1946 e l’Italia aveva appena eletto il suo primo Presidente della Repubblica. Al primo scrutinio, con una maggioranza schiacciante: 396 voti su 504. De Gasperi, Togliatti e Nenni avevano deciso.

Quel giurista napoletano che due anni prima aveva convinto il re Vittorio Emanuele III a trasferire i poteri al figlio Umberto, era l’uomo perfetto da cui ripartire. Meridionale, di simpatie monarchiche, politicamente moderato, De Nicola rappresentava la figura più adatta per unire un Paese ancora lacerato da profonde differenze ideologiche e geografiche. [Read more…]