Dopo l’uragano Pertini, il Quirinale è percepito in modo diverso rispetto al decennio precedente. Ma finita la stagione dell’emergenza, la politica sente il bisogno di rimarcare i confini. In chiave elettorale, la situazione è abbastanza fluida. Assorbita l’ondata emotiva seguita alla morte di Enrico Berlinguer, la Dc ha arginato l’avanzata del Pci. Funzionale in tal senso è il consenso registrato dai socialisti di Craxi, saldamente alla guida del governo.
A dare le carte nelle elezioni presidenziali del 1985 tocca di nuovo alla Dc e precisamente al segretario Ciriaco De Mita che impone senza esitazioni il nome di un cinquantasettenne sardo che ha vissuto un decennio complicato Francesco Cossiga. Nel nostro racconto lo abbiamo lasciato a Montecitorio, 1962, svenuto al momento dell’elezione di Segni. Ma sa quel giorno il giovane giurista sassarese che lavorava per lo zio appena eletto, ha fatto parecchia strada. Fiero anticomunista, nonostante la stretta parentela con Enrico Berlinguer (sono cugini), dimostra sia per maturità politica, sia nell’aspetto più dei suoi 57 anni. Nel discorso di inizio mandato, appare teso, pallido, col volto segnato dalla vitiligine. Ha somatizzato i fatti degli ultimi anni.
Quando le Br rapiscono Moro, Cossiga è ministro degli Interni. Lo statista pugliese non è un semplice collega di partito. È un amico vero, il primo a credere nelle sue capacità all’inizio degli anni ’60. Non aver potuto fare niente per fermare il calvario di Moro lo tormenterà per tutta la vita. Da presidente del Consiglio, incarico ricoperto fra l’estate del ’79 e quella dell’80, assiste inerme alle stragi di Ustica e Bologna. Sale al Colle con “prudenza, moderazione e buon senso”. Sette anni dopo, ripensare a quell’ingresso in punta di piedi farà sorridere.
La sua presidenza è da dividere in due fasi. La caduta del muro di Berlino è lo spartiacque della sua attività al Quirinale. Fino alla fine del 1989, Cossiga assolve le sue funzioni diligentemente. Una sorta di notaio. È una figura silenziosa e invisibile. Lo ribattezzano il “sardomuto”. Per comunicare usa prevalentemente un baracchino per radioamatori. I destinatari delle sue comunicazioni non sono gli italiani, ma appassionati di tutto il mondo che condividono il singolare hobby. Riempie di collaboratori sardi il Quirinale, sul quale s’ironizza possa sventolare presto la bandiera dei 4 mori.
I fatti di Berlino sono un elettroshock. “È tutto finito”, gli grida al telefono l’ambasciatore italiano nella Ddr. Il Cossiga “picconatore” invece inizia proprio in quella notte di novembre. Tutto a un tratto la “democrazia bloccata” italiana non ha più senso. Sveste i panni del notaio istituzionale e comincia a parlare a braccio. Non più agli amici radioamatori, ma a tutta la nazione. Va a braccio, senza titubanze. Invoca “il vento della libertà”, la “caduta del muro italiano”. Di fatto chiude l’epoca della conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti. La Dc scopre di trovarsi davanti un altro Pertini. Stavolta ce l’ha addirittura in casa. Perde qualsiasi remora. Confessa candidamente di aver fatto parte di un’organizzazione militare segreta, Gladio, voluta dalla Nato per prevenire l’espansionismo sovietico.
Caduto il muro, si vuole togliere autentiche pietre dalle scarpe. La sinistra s’infuria, i compagni di partito restano attoniti. Ma lui prosegue quotidianamente in una sistematica dissoluzione delle ipocrisie. Si fa scudo del fatto che molti suoi critici hanno scheletri voluminosi nell’armadio. I suoi rapporti con gli esponenti del panorama politico si fanno complessi. In un discorso alla fiera di Roma del 1991, definisce Craxi “un burattinaio qualunquista, anticipandone i nefasti destini giudiziari. In tanti lo ritengono pazzo, ma al di là di una forma di ciclotimia che gli provoca frequenti sbalzi d’umore, è lucidissimo. Confessa d’ispirarsi a certi personaggi del teatro elisabettiano. In sostanza, fa il matto per dire la verità.
Nel giugno del ’91, invia alla Camera un lunghissimo messaggio. Ottantadue cartelle in cui propone una profonda revisione costituzionale. In parole povere, esorta i deputati a fare uso dell’articolo 138 per rinnovare una carta costruita in un mondo che non è più lo stesso del 1946. Il parlamento lascia cadere il suo appello. I giornali, loro sì, impazziscono per stargli dietro. Sono costretti a inventare la figura del “quirinalista”, un cronista che ogni giorno raccoglie le sue “picconate”. Un termine entrato nel gergo giornalistico e suggerito dallo stesso Cossiga.
Apostrofa gli avversari politici con appellativi dispregiativi e farseschi. Occhetto, leader della sinistra post comunista, è lo “zombie coi baffi”; De Mita, suo principale sostenitore nel 1985, diventa il “Lepido di Nusco”, bollandolo come un boss di provincia intento a spartirsi il potere, come il triumviro romano che divise l’impero con Antonio e Ottaviano. Nella Dc ci si interroga su come placarlo. La sinistra di Occhetto, coadiuvata dai Radicali, chiede l’impeachment. Cossiga reagisce dimettendosi prima dal suo partito e poi dal suo incarico presidenziale.
Lascia il 25 aprile del 1992. È la sua liberazione. La seconda dopo quella del 9 novembre dell’89. La magistratura poche settimane dopo archivia le accuse nei suoi confronti. Nel frattempo è appena nata Tangentopoli. Ma quello Cossiga ce l’aveva già raccontato.