La notte di Leo. Messi trascina l’Argentina al mondiale

082048547-9a0fdce8-a6c3-4f36-a810-5f3f724bfc02A volte la Storia si fissa senza motivo. Si ostina a chiedere prove della loro reale esistenza ai propri maggiori protagonisti. Pretende dimostrazioni anche da chi ha dimostrato di essere “altro” rispetto al mondo degli umani.

La Storia gode nel vedere i suoi figli più cari disposti vicino. Ama i paragoni e le classifiche. O forse, semplicemente, le sopporta. “Messi è grande ma non sarà mai Maradona“. Un teorema elevato a sentenza dalla mancanza di successi in maglia albiceleste dell’erede designato.

La Storia si diverte ad accostarli. Noi la prendiamo sul serio. Cercando un po’ di preservare l’unicità dei ricordi. Ignorando le statistiche di una carriera irripetibile, per soffermarci su singoli episodi. Quella coppa del mondo sfuggita nella notte di Rio, quel rigore calciato lontano a New York contro il Cile. L’addio. Il ritorno. La paura di un mondiale sul divano.

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Un popolo, da Buenos Aires alla Patagonia, chiedeva una “prova” vera al dio del calcio. E la pretendeva in un luogo vicino al cielo: Quito, stadio El Atahualpa, 2850 metri di altezza. Ecuador-Argentina doveva essere la notte di Leo Messi. È stata uno schiaffo in faccia agli scettici. Tre gol, la capacità di portare 40 milioni di persone dall’inferno al paradiso, la naturale semplicità nell’essere normalmente speciale. Messi trascina l’Argentina in Russia, scacciando le streghe della vigilia e svegliando da un incubo la squadra di Sampaoli, colpita dopo 38 secondi da Ibarra.

Neanche in quel momento Leo ha cambiato faccia. Ha stretto la fascia attorno al braccio e si è messo al lavoro. Capitano senza teatralità, trascinatore con l’esempio, extraterrestre col pallone fra i piedi. Ci ha messo venti minuti per ribaltare il mondo. Prima una triangolazione con Di Maria chiusa con un beffardo tocco di punta: uno scambio da “potrero”, direttamente dalle stradine di Rosario. Poi un pallone riconquistato con una rabbia ancestrale e scagliato violentemente alle spalle di Banguera. La luce, finalmente. L’esultanza genuina, più da ragazzino felice che da uomo dei record. La sessantesima gioia in nazionale, la più attesa. “Ha dimostrato una volta di più di essere il vero padrone di questo gioco. Non ci sono parole per lui”, ha detto a fine partita Mascherano, uno che ha visto da vicino gran parte dei 581 gol segnati in carriera da Leo.

L’ultimo, il 61esimo, il sigillo della qualificazione, è un gioiello difficile da raccontare attraverso traiettorie terrene. Pallonetto dal limite dell’area, in corsa, fuori equilibrio, contro ogni regola. Un capolavoro festeggiato da tutta la squadra, panchina compresa. Tutti in campo ad abbracciare l’uomo della Provvidenza. Era il minuto 62, ma di fatto è stato il fischio finale.

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“Sarebbe stata una follia rimanere fuori dal mondiale. Non solo per me, ma per tutta l’Argentina”, le sue prime parole nel dopo partita. “Tante cose mi sono passate davanti dopo il loro vantaggio, ma ci siamo subito ripresi. Meritavamo la qualificazione, ora cresceremo, in Russia saremo un’altra cosa”.

Quasi una dichiarazione di guerra. La sensazione di avere un cerchio da chiudere con la Storia, quella che odia la solitudine dei numeri 10. Forse per questo, ogni tanto, ne fa nascere uno che continua quell’emozione così irrazionale. E così impossibile da paragonare. Il calcio questa volta ha vinto. Messi è al mondiale. Ancora una volta di fronte avrà Cristiano Ronaldo, che ha staccato il pass poche ore prima. Con tutta probabilità, arriveranno in Russia a parità di palloni d’oro. Cinque a testa. Sarà forse l’ultimo duello lontano dai club. Sarà l’ennesimo assalto alla leggenda per Leo. Perché dopo la notte di Quito, c’è già chi aspetta una notte moscovita a metà luglio.

Il “pioniere” Leonardo e una nuova tappa del suo viaggio: la Turchia

Leonardo_Nascimento_de_Araújo_2013-01-01Coraggio, cuore e curiosità. Tre “c” che riassumono le scelte della seconda vita nel calcio di Leonardo, nuovo allenatore dell’Antalyaspor.
Nuovo viaggio, sfida nuova di un uomo che ama essere esploratore e pioniere. A Milano, a Parigi e adesso in Turchia. Da sei anni non tornava in panchina: era il 29 maggio del 2011. A Roma, nella finale di Coppa Italia, la sua Inter batteva 3-1 il sorprendente Palermo di Delio Rossi. Doppietta decisiva di Samuel Eto’o, oggi stella dei turchi. Leonardo guarderà subito a lui per rialzare una squadra inchiodata al 13° posto, nonostante i milioni spesi daAli Şafak Öztürk, proprietario del club . Un presidente che non vuole perdere tempo: 33 anni, rampante petroliere con un fatturato annuo di 10 miliardi e zero voglia di galleggiare sui bassifondi della classifica.

La sua ambizione ha convinto il brasiliano, insieme alla curiosità per un campionato nuovo, la voglia di rimettersi in gioco, la possibilità di farlo con Nasri, Menez e il camerunense là davanti. Ricominciare dalla periferia del calcio. Dare un senso agli investimenti fatti. Quasi un déja vu per Leo, che nel 2011 ricevette dal nuovo PSG degli sceicchi la direzione sportiva del club. Manager lontano dal campo. Due anni a lavorare dietro le quinte per portare i parigini nel calcio che conta, ingaggiando Ancelotti, Ibrahimovic, Thiago Silva, Verratti e Cavani, prima di salutare a seguito di una discussa squalifica per uno scontro con l’arbitro Castro dopo un pareggio con il Valenciennes.

Zlatan_Ibrahimović_unveilingUn addio difficile, dopo aver messo il PSG sulla mappa del calcio europeo. Un congedo dalla squadra che, da giocatore, nel ’96 gli aveva dato la possibilità di mettersi in luce in Europa. Veniva dal campionato vinto con i Kashima Antlers in Giappone, paese cruciale per la sua carriera. A Tokio, infatti, nel ’93 il suo San Paolo sconfisse il Milan in coppa Intercontinentale. Nel frastuono delle trombette e nel dolore della sconfitta, i rossoneri fecero la sua conoscenza. Fu amore a prima vista, concretizzato nel ’97 e andato avanti per 13 anni. Prima in campo, poi come osservatore e infine come allenatore. Una scommessa durata un anno, finita dopo un campionato concluso al terzo posto e ricordato soprattutto per il modulo “4-2 e fantasia”. Ronaldinho, Pato e Borriello più Seedorf. Liberamente ispirato al Brasile di Telè Santana, croce e delizia di una stagione divertente ma non abbastanza vincente, secondo i vertici. “A un certo punto avevo pensato che il Milan fosse la mia eternità”, disse poco dopo l’addio. Sbagliava, ma da cittadino del mondo trovò il coraggio per rimettersi in viaggio. Spostandosi di una ventina di chilometri, la distanza che separa Milanello da Appiano Gentile. Il luogo più vicino e lontano che potesse scegliere. La panchina dell’Inter, al posto di Benitez, nell’anno dopo il triplete. La stima di Moratti, un secondo posto alle spalle proprio del Milan di Allegri, fino all’addio, dopo il citato trionfo in coppa Italia.

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Oggi a 48 anni Leonardo torna in campo. Di nuovo protagonista dopo l’esperienza da commentatore a Sky Sport. C’è un progetto da far crescere, un club che somiglia a una start up. Leonardo in gioventù voleva diventare ingegnere. Il calcio gli ha fatto prendere un’altra via. Un po’ come il suo illustre omonimo del Rinascimento, si è trovato a dipingere, affrescare, inventare, plasmare, restaurare.
Un artista a disposizione di un facoltoso mecenate. Avrà due anni per accontentarlo e fare dell’Antalyaspor una nuova Gioconda.

Il male in campo. Da Marco Pannella a Marco Russ

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Giacinto Marco Pannella, morto giovedì 19 maggio all’età di 86 anni

Alla fine Marco se n’è andato. Aveva 86 anni, vissuti da Pannella. Giacinto, il suo primo nome, quello che i genitori gli avevano attribuito all’alba degli anni ’30 a Teramo, non lo identificava più da decenni. Era il nome di uno zio, noto teologo e sacerdote. Da quell’eredità onomastica si era “smarcato” rumorosamente, facendo dell’anticlericalismo una delle sue tante bandiere. Dietro ai suoi vessilli si erano uniti peccatori erranti e borghesi in cerca di redenzione, tossici e pentiti di vario genere, dai reati, ai matrimoni, alle gravidanze. Aveva due tumori, uno ai polmoni e l’altro al fegato. Facevano a gara a chi l’avrebbe fatto fuori per primo. Uno dei due ha vinto e tutti hanno perso uno dei più grandi protagonisti del ‘900. Era normale che succedesse. Altan ha scritto che forse non è morto davvero, “ha solo iniziato uno sciopero della vita”.

Se n’è andato a 86 anni, fumando due pacchetti di Gauloises fino all’ultimo respiro. Se n’è andato così, dopo aver ricacciato nella palude migliaia di coccodrilli pronti da mesi. L’ultima resistenza serena di un’esistenza vorticosa. Pannella si era sempre battuto. Per quasi tutti contro quasi tutti. Per la libertà di sbagliare, di cambiare radicalmente lo scenario della propria vita senza doversi scusare con nessuno. Essere radicali, lontano dal radicalismo delle ideologie. Sempre nella stessa squadra, cambiando simboli e compagni di viaggio, ma rimanendo fragorosamente se stesso. Questa volta non ha lottato più di tanto. Il suo corpo, vilipeso e allo stesso tempo elevato a icona, si è arreso. È normale, a quell’età, dopo una vita straordinaria. Così è morto il difensore degli ultimi.

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Marco Russ, classe 1986, difensore dell’Eintracht Francoforte

Marco Russ invece non ha ancora trent’anni. Non fuma e non si batte per i diritti civili. È il difensore dei terz’ultimi della Bundesliga, l’Eintracht Francoforte. Ha sempre giocato lì, a parte una trascurabile e rapida esperienza al Wolfsburg. Non ha mai fatto uno sciopero della fame, nè un comizio. Anche lui fino a una settimana fa sapeva di dover lottare per salvarsi. Pensava che l’avversario fosse il Norimberga, terzo nella Zweite Liga, la serie B tedesca. In Germania, fanno così per stabilire l’ultimo posto in Bundesliga: terz’ultimi contro terzi, due categorie contro in un playoff. Andata e ritorno, Paradiso o Inferno.

Marco pensava che l’inferno fosse una retrocessione. Salvarsi dalla B. E lui è il capitano, l’uomo cui tutti guardano per uscire da un tunnel lungo 180 minuti, prima a Francoforte, poi a Norimberga. Ma pochi giorni prima della gara di andata, il difensore viene informato che c’è un’altra galleria ad aspettarlo. È stato trovato positivo all’antidoping il 30 aprile scorso dopo Darmstadt-Eintracht. Una gara vinta 2-1 in rimonta. Se lo ricorda quel giorno: era stanco, felice e tranquillo. Non aveva sostanze proibite da nascondere. E allora com’è possibile che sia positivo al doping? I risultati delle sue analisi danno valori folli. Un livello altissimo di Hcg, l’ormone della crescita. Troppo alto per essere doping. “Può essere qualcosa di peggio”, avvertono i medici. Le visite successive dicono che “quel qualcosa di peggio” è ciò che temevano. È un tumore ai testicoli. Marco Russ, capitano dell’Eintracht Francoforte, 29 anni e due figli, adesso sa da cosa deve salvarsi.

Dubito che il Marco di Francoforte abbia letto nelle scorse settimane una delle ultime interviste rilasciate dal Marco di Teramo. Il leader radicale sosteneva di continuare con la sua vita di sempre. “I tumori su di me non hanno effetto”, diceva Pannella a Emiliano Liuzzi. Un colpo al cuore avrebbe invece portato via, pochi giorni dopo, il suo intervistatore. Un giocatore come Russ sarebbe piaciuto al livornese Liuzzi: arcigno e tignoso come la gente della sua terra. Attaccato alla maglia e alla professione, nella buona e nella cattiva sorte. Non l’ha letta Russ quella pagina del Fatto Quotidiano, ma si comporta come se l’avesse fatto.

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Russ è capitano dell’Eintracht dal 2013

“I tumori su di me non hanno effetto”. Pannella raccontava una bugia, ma non del tutto. Il male, così invasivo e presente sul corpo, non doveva distoglierlo dagli obiettivi di una vita. Non doveva cambiare abitudini e attitudini. E fino alla fine ha giocato la sua partita. A Francoforte, mercoledì 18 maggio, un ragazzo più giovane di oltre mezzo secolo, col suo stesso nome e il suo identico avversario, decideva di non lasciarsi vincere. “Sto bene, posso giocare”, dice Russ a mister Nico Kovac, il suo allenatore. “Dobbiamo salvarci, voglio aiutare la squadra”. È quel “noi” che può salvarlo, in realtà. Quella voglia di continuare a mettersi il parastinchi, allacciarsi gli scarpini, fare uno scherzo al compagno accanto in spogliatoio. È il desiderio di non ricevere pacche sulle spalle e di non trovare volti commiserevoli. Marco vuole scendere in campo. La federazione, viste le straordinarie circostanze, non l’ha sospeso per la positività all’antidoping. All’Eintracht sono tutti d’accordo: il capitano gioca.

Unknown-1“I tumori su di me non hanno effetto”. Forse lo pensava davvero Marco Pannella nella sua casa di via della Panetteria, ma giovedì 19, alle 14:02, viene definitivamente smentito. Mancano sei ore alla partita della Commerzbank Arena di Francoforte. Russ è nella sua camera e pensa a che effetto gli farà entrare nel suo stadio per quella che potrebbe essere…no, questo non vuole pensarlo. Ma ci pensa, perché sarà anche un duro ma è pur sempre un uomo. Tutta la sicurezza che ha mostrato e trasmesso ai suoi compagni è lo scudo dietro al quale si nasconde. Quello che gli passa per la testa deve avere le sembianze di guerre stellari. Ma questo gli altri non possono né devono vederlo. Lo aspettano 50 mila tifosi là fuori. Hanno preparato uno striscione. C’è scritto: “Marco, lottare e vincere”. Sbrigativi, concisi. Tedeschi. Lo spread con il lirismo mediterraneo è evidente, ma quando il capitano sbuca dal tunnel, il boato è assordante. Sognano di vincere con un suo gol. Il romanticismo, anche se a volte non ce lo ricordiamo, l’hanno inventato loro.

Sarebbe una bella favola se la rete salvezza arrivasse proprio dall’uomo che dovrà salvarsi, ma Disney non passava da Francoforte quella sera. Anzi. Minuto 43 del primo tempo: un cross dalla trequarti di Sebastian Kerk, mancino del Norimberga, attraversa l’area dell’Eintracht. Vanno tutti a vuoto. Tutti tranne Marco Russ, che di destro infila il portiere. Il suo. Autogol. Le telecamere indugiano sul capitano dei padroni di casa. Chissà se vede e sente quello che succede intorno a lui. Fa per portarsi le mani sul volto, ma non finisce il gesto. Lo fanno i compagni accanto a lui, increduli, scioccati, sani. Marco ha sbagliato e lo sanno tutti. Lo sa anche lui. Nessuno lo rimprovera. È stato un eccesso di generosità, un autogol “radicale”. Intento lodevole, risultato da dimenticare. Il suo omonimo da lassù potrebbe raccontargliene di esperienze simili, di autoreti elettorali e di scelte sbagliate.

                                       Le azioni salienti della gara di andata Eintracht-Norimberga

Russ è frastornato, ma rientra in campo nella ripresa. Vorrebbe spaccare il mondo. Accelera, ma ha i freni rotti. Al 56′ cerca l’azione personale. Caparbia e sgangherata: un ritratto della sua vita da 48 ore. Perde palla e commette un duro fallo su Hanno Behrens, mediano avversario. Tutto troppo veloce per chi ha troppe cose a cui pensare. Chissà se si ricorda che era diffidato mentre l’arbitro gli sventola il cartellino giallo. Chissà cosa grida quando va a un centimetro dal naso del signor Daniel Siebert, 32 anni, professione studente. Lunedì 23 maggio, Russ non potrà giocare a Norimberga la gara di ritorno. Forse non avrebbe potuto farlo lo stesso. I medici avevano deciso di posticipare l’operazione al massimo a martedì 24. Magari li avrebbe convinti a spostarla ancora un paio di giorni. O forse aveva già deciso che non era più tempo per inseguire il pallone. Da guerriero è andato in battaglia, ma un padre di famiglia non può perdere la guerra.

Marco Russ

Marco Russ a fine partita con i due figli

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L’abbraccio tra Russ e Gacinovic

Alla fine comunque non perde neanche l’Eintracht. Il pareggio lo sigla Mijat Gacinovic. È il suo primo gol con la maglia dei rossoneri di Francoforte. L’ha indossata per 400 minuti in tutta la sua vita. Russ per oltre 21 mila. Quando l’arbitra fischia la fine, Marco non sa se ci saranno altri secondi per lui con quella divisa addosso. Non piange. Difficile che lo faccia un tedesco. Condivide e  sorride, perché una serena resistenza al male passa anche per la condivisione di attimi con le persone amate. Matteo Angioli e Laura Hurt sono stati gli angeli custodi di Pannella nei momenti di sofferenza più intima. Quelli di Marco Russ sono piccoli, inconsapevoli e biondissimi. I suoi figli, che lo accompagnano in uno struggente cammino verso gli spogliatoi. Ci saranno anche martedì fuori dalla sala operatoria, quando loro padre non avrà intorno 50 mila tifosi. E forse sarà retrocesso o doppiamente salvo.

Ma lotterà per tornare a “calpestare nuove aiuole”. Come il signor Hood, il Marco di Teramo, che lassù starà già combinando qualche casino.

                   Signor Hood di Francesco de Gregori. Dedicata a Marco Pannella. Era il 1975.

Zidane, unico profeta di Saint-Denis

Coupe du Monde 98

Zinedine Zidane, eroe della notte di Saint Denis.

Che bella quella notte a Saint-Denis. Era il 12 luglio del 1998, il momento che i francesi aspettavano da una vita. La finale della Coppa del mondo in casa. Migliaia di bandiere tricolori e 80 mila ugole orgogliose che cantano la Marsigliese, l’haka vocale di un popolo abituato a combattere.

Fußball-WM: Zinedine Zidane küßt den Weltcup

Zidane bacia la Coppa del mondo. È il 12 luglio 1998.

Quella notte la Francia vinse 3-0 contro il Brasile. Campioni del mondo per la prima volta. Capitan Deschamps che alza il trofeo in mezzo a milioni di coriandoli rossi, bianchi e blu. Laurent Blanc che bacia la pelata di Fabien Barthez, mentre 60 milioni di francesi accarezzano idealmente il capo fatato di Zinedine Zidane, autore dei due colpi di testa decisivi.

Due zuccate di un marsigliese, figlio di un pastore musulmano algerino. Suo padre, Smail, era arrivato in Francia dal nord dell’Algeria per cercare lavoro nel 1953. Nove anni passati a fare il muratore a Marsiglia, in un’epoca in cui i muri diventano strumenti politici e le colonie ottengono l’indipendenza. Succede anche in Algeria, nel 1962.

Smail Zidane vorrebbe tornare là, è già con un piede sulla nave quando uno sguardo lo inchioda a Marsiglia. E’ quello di Malika, francese e originaria, come lui, della Cabilia. L’Algeria può attendere. Smail e Malika ci mettono poco a diventare i coniugi Zidane. Fanno cinque figli: quattro maschi e una femmina, Lila. A Berlino in una finale, otto anni dopo, l’eroe dello Stade de France la difenderà con una testata più amara ma ugualmente decisiva.

Zinedine è l’ultimo a nascere, nel 1972, dieci anni dopo il rendez-vous marsigliese. Diventerà il figlio prediletto della Francia post coloniale, il simbolo di una nuova generazione che vede nel pallone lo strumento per emanciparsi. Il suo nome in arabo significa “la bellezza della religione”. Nella Parigi del 1998 è Napoleone, Re Sole e Marianne fusi in un solo corpo. E’ l’idolo di tutti, dalle banlieues a Versailles. La Francia è ai suoi piedi e grazie a loro una popolazione eterogenea riscopre la grandeur. 

Zizou aggira le barriere in campo e fuori. Traiettorie magiche sull’erba e carisma pacato di un ragazzo del popolo che ce l’ha fatta. In quell’estate del ’98 i sociologi parlano di “generazione Zidane”, di un Paese che scopre la sua nuova identità meticcia e ne prende vigore. La nazionale che sconfigge il Brasile è un mix di francesi di prima, seconda e terza generazione. C’è chi viene dal Senegal o da Capo Verde come Vieira e Karembeu. Ci sono gli armeni Boghossian e Djorkaeff. C’è il basco Lizarazu ma anche l’argentino Trezeguet. Desailly è nato in Ghana, mentre Thuram – eroe della semifinale con la Croazia – è della Guadalupe.

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La Francia campione del mondo 1998

Quel 12 luglio sono tutti in campo, accanto a Leboeuf, Deschamps, Guivarc’h. Chi se ne frega delle loro origini. Sono la Francia. La nuova Francia. Tutti al servizio di Zinedine. Un dio laico che non si fa mai pregare, né sotto porta, né quando c’è da regalare un sorriso ai ragazzi delle periferie. Gente come lui, che s’identifica nel suo numero 10 e nella sua scalata scalata.

Quell’estate “la bellezza della religione” fece esplodere di gioia lo Stade de France. Diciassette anni dopo, Bilal Hadfi, francese musulmano, avrebbe provato a fare la stessa cosa. Senza gioia però.

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Bilal Hadli, kamikaze francese che si è fatto esplodere nei pressi dello Stade de France

Senza il 10 sulle spalle e senza palla al piede. O forse sì, con quella di chi è destinato a essere prigioniero. Di paranoie pseudo-religiose. Dell’abbaglio di chi ha intravisto confusamente la luce in fondo al proprio tunnel. Aveva vent’anni. Voleva la strage, si è dovuto accontentare di un goffo suicidio senza ulteriori vittime. Morto per difendere l’onore del profeta Maometto nel luogo che riconosce un solo profeta: Zizou, la bellezza della religione. La sola che unirà sempre Saint-Denis.

Chi è Maria Rosaria Rossi, la “badante” di Forza Italia

Maria Rosaria Rossi, 43 anni, è la tesoriera di Forza Italia e dirige lo staff personale di Berlusconi

Maria Rosaria Rossi, 43 anni, è la tesoriera di Forza Italia e dirige lo staff personale di Berlusconi

Tutto passa da lei. I soldi, i nomi delle liste per le elezioni regionali, il rinnovamento del gruppo politico. Maria Rosaria Rossi, 43 anni, parlamentare dal 2008 è ormai la plenipotenziaria di Forza Italia. Il partito, o quello che ne rimane, è nelle sue mani. Tesoriera dal maggio scorso, “badante” di Silvio Berlusconi da almeno un lustro. Sempre presente a fianco dell’ex premier, quasi mai in Senato, dove figura fra le parlamentari più assenteiste.

Maria Rosaria Rossi a colloquio con Silvio Berlusconi

Maria Rosaria Rossi a colloquio con Silvio Berlusconi

Gli impegni del resto non le mancano. Perché l’ex Cavaliere non fa un passo senza di lei. È l’unica di cui si fida veramente. Per questo le ha affidato i conti di Forza Italia. E lei con scrupolosa meticolosità si è messa al lavoro. Accorgendosi che quel termine “tesoriera” suona piuttosto beffardo. “Ah, voi giornalisti chiamandomi così mi avete illuso che avrei trovato un tesoro. E invece trovo solo debiti. Chiamatemi debitiera…”, disse nell’estate scorsa, un paio di mesi dopo aver preso il posto di Sandro Bondi nella gestione finanziaria di Forza Italia. Un avvicendamento che l’ex fedelissimo di Berlusconi prese con filosofia. “Una cosa è certa: non abbandonerò mai né Silvio, né Forza Italia”, sostenne con passione. Certezze frantumate dagli eventi. [Read more…]

La favola del Concarneau e del bomber clandestino

Lo stadio Guy Piriou di Concarneau, teatro della sfida fra la squadra locale e il Guingamp

Lo stadio Guy Piriou di Concarneau, teatro della sfida fra la squadra locale e il Guingamp

Cenerentola che va a ballare. David contro Golia. Lo sport si nutre, Lotito lo voglia o meno, di piccole realtà che sfidano le grandi potenze. Il calcio, soprattutto, è la cornice perfetta di storie di riscatto. Personali e collettive. Le coppe nazionali sono frequentemente il teatro di favole sportive. Squadre dilettantistiche che scalano il tabellone fino a confrontarsi contro compagini titolate, professionali e professionistiche. Ma per 90 minuti, manovali del pallone e stelle strapagate condividono lo stesso palcoscenico e inseguono il medesimo obiettivo. E spesso l’ostinata determinazione della manovalanza calcistica sovverte i valori tecnici.

La Coppa di Francia

La Coppa di Francia

Stasera il Concarneau, squadra della quarta serie del campionato francese,  affronta il Guingamp, titolata formazione della Ligue 1. Un derby bretone fra due città distanti cento minuti di auto e quattro categorie calcistiche. Chi vince va in semifinale di Coppa di Francia. Ossia fra le prime 4 squadre francesi. Un risultato pazzesco per una squadra dilettantistica, un’impresa che ricorda quella del piccolo Calais che nel 2000 arrivò a giocarsi la finale allo Stade de France davanti a 80 mila spettatori. È la formula della Coppa di Francia a permetterlo: un tabellone che apre le porte a tutte le squadre richiedenti. Dilettanti allo sbaraglio nei primi turni, squadre forti che entrano in gara nei turni successivi.

Uno scenario perfetto per storie da film. Come quella del Calais del 2000, sconfitto da un rigore all’ultimo minuto in finale. O come quella del Quevilly, battuto per 1-0 dal Lione, tre stagioni fa nell’ultimo atto a Parigi. Squadre della periferia del calcio francese, protagoniste di cavalcate epiche e romanzesche. Sempre sconfitte contro gli ultimi mulini a vento, indimenticabili nella mente di chi ama il connubio fra calcio e romanticismo.

Nicolas Cloarec, allenatore del Concarneau da 10 anni

Nicolas Cloarec, allenatore del Concarneau da 10 anni

Ora tocca al Concarneau sfidare i detentori del Guingamp. Una sfida sentitissima, la seconda in due anni nella Coppa di Francia. L’anno scorso il Guingamp s’impose ai supplementari per 3-2, spegnendo il sogno dei 6 mila tifosi accorsi allo stadio Guy Piriou (costruttore navale deceduto cinque anni fa e benefattore del club bretone). “Abbiamo tutto per farcela”, ammonisce Nicolas Cloarec, 37 anni, gli ultimi dieci passati ad allenare gli spavaldi dilettanti di Concarneau.

Herman Korè, 31 anni, centravanti ivoriano del Concarneau

Herman Korè, 31 anni, centravanti ivoriano del Concarneau

Parole che accendono i sogni della cittadina cara a Simenon, che ambientò lì due romanzi degli anni ’30, Il cane giallo e Le signorine di Concarneau. Il primo con Maigret, il secondo senza. La penna di uno scrittore allora, i tacchetti dei calciatori oggi. Protagonisti diversi per romanzi differenti. E chissà che il finale possa scriverlo il più improbabile degli eroi. Si chiama Herman Koré, ha 31 anni e viene dalla Costa d’Avorio. È arrivato in Francia una dozzina d’anni fa, imbarcandosi clandestinamente a ruota della squadra nazionale di rugby juniores. Senza documenti, ha passato notti a nascondersi per le strade di Saint-Denis, a pochi passi da quello stadio in cui fra un paio di mesi si gioca una finale che Konè vede lontana solo 180 minuti.

“Le persone non sapevano chi ero, inventavo un sacco di storie sulla mia identità”, racconta Herman, centravanti per diletto e possessore di un permesso di soggiorno dal 2009. Una storia incredibile. Qualche allenamento di rugby, a Tours, insieme al cugino Silvére Tian. Poi il tentativo di fuga in Irlanda per raggiungere la sorella. I frontalieri lo bloccano. Viene dato in affidamento a una famiglia si Saint-Lo. Si mette a lavorare e gioca nella squadra dilettantistica locale. A calcio, finalmente. Ottiene i documenti e segna. Tanto. Poca tecnica, chilometri di cuore. Nel 2011 viene acquistato dal Concarneau. Oggi sogna di giocare 15 minuti e di risolvere la sfida titanica con un colpo di testa.

“Herman ha vissuto tanto tempo nell’ombra. E ora ha la possibilità di trovare la luce”, dice di lui mister Cloarec. Favole da Coppa di Francia. Storie di calcio. Ma non dite che è solo un gioco.

La storia di Chris Wright, dalla sclerosi multipla all’Nba

Chris Wright con la maglia di Pesaro

Chris Wright con la maglia di Pesaro

Chris Wright è un cestista americano di 25 anni che cerca gloria nei campionati europei. Uno come tanti, si direbbe. Da poco più di un mese è sbarcato a Pesaro, dove sta cercando di salvare la squadra locale dalla retrocessione. Salvarsi. Si dice così, nello sport, quando ci si trova a un passo dal baratro. Dimenticandosi che, cadendoci, al massimo si gioca un campionato più scarso, in campi più brutti e con meno pubblico. Un dramma molto relativo.

Chris Wright da Bowie, cittadina del Maryland, non teme di retrocedere. Sa bene cos’è un dramma, vivendolo ogni giorno. Da tre anni combatte ogni giorno lo stesso avversario. Un nemico senza maglia, né passaporto, ma con un nome che terrorizza: sclerosi multipla. Gliel’hanno diagnosticata nel 2012. Era in Turchia. Si stava allenando coi compagni quando è crollato a terra. Per i medici era appena finita la sua carriera. Non avevano fatto i conti con lui. “Ho combattuto, non mi sono arreso. Sapevo che ci sarebbe stato un percorso da fare, ma che alla fine sarebbe stata una bella storia”. [Read more…]

La sinistra polacca punta sulla bellezza: votate Magdalena

Magdalena Ogorek, candidata socialdemocratica alla presidenza della Polonia

Magdalena Ogorek, candidata socialdemocratica alla presidenza della Polonia

La sinistra europea guarda alla Polonia con un occhio diverso. E non lo fa solo pensando a possibili riforme politiche, ma anche alle forme della candidata socialdemocratica alle elezioni presidenziali del 10 maggio.

Magdalena Ogorek, 35 anni, alta, bionda e occhi azzurri. L’Alleanza della Sinistra democratica polacca punta su di lei per tornare a occupare la poltrona più prestigiosa di Varsavia. Una scelta affascinante e contestata quella dello schieramento nato nel 1990 dalle ceneri del Partito operaio unico. Quello per capirsi guidato in passato da Gomulka e Jaruzelski, rigidi burocrati storicamente poco sensibili al fascino femminili. [Read more…]

Tsipras e Renzi, diversamente quarantenni

Alexis Tsipras incontra Matteo Renzi

Alexis Tsipras incontra Matteo Renzi

Un’ora di confronto. Sicuramente per conoscersi. Per aiutarsi, forse. L’incontro a palazzo Chigi fra Matteo Renzi e Alexis Tsipras ha inaugurato il tour europeo del nuovo primo ministro greco. Un tentativo del numero uno di Syriza di spiegare lontano da Atene le posizioni del suo governo. Un viaggio per convincere le cancellerie che c’è bisogno di un’Europa diversa.

Tsipras non vuole dare l’idea di un mendicante che gira per le capitali col cappello in mano. Le sue parole sono focalizzate sulla necessità urgente di un cambio di passo. “Le politiche di austerità della Troika ha portato la Grecia ad avere un debito al 179%. Ha ulteriormente impoverito le famiglie” – attacca il premier ateniese – “Noi vogliamo soluzioni di reciproco vantaggio, proponiamo nuove riforme senza creare altri deficit o dover pagare nuovi prestiti”. [Read more…]