Luca Gerbino, emigrante di successo nella Svezia del pallone

WhatsApp_Image_2017-11-09_at_20.24.05_1In queste ore, qui in Svezia i nostri calciatori sono sulle prime pagine. ImmobileInsigneDe Rossi, Buffon: tutti protagonisti, ma il primo ad averci “messo la faccia” è stato un ragazzo di Treviso. Si chiama Luca Gerbino Polo. Il suo nome in Italia lo ricorderanno in pochi, ma a Bromma, quartiere di Stoccolma, è quasi una piccola celebrità.

“Sono in molti a fermarmi nei bar, nei ristoranti, anche solo per stringermi la mano o farmi i complimenti”. Sì, perché una sua rete all’82’ contro il Dalkur ha regalato la promozione nella serie A svedese (Allsvenska) con tre turni di anticipo al Brommapojkarna. Letteralmente “i ragazzi di Bromma”, squadra del quartiere dove Luca vive.

Ma Bromma, Stoccolma, la Svezia, non sono esattamente a due passi da Treviso, la sua Treviso. “Sono arrivato qui nell’estate del 2013 – racconta ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – perché ero stufo delle situazioni che trovavo in Italia”. Anni passati nelle serie minori, poi la svolta. “Ho giocato sempre in Serie C, fra Ravenna e Rimini, ma c‘era sempre qualcosa che non andava”. Figlio di una romagnola, da quelle parti si è sempre sentito un po’ a casa. Lasciarla non è stato uno scherzo ma in questa scelta anche il cuore ha avuto la sua parte: Carin, la sua ragazza è italo-svedese. “Abbiamo deciso insieme di venire a Stoccolma. Era l’inizio del 2013. Un freddo pazzesco. Presi un paio di pestoni in allenamento che ancora me li ricordo.

WhatsApp_Image_2017-11-09_at_20.24.03_2Prima esperienza al Vasta Syrianska, poi 21 reti in 23 partite all’Akropolis. Squadre di migranti, prima i siriani, poi i greci. Fino al salto in Serie B, o SuperEttan, come si chiama qui, con la squadra del suo quartiere. Paradossalmente, un profeta in patria. “È una società emergente, con un settore giovanile incredibile, formato da 4mila atleti, ragazzi e ragazze”. Un fiore all’occhiello certificato nell’ insegna all’ingresso del Grimsta Idrottsats, lo stadio di casa: “benvenuti nel club più grande d’Europa”.

Nel 2014, il Brommapojkarna sfidò il Torino in un preliminare di Europa League conquistato grazie ai punti del fair play. Un club poi decaduto e risalito grazie a Gerbino, ma anche a un allenatore che ha giocato anche da noi: Olaf Mellberg, centrale difensivo della Juve di Del Neri e capitano della Svezia del 2004. Sì, quella del presunto biscotto. “Io non gli ho mai chiesto niente di quella partita, non prenderei mai questa confidenza. Con lui mi trovo bene, è uno tosto, pretende tanto, ma se abbiamo vinto il campionato c’è anche tanto di suo”.

Adesso per Gerbino si spalancano le porte della massima serie. Parla svedese correttamente grazie ai programmi di apprendimento per migranti. Ha studiato e continua a farlo: una laurea alle porte in Service management, un futuro protetto da tre lingue parlate fluentemente. “In Svezia è impossibile vivere di rendita col calcio. Lo stipendio medio all’anno in B è 25 mila euro netti. In A sono 8 mila al mese. Lordi, però. Bisogna sapersi organizzare per tempo. Io sto cercando di farlo”.

Il futuro di Luca potrebbe essere ovunque. “Non ho nostalgia particolare dell’Italia, né sento il desiderio di passare tutta la vita in Svezia. Voglio tenermi aperte tutte le porte”.

L’anno prossimo però cercherà soprattutto di violarle. Negli stadi svedesi in cui non ha ancora giocato. Quelli tipo la Friends Arena. Sarà lì per vedere gli azzurri, col biglietto regalato dalla sua società. Settore svedese. “Obblighi societari, ma state sicuri che se faremo gol, esulterò”.

L’eliminazione dell’Italia nel ‘58, raccontata da Gino Pivatelli: “Io c’ero”

Gino_Pivatelli

“E chi se la dimentica quella partita? Avrei dato un braccio per andare al mondialeMi viene ancora da piangere se ci penso”. Il signore dall’altra parte della cornetta fa una lunga pausa. Sospira e forse una lacrima gli scende davvero. Gino Pivatelli, nel 1958, era il centravanti della nazionale che fallì la qualificazione ai mondiali contro l’Irlanda del Nord. Quel 15 gennaio era in campo a Belfast. Aveva 24 anni. Oggi ne ha 84 e vive a Bologna con la moglie Luisa, sposata nel ’58 “nel periodo in cui saremmo dovuti andare in Svezia per la Coppa del Mondo”, racconta al microfono di Gianlucadimarzio.com. “Avevo anche pensato di portarla a vedere i mondiali in viaggio di nozze. Ma alla fine preferimmo fermarci in Danimarca dai miei compagni al Bologna Jensen e Pilmark. Meglio così, mi sarei solo arrabbiato di nuovo”.

E sessant’anni dopo, quell’amarezza è ancora lì, tangibile e indifferente al tempo trascorso. “Non fu un incontro di calcio, fu una vergogna. Giocammo su un terreno scandaloso, una palude di fango. Sembravano sabbie mobili, si andava giù fino alla caviglia”. E anche un bomber come Pivatelli, 146 gol in carriera, quel giorno rimase all’asciutto. “Ebbi un paio di occasioni nel primo tempo che se mi capitassero adesso, lì fuori nel giardino, farei sicuramente due gol. Là facevi fatica a prendere la palla. No, non si doveva permettere di giocare una partita del genere. Ma sa, con quell’arbitro lì…”.

Istvan Zsolt, fischietto ungherese. Il vero colpevole – secondo Pivatelli – della sconfitta di Belfast. “La sua figura è la prima immagine che mi viene in mente di quella sfida. Me lo ricordo come se ce l’avessi davanti ora: senza capelli, con la pancia, ci fischiò tutto contro. Buttò fuori Ghiggia, ma fu solo la ciliegina sulla torta. Avevo anche l’impressione che fosse un po’ ubriaco. Mi deve un mondiale, quel signore lì”, continua il secondo marcatore di sempre della storia del Bologna dopo Pascutti. Un giocatore capace, nel 1963, di vincere una Coppa dei Campioni con il Milan contro il Benfica a Wembley. “Devo ringraziare Altafini, il più grande giocatore con cui abbia mai giocato. Fece una doppietta. Di là c’era Eusebio, ma anche lui dovette arrendersi. Josè in quelle giornate era troppo anche per lui”.

Una grande gioia che mitiga ma non cancella la delusione di Belfast.“Piangevamo tutti di rabbia negli spogliatoi. Anche gli oriundi, che a differenza di quello che si è detto in seguito, tenevano tantissimo alla maglia azzurra. Da Costa era uno dei più inconsolabili, altro che menefreghisti. Per non parlare di Schiaffino: un uomo e un atleta eccezionale. Aveva sempre un gesto o una parola giusta, anche là negli spogliatoi di Belfast. Un esempio vero”.

Pivatelli difende anche il commissario tecnico Foni, messo all’epoca sotto accusa dalla stampa per una formazione troppo spregiudicata: “Macché, lui è sempre stato un difensivista. Noi avevamo giocatori fortissimi nel tenere palla. Quello era il nostro piano e quello avremmo fatto. Il problema è che su quel maledetto campo non si stava neanche in piedi. Che doveva fare Foni? Era uno capace e anche una brava persona. Come Ventura del resto”.

Da Belfast a Stoccolma, una storia che non si deve ripetere. “Siamo in buone mani. Giampiero è un amico e un uomo di grande esperienza. Saprà mettere in campo una squadra adeguata. Sono molto fiducioso, non penso che falliremo quest’appuntamento”.

L’ex giocatore rossoblù da qualche anno non frequenta più lo stadio ma continua a seguire il campionato, con un occhio particolare per i club nei quali ha militato più a lungo, Bologna e Milan. “Di attaccanti col mio tiro non ne vedo tanti. Fanno più movimento di quello che facevo io di sicuro, però a calciare non so… Per il resto, mi piacerebbe veder vincere lo scudetto al Napoli. Lì ho giocato una stagione sola, ma mi è bastato per apprezzare quel pubblico fantastico. Auguro ai napoletani di festeggiare questo titolo, se lo meritano proprio”.

Pivatelli saluta e torna dalla moglie Luisa. Tra qualche mese festeggeranno 60 anni di matrimonio. Un amore coronato dopo una grande delusione sportivo. E alla fine ciò che è veramente rimasto di quel 1958 è ancora lì accanto a lui.

Italia 1958: l’anno di “Volare” e della Nazionale fuori dal mondiale

Alfredo_Foni_(allenatore)

L’ultimo anno di apertura delle case chiuse. Domenico Modugno che canta “Nel blu dipinto di blu” dal palco dell’Ariston a Sanremo. La Democrazia Cristiana al governo. Un bergamasco diventa pontefice e tutti lo ricorderanno come il “Papa buono”. L’inizio della Dolce Vita, qualche strada più in là, dall’altra parte del Tevere. Fotogrammi sparsi del 1958 in Italia. Storie di un anno da ricordare. O da dimenticare, perché quel 1958 si giocava un mondiale in Svezia. L’unico al quale non ci siamo qualificati da quando rotola un pallone.

Colpa di una partita. Maledizione di una notte di mezzo inverno a Belfast. Irlanda del Nord-Italia, 15 gennaio, stadio Windsor Park, ultima giornata del gruppo 8. Agli azzurri basta un pareggio per qualificarsi. Dimenticate i gironi lunghi di oggi. Raggruppamento a tre: noi, gli irlandesi e il Portogallo. Passa solo la prima. I lusitani, con 3 punti in classifica, sono fuori dai giochi. Con loro abbiamo perso a Lisbona e vinto a San Siro. Un doppio 3-0, ma il secondo ci permette di giocarci con relativa serenità l’ultima sfida. Abbiamo 4 punti, frutto di una vittoria di misura all’andata sull’Irlanda del Nord. Il ritorno, contro di loro, in realtà, l’avremmo già giocato a inizio dicembre, prima della vittoria coi portoghesi a Milano.

Un onorevole 2-2 nel fango, ma senza l’arbitro ufficiale; l’ungherese Istvan Zsolt è rimasto bloccato dalla nebbia a Londra. Il signor Tommy Mitchell da Belfast, professione panettiere, non viene accettato come “official referee” dalla nostra federazione. E allora si gioca una semplice amichevole. Per modo di dire, perché mai definizione fu più sbagliata.

Quell’incontro sarà sempre ricordato come la “battaglia di Belfast”: provocazioni continue sul campo e dagli spalti, invasione non pacifica del pubblico, giocatori malmenati. Un pandemonio originato da una dichiarazione estiva di Eddie Firmani, attaccante sudafricano della Sampdoria. Il giocatore avrebbe parlato alla stampa inglese, paragonando la Serie A a una sorta di laboratorio del doping. I britannici sono lettori attenti e spettatori irascibili. La notizia gira in fretta, i mezzi dell’epoca sono troppo scarsi per verificarla. Migliaia di irlandesi vogliono ripristinare a modo loro la lealtà sportiva. In quel marasma finiamo noi in 10. Mitchell “il panettiere” espelle Chiappella, nostro centromediano metodista (ruolo di cerniera fra difesa e metà campo) per un fallo di reazione su Danny Branchflower, idolo locale e stella del Tottenham.

Manca più di un mese alla partita vera, ma il mondiale iniziamo a perderlo quella sera. A Belfast ci guardiamo allo specchio e scopriamo di essere talentuosi ma leggeri. La squadra è allenata da Alfredo Foni. Ha vinto due scudetti con l’Inter puntando più a non prenderne. Si chiama catenaccio, pensiamo di averlo inventato noi, ma prima di tutti ce lo hanno insegnato gli svizzeri. Che nel mondiale a casa loro, 4 anni prima, ci hanno eliminato così. Loro lo chiamano verrou, ma è la stessa cosa.

Il nostro gruppo del ‘58 ha più pittori che muratori. Alcuni non sono fiori dei nostri vivai. È l’epoca degli oriundi, giocatori naturalizzati grazie a qualche parentela lontana o ai buoni uffici della dirigenza. Tutti giocatori offensivi: l’argentino Montuori, il brasiliano Da Costa e i due assi di Montevideo, Ghiggia e Schiaffino, che nel ’50 fecero piangere il Brasile con l’Uruguay. Dal Maracanazo a Windsor Park, otto anni dopo.

Foni decide di schierarli tutti nella notte che ci deve portare al mondiale. E a loro aggiunge anche Pivatelli, centravanti del Bologna. Lo schema in campo è il celebre “sistema”, o WM: 3-2-2-3. Giocava così il Grande Torino sparito tragicamente a Superga. Ci vogliono personalità spiccate e qualità tecniche eccezionali per giocare così. E magari, un campo da gioco in buone condizioni. Desiderio incompatibile con l’inverno di Belfast. Si gioca in una palude di fango. In cui affoghiamo, inconsistenti a centrocampo, assediati dietro. I primi 45 minuti smascherano i nostri difetti. Prima McIllroy con un tiro da fuori, poi Cush alla fine di un’azione corale trafiggono il nostro Bugatti. Andiamo al riposo sotto di due reti, Ci serve un miracolo per andare al mondiale. Un errore del portiere nordirlandese a inizio ripresa consente a Da Costa di riaprire i giochi. Ci proviamo, anche perché in porta c’è Uprichard, sostituto dell’ultim’ora di Gregg, bloccato a Londra dalla nebbia. Come successe al signor Zsolt un mese prima. Questa volta invece, l’ungherese è al suo posto in campo e a venti minuti dalla fine spegne le nostre ultime speranze. Cartellino rosso per Ghiggia che perde la testa contro il terzino McMichael. È l’emblema della frustrazione di una squadra che sprofonda e non reagisce più.

Fino al fischio finale. Siamo fuori dal mondiale di Svezia. Quello in cui Pelé si rivela al mondo, l’ultimo a cui non partecipiamo.

Questa volta dobbiamo passare dalla Svezia per giocare la Coppa del Mondo. Abbiamo due oriundi brasiliani in rosa: uno in attacco e uno chiamato a rinforzare il centrocampo. Perché forse la nostra qualificazione passerà da lì. A Stoccolma, a Milano, come a Belfast sessant’anni fa. Scelte decisive per volare in Russia. Come avrebbe detto Modugno ieri. O come dice Rovazzi oggi. Perché la nazionale è di tutti.

Claudio Giambene

Simone e Pippo​. Il momento magico​ dei fratelli Inzaghi

Fratelli_inzaghiEssere un Inzaghi, oggi, è qualcosa di magico. Mamma Marina e papà Giancarlo possono guardarsi negli occhi, sorridere e godersi il momento. Filippo e Simone, i loro figli, sono i fratelli più forti del calcio italiano.

Pippo, il primogenito, ha battuto l’Empoli e lo ha agganciato in testa alla classifica della serie B; il più piccolo, invece, una settimana fa ha battuto la Juve a Torino. E si è ripetuto a Nizza giovedì. La sua Lazio è terza in Italia e a punteggio pieno in Europa. Marina e Giancarlo sanno che non è un caso il loro successo. Fin dai tempi di San Nicolò, provincia di Piacenza: bambini felici solo con un pallone fra i piedi. Il gol a fare da spartiacque tra la gioia e la tristezza.

Soprattutto per Filippo, arrivare primo, sul pallone o in classifica, è sempre stato una questione di felicità. Forse anche per questo i suoi 316 gol da professionista sono sempre stati festeggiati in modo elettrico. Una liberazione, una priorità, un obiettivo raggiunto. Da allenatore però il campo ha una prospettiva diversa. E, se vuoi arrivare primo, i gol bisogna primo di tutto non prenderli. Pippo, o Filippo come direbbe mamma Marina, ci ha messo poco a imparare. Il suo Venezia, dopo 10 giornate, guida la B e con 7 reti subite è la squadra meno battuta del campionato.

Un paradosso pensando alla sua carriera. Oppure, semplicemente, una naturale conseguenza di una maniacale predisposizione al lavoro. Dalle diete ferree alla conoscenza individuale dei giocatori. Quando Tacopina lo ha chiamato a guidare il Venezia in LegaPro, nell’estate del 2016, si aspettava un rifiuto. Sbagliava. Pippo conosceva benissimo quella categoria e i suoi calciatori. Ha costruito una squadra fortissima, vinto il campionato in carrozza e festeggiato, letteralmente, in gondola. Ripartire dal basso, senza paure, dopo la delusione con il “suo” Milan. Forse era troppo presto o forse non c’era molto da fare. Inutile chiederselo. Non è da Inzaghi l’arte del rimuginare. Simone non si è mai preoccupato di essere stato scelto in extremis dopo il dietrofront di Bielsa. Vincere, o prepararsi per farlo, quello sì, è da Inzaghi. Papà Giancarlo quest’estate faceva la spola fra i ritiri dei suoi ragazzi in Cadore: il Venezia a Sappada, la Lazio ad Auronzo. Pippo e Simone separati da una trentina di chilometri, all’alba di una stagione che forse solo loro potevano immaginare già così.

Eppure in quei giorni di luglio, entrambi hanno iniziato a costruire due gruppi solidi, sinceramente legati alle loro guide. Allenatori che festeggiano i gol dei loro ragazzi come se avessero ancora un numero e il cognome sulle spalle. Amano i loro giocatori e sono ricambiati.

Preparazione tattica e lavoro psicologico di altissimo livello. Basta prendere, uno per tutti, l’esempio di Luis Alberto nella Lazio di Simone. Comparsa nella stagione scorsa, crack assoluto in questo. Merito suo, ma anche di chi ha saputo lavorare sulla testa dello spagnolo, trovandogli una collocazione in campo perfetta.

Simone, detto “almanacco” per la sua enciclopedica conoscenza del calcio, è in questo momento una sorta di Re Mida. Anche a Nizza, i suoi cambi hanno cambiato volto alla gara. “È uno degli allenatori più forti d’Europa”, ha detto in settimana suo fratello. Un giudizio che dice tutto sul loro rapporto. Zero invidie, nessuna competizione familiare. Anche se forse Pippo segretamente medita ancora la vendetta di quel Lazio-Milan primavera del marzo 2013. Si giocava il torneo di Arco: 2-0 per i ragazzi biancocelesti di Simone, primo e unico confronto diretto tra i due.

Sono passati quattro anni e tante panchine da professionisti: 62 per Simone, 100 per Pippo, festeggiati da primo in classifica in una Venezia che non aveva mai assaporato questa gioia nel nuovo millennio. Marina e Giancarlo possono sorridere. E sperare che la rivincita di Arco avvenga presto. Magari già dalla prossima serie A.

(pubblicato su gianlucadimarzio.com il 21/10/2017)

La farfalla granata che 50 anni fa smise di volare. Gigi Meroni: il genio interrotto

Luigi_Meroni_-_AC_Torino

Un antico poeta indiano, Rabindranath Tagore, diceva che “la farfalla non conta gli anni, ma gli istanti. Per questo il suo breve tempo le basta”.

Gigi Meroni è stato e sarà sempre la farfalla granata. Brevemente in vita, eternamente dopo la sua morte, un maledetto 15 ottobre del 1967.
Era l’idolo di tutti i tifosi del Torino. Aveva 24 anni e da due stagioni nessuno segnava quanto lui. Ma la gente non lo amava per un gol in più o in meno. Gigi Meroni era il ’68 prima del ’68.

Un moto spontaneo di libertà e anticonformismo, ala destra naturalmente in fuga da convenzioni e difensori, capelli lunghi, abitudini stravaganti e una capacità unica nel dribblare tutti e tutto. Fino all’ultimo tackle, quello di un “avversario” arrivato dal buio in una domenica piovosa di mezzo secolo fa. Una 124 Coupè guidata da un ragazzo di 19 anni che, poche ore prima era sugli spalti a tifare per lui in Torino-Sampdoria, lo travolge in corso Re Umberto.

Gigi vola sull’altro lato della carreggiata. Un’altra auto lo investe. Quel giovane che lo colpisce ha la foto del numero 7 granata in macchina e una camera piena di suoi poster. Si chiama Attilio Romero. Gli sospendono la patente e gli danno 6 mesi con la condizionale. Pena lieve, dolore infinito, che si porterà dietro sempre. Anche quando nell’estate del 2000 diventa, scherzo del destino, presidente del Torino. Un inatteso secondo tempo nella storia granata, finito anch’esso drammaticamente col fallimento del club nel 2005.

È impossibile capire dove sarebbe potuto arrivare Meroni. Il presidente Orfeo Pianelli lo aveva strappato al Genoa nel ’64 per ben 300 milioni di lire. Tre anni dopo aveva resistito, complice una sommossa popolare fomentata dagli operai Fiat di fede granata, al pressing della Juventus. L’Avvocato Gianni Agnelli arrivò ad offrire, invano, 750 milioni. Rifiutati, col groppo in gola. Ma neanche troppo. Perché Meroni era il calcio di periferia trasportato sui grandi palcoscenici. Era George Best senza l’alcool. Era Omar Sivori senza gli scatti luciferini. Era il fanciullino di Pascoli fuori e il superuomo di Nietszche in campo.

Lo assimilavano ai Beatles, un po’ per i capelli, un po’ perché era nato nelle stesse ore di George Harrison. Gigi li ascoltava, ma amava soprattutto Tenco e De Andrè. Voci e note da Genova, la città in cui aveva conosciuto Cristiana, una giostraia, l’amore della sua vita. Una ragazza italo-polacca, bellissima, che gestiva uno stand al luna park. Da lei si sparava con la carabina per vincere un orsetto. Gigi vinse lei. Non avevano neanche vent’anni quando i loro sguardi s’incrociarono per la prima volta, nella primavera del ’62. Cinque anni dopo, all’ospedale Mauriziano, sarà un urlo straziante di Cristiana ad annunciare indirettamente ai cronisti la morte di Meroni.

Monumento_Meroni_corso_Umberto

La sua scomparsa commosse una città intera, ma non la Diocesi locale, che non concesse la messa funebre al giocatore. La sua colpa? Amare una donna già sposata. Sì perché Cristiana qualche anno prima, su pressioni della famiglia, aveva sposato un assistente alla regia di Fellini. Un matrimonio di convenienza da cui fuggì repentinamente. Ma i giorni del divorzio erano ancora lontani. Cristiana iniziò la procedura alla Sacra Rota ma non era una cosa breve. I due convivevano in una mansarda a via Veneto. A volte portavano a spasso una gallina – l’animale domestico di Gigi – altre volte lei lo guardava dipingere. Era la sua musa, la sua modella, la sua casa. Gigi provò cento volte a terminare il ritratto di Cristiana. Gli occhi non uscivano mai come voleva. Restò una sorta di angelo senza sguardo, forse un modo per difendere quell’icona dalla visione del suo corpo sull’asfalto.

Due giorni dopo la sua morte, don Ferrando, cappellano storico del Toro, rischiò la scomunica e decise di celebrare ugualmente il funerale. Cristiana in prima fila e 30mila persone alle spalle. Una settimana dopo invece il Toro tornò in campo. In casa della Juve, in un derby con 23 giocatori in campo, 22 visibili e un fantasma. Sarà per questo che il Torino vinse 4-0, con 3 gol di Nestor Combin, uno dei migliori amici di Gigi. Sarà per questo che l’ultima rete la segnò Alberto Carelli, ala sinistra spostata a destra. Per la prima volta indossava la numero 7. Il gol non era il suo mestiere, ma quel giorno qualcuno stava giocando col destino. Dall’alto, purtroppo. E continuò a scherzare anche la domenica successiva contro la Spal: altro gol di Carelli, la mistica della maglia numero 7 che diventa incantesimo, il primo posto in classifica.

Solo un fuoco di paglia. Il Torino esaurì la sua rabbia. Per due mesi non vinse più e scivolò nelle retrovie, chiudendo il campionato al settimo posto. Da quel 15 ottobre del ’67 i tifosi granata contano gli anni per rivivere gli istanti fuggenti della loro farfalla volata via.
Quel battito d’ali era l’annuncio di una rivoluzione. Forse aveva ragione Tagore. “Quel breve tempo” basta a una farfalla. Il problema è che non basta a chi ama la bellezza di un dribbling e a chi non si stancherebbe mai di guardare l’arte in movimento. Per questo i Gigi Meroni non bastano mai.

La notte di Leo. Messi trascina l’Argentina al mondiale

082048547-9a0fdce8-a6c3-4f36-a810-5f3f724bfc02A volte la Storia si fissa senza motivo. Si ostina a chiedere prove della loro reale esistenza ai propri maggiori protagonisti. Pretende dimostrazioni anche da chi ha dimostrato di essere “altro” rispetto al mondo degli umani.

La Storia gode nel vedere i suoi figli più cari disposti vicino. Ama i paragoni e le classifiche. O forse, semplicemente, le sopporta. “Messi è grande ma non sarà mai Maradona“. Un teorema elevato a sentenza dalla mancanza di successi in maglia albiceleste dell’erede designato.

La Storia si diverte ad accostarli. Noi la prendiamo sul serio. Cercando un po’ di preservare l’unicità dei ricordi. Ignorando le statistiche di una carriera irripetibile, per soffermarci su singoli episodi. Quella coppa del mondo sfuggita nella notte di Rio, quel rigore calciato lontano a New York contro il Cile. L’addio. Il ritorno. La paura di un mondiale sul divano.

30896272412_e11563c58e_b

Un popolo, da Buenos Aires alla Patagonia, chiedeva una “prova” vera al dio del calcio. E la pretendeva in un luogo vicino al cielo: Quito, stadio El Atahualpa, 2850 metri di altezza. Ecuador-Argentina doveva essere la notte di Leo Messi. È stata uno schiaffo in faccia agli scettici. Tre gol, la capacità di portare 40 milioni di persone dall’inferno al paradiso, la naturale semplicità nell’essere normalmente speciale. Messi trascina l’Argentina in Russia, scacciando le streghe della vigilia e svegliando da un incubo la squadra di Sampaoli, colpita dopo 38 secondi da Ibarra.

Neanche in quel momento Leo ha cambiato faccia. Ha stretto la fascia attorno al braccio e si è messo al lavoro. Capitano senza teatralità, trascinatore con l’esempio, extraterrestre col pallone fra i piedi. Ci ha messo venti minuti per ribaltare il mondo. Prima una triangolazione con Di Maria chiusa con un beffardo tocco di punta: uno scambio da “potrero”, direttamente dalle stradine di Rosario. Poi un pallone riconquistato con una rabbia ancestrale e scagliato violentemente alle spalle di Banguera. La luce, finalmente. L’esultanza genuina, più da ragazzino felice che da uomo dei record. La sessantesima gioia in nazionale, la più attesa. “Ha dimostrato una volta di più di essere il vero padrone di questo gioco. Non ci sono parole per lui”, ha detto a fine partita Mascherano, uno che ha visto da vicino gran parte dei 581 gol segnati in carriera da Leo.

L’ultimo, il 61esimo, il sigillo della qualificazione, è un gioiello difficile da raccontare attraverso traiettorie terrene. Pallonetto dal limite dell’area, in corsa, fuori equilibrio, contro ogni regola. Un capolavoro festeggiato da tutta la squadra, panchina compresa. Tutti in campo ad abbracciare l’uomo della Provvidenza. Era il minuto 62, ma di fatto è stato il fischio finale.

lionel-messi-argentina_lc7pl8dc5q3l15ve39wxo4yga

“Sarebbe stata una follia rimanere fuori dal mondiale. Non solo per me, ma per tutta l’Argentina”, le sue prime parole nel dopo partita. “Tante cose mi sono passate davanti dopo il loro vantaggio, ma ci siamo subito ripresi. Meritavamo la qualificazione, ora cresceremo, in Russia saremo un’altra cosa”.

Quasi una dichiarazione di guerra. La sensazione di avere un cerchio da chiudere con la Storia, quella che odia la solitudine dei numeri 10. Forse per questo, ogni tanto, ne fa nascere uno che continua quell’emozione così irrazionale. E così impossibile da paragonare. Il calcio questa volta ha vinto. Messi è al mondiale. Ancora una volta di fronte avrà Cristiano Ronaldo, che ha staccato il pass poche ore prima. Con tutta probabilità, arriveranno in Russia a parità di palloni d’oro. Cinque a testa. Sarà forse l’ultimo duello lontano dai club. Sarà l’ennesimo assalto alla leggenda per Leo. Perché dopo la notte di Quito, c’è già chi aspetta una notte moscovita a metà luglio.

La Siria e quel sogno Mondiale ancora acceso

479771Deir ez zor, città della zona orientale della Siria. Terra di sangue e di conflitti. Fino a un mese fa, completamente in mano ai miliziani dell’Isis. L’esercito del dittatore Bashar al Assad è quasi riuscito a liberarla. Non del tutto ancora. Nelle notti scorse l’aviazione russa è giunta in soccorso, bombardando: 133 vittime, quasi tutti civili.

A quasi 7500 chilometri da lì, allo stadio Hang Jebat di Malacca in Malesia, la Siria gioca “in casa” contro l’Australia l’andata del doppio spareggio per la qualificazione alla Coppa del Mondo. Un figlio di Deir ez zor, Omar Al Somah, segna un calcio di rigore a 5 minuti dalla fine. È il gol del pareggio: 1-1. Verdetto rimandato a martedì prossimo, a Sidney.

al somah

Omar, in Russia, sogna di volarci a giugno. Con i suoi compagni, in un mondiale a cui nessuno pensava e che oggi è ancora possibile.

Da anni segna valanghe di gol in Arabia Saudita nell’Al-Ahli. In nazionale è tornato solo da qualche settimana. Cinque anni fa era stato escluso per avere sventolato la bandiera dei ribelli anti Assad dopo una vittoria contro l’Iraq. Il regime lo ha perdonato, lui ha accettato. Per “tentare di regalare una gioia alla nostra gente”, ha detto. E in parte ci è già riuscito: un altro suo gol del pareggio – contro l’Iran a inizio settembre – ha mantenuto vivo il sogno qualificazione. Una rete festeggiata da migliaia di persone nelle strade di Damasco.

Omar al Somah, centravanti ed eroe nazionale in patria. Eppure non tutti lo vedono così. Molti esuli lo hanno considerato un traditore, al pari di Firas Al Khatib, fantasista ed ex simbolo della resistenza della città di Homs al regime. Per anni si è autoescluso dalla selezione. Poi nel febbraio scorso è tornato a vestire la maglia delle “aquile di Qasioun”, epiteto legato al monte che sovrasta Damasco. Una scelta che ancora oggi non lo fa dormire. Con Assad che combatte l’Isis o contro Assad che bombarda i civili siriani? Il numero 10 siriano ha scelto semplicemente di giocare, la cosa che gli è sempre riuscita meglio.

Una cosa che purtroppo non possono più fare tanti suoi ex compagni, caduti in battaglia o semplicemente spariti. Uno di questi, veniva da Homs, proprio come lui. Si chiamava Abdel Baset Sarout, classe 1992. Fino al 2011 era considerato il più forte portiere mai nato in Siria. Un fenomeno, tipo Donnarumma. Ma allo scoppiare della guerra civile, ha scelto di stare contro Assad, in prima linea. La parola “assedio” per lui ha assunto un significato del tutto diverso. Di lui non si hanno più notizie. Altri 37 calciatori importanti hanno fatto la stessa fine durante questi anni. Un tempo in cui gli stadi sono serviti soprattutto come basi militari. Luoghi di morte e non di gioia.

La guerra in Siria è ancora una realtà sempre più complessa. Neanche il calcio può fermarla. Eppure la favola della nazionale che sogna il mondiale può aiutare per qualche ora a dimenticare l’orrore. Le bombe, gli allarmi che suonano, il mezzo milione di morti in 6 anni. Sotto una sola maglia, la squadra allenata da Ayman Hakeem prova a riunire un popolo disperso, ferito, frammentato.

Contro l’Australia si è trovata in svantaggio e ha reagito con la rabbia di chi non accetta altri sogni spezzati. Nessuno dei giocatori in rosa gioca in Europa, in pochissimi guadagnano abbastanza per vivere bene col pallone. Chi gioca in patria, spesso non sa quanto tempo passerà fra una partita e l’altra. Eppure il mondiale adesso è lì, vicino, anche se non vicinissimo.

Non basterà superare l’Australia. Servirà, eventualmente, anche uno spareggio a novembre contro la quarta classificata dell’area Concacaf. L’area centrosettentrionale dell’America, per intendersi. Probabilmente fra Panama, Honduras o addirittura Stati Uniti.

Pensieri ancora lontani per un popolo abituato da tempo a vivere alla giornata. E da qualche settimana, nuovamente aggrappato ai gol di Omar al Somah. Il figliol prodigo, almeno per chi ha scelto di concentrarsi solo sul pallone e sulla sua magia.

Totti e il compleanno lontano dalla ‘sua’ Roma: 41 anni festeggiati da… Francesco

7141706683_8e4d51b954_bFesteggiare in famiglia, a Roma, lontano dalla “sua” Roma, in trasferta in Azerbaijian. Francesco Totti ha deciso di spegnere le 41 candeline a casa. Avrebbe dovuto seguire la squadra a Baku, stadio “Tofiq Bahramov”. Lì gioca il Qarabag, avversaria di Champions dei giallorossi. Lontanissima Trigoria, distante 4500 chilometri. Ancora vicino il suo ritiro, neanche 4 mesi fa. Quel giorno c’erano Ilary, Cristian, Chanel e Isabel accanto a lui. Saranno loro a scaldare questo inedito 27 settembre, il suo primo compleanno senza pallone fra i piedi.

Trenini e palloni. I regali che amava di più da bambino. Con i primi ha smesso presto, con gli altri non avrebbe mai voluto farlo. Ha passato più di 40 anni ad accarezzarli o a colpirli con violenza. L’ultimo, nel suo stadio, lo ha guardato a lungo. L’ha firmato con un pennarello e calciato in curva, fra le braccia di chi l’ha amato più forte. Era il 28 maggio. La festa per celebrare la fine del suo primo tempo. Quello della vita di tanti tifosi che quel giorno hanno pianto, ripensando agli anni passati con lui. Una fine, il passo obbligato prima di un nuovo inizio.

Francesco_Totti_Chelsea_vs_AS-Roma_10AUG2013È strano questo compleanno. Non ci sono i cucchiai, gli assist millimetrici, i tiri al volo. Niente di quello che c’è sempre stato. Né celebrazioni speciali, né polemiche sul suo utilizzo. C’è altro. Una celebrazione intima, familiare, al posto di un rito collettivo. La possibilità di concedersi quelle pause che gli impegni in carriera non hanno mai permesso. Fare il padre, il marito. E il dirigente, certo. Un mestiere nuovo da imparare. Il primo lavoro dopo una vita passata a giocare. La giacca e la cravatta hanno costretto all’armadio la maglia numero 10, armatura e tatuaggio insieme. Il calore dello spogliatoio è stato sostituito dal tepore degli uffici. Le pacche sulla spalla e i sorrisi al posto degli scherzi e delle risate.

Sì, è tutto diverso. “Ma a un certo punto della vita si diventa grandi. Così mi hanno detto e così il tempo ha deciso. Maledetto tempo”, diceva in quel giorno di maggio. La voce emozionata, l’abito di sempre, per l’ultima volta, dopo 785 partite. Poi l’uscita dal campo, sapendo di doversi cambiare. La divisa e un po’ anche l’anima.

Erano giorni di tormenti. La paura del domani, la malinconia da prendere a calci per fare spazio a un presente sereno. In pace, forse, dopo anni di battaglie. Contro chi vedeva le lancette scorrere più veloci. Contro se stesso, per superarsi. E contro il tempo, il difensore che, dopo essere stato ripetutamente beffato, è riuscito a fermarlo.

“A 41 anni, uno come Francesco Totti a Roma è molto più utile adesso piuttosto che quando giocava tre minuti in Roma-Carpi”. Parola di Daniele De Rossi, compagno di sempre, capitan successore.

640px-Totti_murales

Percorso difficile da accettare all’inizio, quanto affascinante da scoprire strada facendo. In campo Totti ha provato tanti ruoli, fuori ha appena iniziato a scoprirli. Apprendista dirigente al fianco di Monchi, consigliere di Eusebio Di Francesco, studente allenatore a caccia del patentino di base per iniziare dalle squadre giovanili. Forse il primo passo di una nuova carriera o magari solo una porta da tenere aperta se il richiamo dell’erba del campo, prima o poi, diventasse impossibile da ignorare. E c’è da scommetterci visto che già questo venerdì, smaltito il festeggiamento, viaggerà fino a Tiblisi, capitale della Georgia per giocare una partita di beneficenza organizzata da Kakha Kaladze. Un regalo che si concederà prima di rimettersi “a disposizione a 360 gradi, dal presidente alle giovanili”, come ha dichiarato fin da metà luglio, inizio della sua nuova carriera. La stessa curiosità del ragazzino che a Porta Metronia chiamavano lo “Gnomo”, l’esperienza dell’uomo, cresciuto e diventato simbolo eterno. “La vera vittoria della battaglia è passare 25 anni con la stessa maglia”, recitava uno striscione all’Olimpico nel suo ultimo giorno da calciatore.

Chissà quanti ne passeranno ancora. Sempre dalla stessa parte, semplicemente con una veste diversa. Auguri Francesco Totti, campione senza tempo, romanista senza etichette.

La traiettoria di Ciro Immobile, dai fallimenti all’estero a capopopolo laziale

Ciro_Immobile_2014Controllo nello stretto. Accelerazione. Dribbling di esterno e diagonale fulmineo. Tutto in pochi metri, tutto col destro. Una meraviglia firmata Ciro Immobile, la fotografia di un inizio di stagione da dominatore. Dodicesima rete in dieci partite, otto in campionato. Stesse cifre di Messi e Dybala. Numeri incredibili che dicono tanto, ma non tutto. “Non ci sono più aggettivi per Ciro”, ha detto Simone Inzaghi dopo la vittoria di Verona. Una frase che racchiude il valore che ha l’attaccante per la Lazio. Statistiche da sogno, ma soprattutto un atteggiamento da leader. Finalizzatore e trascinatore. Il primo a rincorrere, l’ultimo a mollare. Era stato così anche contro il Napoli. Una sconfitta dolorosa, nel risultato e negli infortuni. Squadra decimata, la necessità di rialzarsi subito.

Nessun problema, ci pensa Ciro. Due gol e un assist per Marusic. Il terzo dall’inizio del campionato. I numeri non dicono tutto, ok, ma sulle 13 reti segnate dalla Lazio nelle prime 6 partite, c’è lo zampino di Immobile in 11 occasioni. Impressionante. A settembre. La conferma dopo un’ottima stagione, una consacrazione definitiva a 27 anni, l’età della maturità. Una scommessa vinta dalla Lazio che due estati fa, dopo il tempestoso dietrofront di Bielsa, lo aveva scelto per sostituire Miro Klose, in campo e nel cuore dei tifosi. Ciro ci è riuscito a suon di reti gonfiate e magliette sudate. Ci è riuscito creando un legame speciale con l’allenatore arrivato in extremis al posto del Loco. Simone Inzaghi ha responsabilizzato da subito Immobile. Ciro non aspettava altro. Veniva dai fallimenti all’estero, prima a Dortmund, poi a Siviglia, e da una mezza stagione in chiaroscuro a Torino. Aveva bisogno di sentirsi importante e in poco più di un anno è diventato un capopopolo.

Con la partita di Verona ha raggiunto le 49 presenze con la Lazio. Una in più rispetto a quelle col Torino. È la sua maglia più indossata in carriera, quella con cui vuole diventare un top player e, forse, una bandiera. Ne ha fatta di strada dai tempi di Torre Annunziata, da quando i dirigenti del Sorrento gli pagavano la Circumvesuviana per averlo con loro. Era un bambino e ancora non s’immaginava come Ciro il Grande. Nel suo viaggio ha fatto soste brevi in ogni tappa. Adesso Roma è casa sua. E magari non pensa più a tornare nei luoghi dov’è cresciuto. Nella “sua” Napoli, nella squadra che gli ha sempre fatto battere il cuore e che ora vola a punteggio pieno. Mercoledì scorso non è riuscito neanche lui a fermarne la corsa.

Ci ha provato ma non ce l’ha fatta neanche la SPAL di Schiattarella, nativo di Mugnano di Napoli, al primo gol in serie A. Gli ha risposto subito Insigne, vanificando tutto. Napoletani in gol, come il caivanese D’Ambrosio per l’Inter. O come Mandragora, ragazzo di Scampia. Un’altra prima volta, bellissima, in Crotone-Benevento. Scugnizzi più o meno abituati a queste gioie. Ciro li guarda tutti dall’alto. Alfiere del gol napoletano nella Capitale. Ne ha già fatti 37 da quando è arrivato. Il biancoceleste è il suo azzurro. Senza dimenticare l’altra maglia azzurra. Quella che Ventura gli metterà addosso. A Torino lo ha lanciato lui, ora chiede in cambio un biglietto per la Russia. Convinto anche lui che con un Immobile così, i playoff fanno meno paura.

Silvio Baldini, ritorno gratis alla felicità. A Carrara un’avventura controcorrente

IMG_4700Che cos’è la felicità? Silvio Baldini se lo è chiesto spesso negli ultimi anni. Precisamente dal 5 ottobre del 2011, il giorno del suo ultimo esonero a Vicenza. Sconfitta casalinga contro il Varese di Rolando Maran, l’amico di una vita.

Da quel giorno ha cercato la felicità lontano dagli stadi. La famiglia, la casa a Marina di Massa, le battute di caccia con i suoi cani, le passeggiate sulle Alpi Apuane. Tanti silenzi, poche risposte. Diverse proposte per tornare in panchina neanche prese in considerazione.

“Non provavo più gioia nel fare il lavoro che avevo sempre fatto. Non potevo barare a me stesso”.

 Meglio restare a casa. E aspettare. Fino a scoprire che quella felicità smarrita è lontana solo sei chilometri. La distanza che separa casa sua dallo stadio di Carrara, il teatro della sua nuova avventura da allenatore. Lo stesso da cui era partita la sua scalata verso la serie A.

Silvio Baldini, 59 anni a settembre, ricomincia dalla Carrarese in serie C. E sceglie di farlo a modo suo: gratis.

“Era l’unico modo per dimostrare ai dirigenti che mi hanno chiamato che ci tenevo veramente a fare qualcosa per loro. Il presidente Oppicelli quasi non ci credeva. Dovranno solo pagarmi una penale da 500mila euro se mi cacciano. Oppure un blocco di marmo se dovessi vincere il campionato. Poi se qualche dirigente prova a dirmi chi devo mettere in campo, prendo la macchina e vado via”, racconta Baldini con un sorriso. “I soldi non m’interessano adesso. Complicano sempre tutto nel calcio. Prendi un gioiello di questa terra come Bernardeschi. Finiranno per rovinarlo. Perderà la voglia di giocare a pallone pensando a quelle cifre che gli girano intorno. Troppo business.  Guarda là, questa è la mia ricchezza”.

Baldini dice questa frase indicando le Apuane, mentre passeggiamo all’interno di una cava di marmo dismessa. Monte Pasquilio, oltre 800 metri di altezza. Un rifugio dell’anima da sempre per l’allenatore massese.

Il luogo in cui ha maturato una scelta in controtendenza rispetto al calcio milionario di oggi.

IMG_4703“Per me era fondamentale ritrovare la passione che avevo quando allenavo i dilettanti. La pura passione per il gioco. La voglia di prendere un gruppo e farlo diventare una squadra. Per questo porterò la squadra in ritiro in una caserma militare. Camerate da otto, niente televisione in camera, bagno in comune. Chi non si adatta, verrà messo subito da parte. Per me il gruppo viene prima di tutto. Nel mio calcio è il più forte che deve mettersi a disposizione del più debole. Dentro e fuori dal campo. Se i miei ragazzi capiranno questo, ci toglieremo tante soddisfazioni”.

Baldini ha la luce negli occhi mentre pensa alla sua prossima Carrarese. Se la immagina come un’oasi in uno sport che non riconosce più. Un mondo guidato da logiche per lui inaccettabili.

“C’è troppa ipocrisia, troppa falsità. Ormai comandano direttori sportivi e procuratori. Si mettono d’accordo per fare affari, senza pensare agli interessi dei calciatori. Mi ricordano quei giocatori di carte che barano. Sono in cinque al tavolo e quattro sono d’accordo, per spartirsi la torta. È un sistema che si autosostiene così, puntando sempre di più all’interesse dei dirigenti e sempre meno a quello del gioco”. 

Scuote la testa, poi riattacca: “È normale che siano venuti a mancare i valori basilari: la lealtà, la semplicità, l’amicizia. Cose che non mancheranno nella mia squadra”.

Silvio Baldini guarda sempre avanti. Non ha rimpianti per una carriera che gli ha riservato spesso delusioni. Inutile chiedergli di tornare sul calcio rifilato al collega Domenico Di Carlo durante Parma-Catania. Sono passati quasi dieci anni da quella giornata di agosto. Un gesto che probabilmente gli ha chiuso tante porte in faccia e che preferisce dimenticare. Era l’alba dell’ultima stagione in serie A, un anno che non riuscì a chiudere sulla panchina siciliana nonostante il raggiungimento di una storica semifinale di Coppa Italia.

Meglio ricordare gli anni d’oro, quelli di Empoli. Soprattutto quel 2002/2003, primo anno nel massimo campionato, dopo una cavalcata trionfale in B.

“La vittoria in trasferta a Como all’esordio è il ricordo più bello della mia carriera. Iniziammo la stagione vincendone quattro consecutive fuori casa. Un record per una neopromossa”.

In porta c’era Gianluca Berti, ieri capitano e oggi nuovo direttore sportivo della Carrarese di Baldini. Uomo di fiducia del mister. Così come Totò Di Natale che esplose in quella stagione, segnando 13 gol. Uno più speciale degli altri: 19 aprile 2003. L’Empoli batte in trasferta un Milan che sarebbe diventato campione d’Europa poche settimane dopo. Il passo decisivo verso la salvezza. Luci a San Siro. Roberto Vecchioni del resto è il cantante preferito di Baldini.

“Antonio lo sento ancora. Probabilmente è il calciatore più forte che ho allenato ma di lui ho soprattutto un grande ricordo umano. Quello che ho anche per Daniele Adani. Con lui non parliamo con l’anima, abbiamo un rapporto che va oltre il calcio. È una di quelle persone che porto sempre nel cuore”.

IMG_4722 Scendiamo a valle. Una sosta in un negozio di alimentari per assaggiare “la focaccia con la mortadella più buona del mondo”. Un bicchiere di cedrata e rotta verso casa. Lungo la strada i compaesani salutano l’allenatore con affetto. Non lo considerano una celebrità, ma un amico di osterie e un compagno di caccia alle beccacce.

È questa semplicità che Baldini non cambierebbe con nessun altro luogo. “Se mi offrissero tanti soldi per allenare in Cina, non ci andrei. La vita è corta, allungare il conto in banca non ti fa essere più felice. Io sto bene qui. Con la mia famiglia, i miei cani, in mezzo alla mia gente”.