L’eliminazione dell’Italia nel ‘58, raccontata da Gino Pivatelli: “Io c’ero”

Gino_Pivatelli

“E chi se la dimentica quella partita? Avrei dato un braccio per andare al mondialeMi viene ancora da piangere se ci penso”. Il signore dall’altra parte della cornetta fa una lunga pausa. Sospira e forse una lacrima gli scende davvero. Gino Pivatelli, nel 1958, era il centravanti della nazionale che fallì la qualificazione ai mondiali contro l’Irlanda del Nord. Quel 15 gennaio era in campo a Belfast. Aveva 24 anni. Oggi ne ha 84 e vive a Bologna con la moglie Luisa, sposata nel ’58 “nel periodo in cui saremmo dovuti andare in Svezia per la Coppa del Mondo”, racconta al microfono di Gianlucadimarzio.com. “Avevo anche pensato di portarla a vedere i mondiali in viaggio di nozze. Ma alla fine preferimmo fermarci in Danimarca dai miei compagni al Bologna Jensen e Pilmark. Meglio così, mi sarei solo arrabbiato di nuovo”.

E sessant’anni dopo, quell’amarezza è ancora lì, tangibile e indifferente al tempo trascorso. “Non fu un incontro di calcio, fu una vergogna. Giocammo su un terreno scandaloso, una palude di fango. Sembravano sabbie mobili, si andava giù fino alla caviglia”. E anche un bomber come Pivatelli, 146 gol in carriera, quel giorno rimase all’asciutto. “Ebbi un paio di occasioni nel primo tempo che se mi capitassero adesso, lì fuori nel giardino, farei sicuramente due gol. Là facevi fatica a prendere la palla. No, non si doveva permettere di giocare una partita del genere. Ma sa, con quell’arbitro lì…”.

Istvan Zsolt, fischietto ungherese. Il vero colpevole – secondo Pivatelli – della sconfitta di Belfast. “La sua figura è la prima immagine che mi viene in mente di quella sfida. Me lo ricordo come se ce l’avessi davanti ora: senza capelli, con la pancia, ci fischiò tutto contro. Buttò fuori Ghiggia, ma fu solo la ciliegina sulla torta. Avevo anche l’impressione che fosse un po’ ubriaco. Mi deve un mondiale, quel signore lì”, continua il secondo marcatore di sempre della storia del Bologna dopo Pascutti. Un giocatore capace, nel 1963, di vincere una Coppa dei Campioni con il Milan contro il Benfica a Wembley. “Devo ringraziare Altafini, il più grande giocatore con cui abbia mai giocato. Fece una doppietta. Di là c’era Eusebio, ma anche lui dovette arrendersi. Josè in quelle giornate era troppo anche per lui”.

Una grande gioia che mitiga ma non cancella la delusione di Belfast.“Piangevamo tutti di rabbia negli spogliatoi. Anche gli oriundi, che a differenza di quello che si è detto in seguito, tenevano tantissimo alla maglia azzurra. Da Costa era uno dei più inconsolabili, altro che menefreghisti. Per non parlare di Schiaffino: un uomo e un atleta eccezionale. Aveva sempre un gesto o una parola giusta, anche là negli spogliatoi di Belfast. Un esempio vero”.

Pivatelli difende anche il commissario tecnico Foni, messo all’epoca sotto accusa dalla stampa per una formazione troppo spregiudicata: “Macché, lui è sempre stato un difensivista. Noi avevamo giocatori fortissimi nel tenere palla. Quello era il nostro piano e quello avremmo fatto. Il problema è che su quel maledetto campo non si stava neanche in piedi. Che doveva fare Foni? Era uno capace e anche una brava persona. Come Ventura del resto”.

Da Belfast a Stoccolma, una storia che non si deve ripetere. “Siamo in buone mani. Giampiero è un amico e un uomo di grande esperienza. Saprà mettere in campo una squadra adeguata. Sono molto fiducioso, non penso che falliremo quest’appuntamento”.

L’ex giocatore rossoblù da qualche anno non frequenta più lo stadio ma continua a seguire il campionato, con un occhio particolare per i club nei quali ha militato più a lungo, Bologna e Milan. “Di attaccanti col mio tiro non ne vedo tanti. Fanno più movimento di quello che facevo io di sicuro, però a calciare non so… Per il resto, mi piacerebbe veder vincere lo scudetto al Napoli. Lì ho giocato una stagione sola, ma mi è bastato per apprezzare quel pubblico fantastico. Auguro ai napoletani di festeggiare questo titolo, se lo meritano proprio”.

Pivatelli saluta e torna dalla moglie Luisa. Tra qualche mese festeggeranno 60 anni di matrimonio. Un amore coronato dopo una grande delusione sportivo. E alla fine ciò che è veramente rimasto di quel 1958 è ancora lì accanto a lui.

Italia 1958: l’anno di “Volare” e della Nazionale fuori dal mondiale

Alfredo_Foni_(allenatore)

L’ultimo anno di apertura delle case chiuse. Domenico Modugno che canta “Nel blu dipinto di blu” dal palco dell’Ariston a Sanremo. La Democrazia Cristiana al governo. Un bergamasco diventa pontefice e tutti lo ricorderanno come il “Papa buono”. L’inizio della Dolce Vita, qualche strada più in là, dall’altra parte del Tevere. Fotogrammi sparsi del 1958 in Italia. Storie di un anno da ricordare. O da dimenticare, perché quel 1958 si giocava un mondiale in Svezia. L’unico al quale non ci siamo qualificati da quando rotola un pallone.

Colpa di una partita. Maledizione di una notte di mezzo inverno a Belfast. Irlanda del Nord-Italia, 15 gennaio, stadio Windsor Park, ultima giornata del gruppo 8. Agli azzurri basta un pareggio per qualificarsi. Dimenticate i gironi lunghi di oggi. Raggruppamento a tre: noi, gli irlandesi e il Portogallo. Passa solo la prima. I lusitani, con 3 punti in classifica, sono fuori dai giochi. Con loro abbiamo perso a Lisbona e vinto a San Siro. Un doppio 3-0, ma il secondo ci permette di giocarci con relativa serenità l’ultima sfida. Abbiamo 4 punti, frutto di una vittoria di misura all’andata sull’Irlanda del Nord. Il ritorno, contro di loro, in realtà, l’avremmo già giocato a inizio dicembre, prima della vittoria coi portoghesi a Milano.

Un onorevole 2-2 nel fango, ma senza l’arbitro ufficiale; l’ungherese Istvan Zsolt è rimasto bloccato dalla nebbia a Londra. Il signor Tommy Mitchell da Belfast, professione panettiere, non viene accettato come “official referee” dalla nostra federazione. E allora si gioca una semplice amichevole. Per modo di dire, perché mai definizione fu più sbagliata.

Quell’incontro sarà sempre ricordato come la “battaglia di Belfast”: provocazioni continue sul campo e dagli spalti, invasione non pacifica del pubblico, giocatori malmenati. Un pandemonio originato da una dichiarazione estiva di Eddie Firmani, attaccante sudafricano della Sampdoria. Il giocatore avrebbe parlato alla stampa inglese, paragonando la Serie A a una sorta di laboratorio del doping. I britannici sono lettori attenti e spettatori irascibili. La notizia gira in fretta, i mezzi dell’epoca sono troppo scarsi per verificarla. Migliaia di irlandesi vogliono ripristinare a modo loro la lealtà sportiva. In quel marasma finiamo noi in 10. Mitchell “il panettiere” espelle Chiappella, nostro centromediano metodista (ruolo di cerniera fra difesa e metà campo) per un fallo di reazione su Danny Branchflower, idolo locale e stella del Tottenham.

Manca più di un mese alla partita vera, ma il mondiale iniziamo a perderlo quella sera. A Belfast ci guardiamo allo specchio e scopriamo di essere talentuosi ma leggeri. La squadra è allenata da Alfredo Foni. Ha vinto due scudetti con l’Inter puntando più a non prenderne. Si chiama catenaccio, pensiamo di averlo inventato noi, ma prima di tutti ce lo hanno insegnato gli svizzeri. Che nel mondiale a casa loro, 4 anni prima, ci hanno eliminato così. Loro lo chiamano verrou, ma è la stessa cosa.

Il nostro gruppo del ‘58 ha più pittori che muratori. Alcuni non sono fiori dei nostri vivai. È l’epoca degli oriundi, giocatori naturalizzati grazie a qualche parentela lontana o ai buoni uffici della dirigenza. Tutti giocatori offensivi: l’argentino Montuori, il brasiliano Da Costa e i due assi di Montevideo, Ghiggia e Schiaffino, che nel ’50 fecero piangere il Brasile con l’Uruguay. Dal Maracanazo a Windsor Park, otto anni dopo.

Foni decide di schierarli tutti nella notte che ci deve portare al mondiale. E a loro aggiunge anche Pivatelli, centravanti del Bologna. Lo schema in campo è il celebre “sistema”, o WM: 3-2-2-3. Giocava così il Grande Torino sparito tragicamente a Superga. Ci vogliono personalità spiccate e qualità tecniche eccezionali per giocare così. E magari, un campo da gioco in buone condizioni. Desiderio incompatibile con l’inverno di Belfast. Si gioca in una palude di fango. In cui affoghiamo, inconsistenti a centrocampo, assediati dietro. I primi 45 minuti smascherano i nostri difetti. Prima McIllroy con un tiro da fuori, poi Cush alla fine di un’azione corale trafiggono il nostro Bugatti. Andiamo al riposo sotto di due reti, Ci serve un miracolo per andare al mondiale. Un errore del portiere nordirlandese a inizio ripresa consente a Da Costa di riaprire i giochi. Ci proviamo, anche perché in porta c’è Uprichard, sostituto dell’ultim’ora di Gregg, bloccato a Londra dalla nebbia. Come successe al signor Zsolt un mese prima. Questa volta invece, l’ungherese è al suo posto in campo e a venti minuti dalla fine spegne le nostre ultime speranze. Cartellino rosso per Ghiggia che perde la testa contro il terzino McMichael. È l’emblema della frustrazione di una squadra che sprofonda e non reagisce più.

Fino al fischio finale. Siamo fuori dal mondiale di Svezia. Quello in cui Pelé si rivela al mondo, l’ultimo a cui non partecipiamo.

Questa volta dobbiamo passare dalla Svezia per giocare la Coppa del Mondo. Abbiamo due oriundi brasiliani in rosa: uno in attacco e uno chiamato a rinforzare il centrocampo. Perché forse la nostra qualificazione passerà da lì. A Stoccolma, a Milano, come a Belfast sessant’anni fa. Scelte decisive per volare in Russia. Come avrebbe detto Modugno ieri. O come dice Rovazzi oggi. Perché la nazionale è di tutti.

Claudio Giambene