Luca Gerbino, emigrante di successo nella Svezia del pallone

WhatsApp_Image_2017-11-09_at_20.24.05_1In queste ore, qui in Svezia i nostri calciatori sono sulle prime pagine. ImmobileInsigneDe Rossi, Buffon: tutti protagonisti, ma il primo ad averci “messo la faccia” è stato un ragazzo di Treviso. Si chiama Luca Gerbino Polo. Il suo nome in Italia lo ricorderanno in pochi, ma a Bromma, quartiere di Stoccolma, è quasi una piccola celebrità.

“Sono in molti a fermarmi nei bar, nei ristoranti, anche solo per stringermi la mano o farmi i complimenti”. Sì, perché una sua rete all’82’ contro il Dalkur ha regalato la promozione nella serie A svedese (Allsvenska) con tre turni di anticipo al Brommapojkarna. Letteralmente “i ragazzi di Bromma”, squadra del quartiere dove Luca vive.

Ma Bromma, Stoccolma, la Svezia, non sono esattamente a due passi da Treviso, la sua Treviso. “Sono arrivato qui nell’estate del 2013 – racconta ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – perché ero stufo delle situazioni che trovavo in Italia”. Anni passati nelle serie minori, poi la svolta. “Ho giocato sempre in Serie C, fra Ravenna e Rimini, ma c‘era sempre qualcosa che non andava”. Figlio di una romagnola, da quelle parti si è sempre sentito un po’ a casa. Lasciarla non è stato uno scherzo ma in questa scelta anche il cuore ha avuto la sua parte: Carin, la sua ragazza è italo-svedese. “Abbiamo deciso insieme di venire a Stoccolma. Era l’inizio del 2013. Un freddo pazzesco. Presi un paio di pestoni in allenamento che ancora me li ricordo.

WhatsApp_Image_2017-11-09_at_20.24.03_2Prima esperienza al Vasta Syrianska, poi 21 reti in 23 partite all’Akropolis. Squadre di migranti, prima i siriani, poi i greci. Fino al salto in Serie B, o SuperEttan, come si chiama qui, con la squadra del suo quartiere. Paradossalmente, un profeta in patria. “È una società emergente, con un settore giovanile incredibile, formato da 4mila atleti, ragazzi e ragazze”. Un fiore all’occhiello certificato nell’ insegna all’ingresso del Grimsta Idrottsats, lo stadio di casa: “benvenuti nel club più grande d’Europa”.

Nel 2014, il Brommapojkarna sfidò il Torino in un preliminare di Europa League conquistato grazie ai punti del fair play. Un club poi decaduto e risalito grazie a Gerbino, ma anche a un allenatore che ha giocato anche da noi: Olaf Mellberg, centrale difensivo della Juve di Del Neri e capitano della Svezia del 2004. Sì, quella del presunto biscotto. “Io non gli ho mai chiesto niente di quella partita, non prenderei mai questa confidenza. Con lui mi trovo bene, è uno tosto, pretende tanto, ma se abbiamo vinto il campionato c’è anche tanto di suo”.

Adesso per Gerbino si spalancano le porte della massima serie. Parla svedese correttamente grazie ai programmi di apprendimento per migranti. Ha studiato e continua a farlo: una laurea alle porte in Service management, un futuro protetto da tre lingue parlate fluentemente. “In Svezia è impossibile vivere di rendita col calcio. Lo stipendio medio all’anno in B è 25 mila euro netti. In A sono 8 mila al mese. Lordi, però. Bisogna sapersi organizzare per tempo. Io sto cercando di farlo”.

Il futuro di Luca potrebbe essere ovunque. “Non ho nostalgia particolare dell’Italia, né sento il desiderio di passare tutta la vita in Svezia. Voglio tenermi aperte tutte le porte”.

L’anno prossimo però cercherà soprattutto di violarle. Negli stadi svedesi in cui non ha ancora giocato. Quelli tipo la Friends Arena. Sarà lì per vedere gli azzurri, col biglietto regalato dalla sua società. Settore svedese. “Obblighi societari, ma state sicuri che se faremo gol, esulterò”.

L’eliminazione dell’Italia nel ‘58, raccontata da Gino Pivatelli: “Io c’ero”

Gino_Pivatelli

“E chi se la dimentica quella partita? Avrei dato un braccio per andare al mondialeMi viene ancora da piangere se ci penso”. Il signore dall’altra parte della cornetta fa una lunga pausa. Sospira e forse una lacrima gli scende davvero. Gino Pivatelli, nel 1958, era il centravanti della nazionale che fallì la qualificazione ai mondiali contro l’Irlanda del Nord. Quel 15 gennaio era in campo a Belfast. Aveva 24 anni. Oggi ne ha 84 e vive a Bologna con la moglie Luisa, sposata nel ’58 “nel periodo in cui saremmo dovuti andare in Svezia per la Coppa del Mondo”, racconta al microfono di Gianlucadimarzio.com. “Avevo anche pensato di portarla a vedere i mondiali in viaggio di nozze. Ma alla fine preferimmo fermarci in Danimarca dai miei compagni al Bologna Jensen e Pilmark. Meglio così, mi sarei solo arrabbiato di nuovo”.

E sessant’anni dopo, quell’amarezza è ancora lì, tangibile e indifferente al tempo trascorso. “Non fu un incontro di calcio, fu una vergogna. Giocammo su un terreno scandaloso, una palude di fango. Sembravano sabbie mobili, si andava giù fino alla caviglia”. E anche un bomber come Pivatelli, 146 gol in carriera, quel giorno rimase all’asciutto. “Ebbi un paio di occasioni nel primo tempo che se mi capitassero adesso, lì fuori nel giardino, farei sicuramente due gol. Là facevi fatica a prendere la palla. No, non si doveva permettere di giocare una partita del genere. Ma sa, con quell’arbitro lì…”.

Istvan Zsolt, fischietto ungherese. Il vero colpevole – secondo Pivatelli – della sconfitta di Belfast. “La sua figura è la prima immagine che mi viene in mente di quella sfida. Me lo ricordo come se ce l’avessi davanti ora: senza capelli, con la pancia, ci fischiò tutto contro. Buttò fuori Ghiggia, ma fu solo la ciliegina sulla torta. Avevo anche l’impressione che fosse un po’ ubriaco. Mi deve un mondiale, quel signore lì”, continua il secondo marcatore di sempre della storia del Bologna dopo Pascutti. Un giocatore capace, nel 1963, di vincere una Coppa dei Campioni con il Milan contro il Benfica a Wembley. “Devo ringraziare Altafini, il più grande giocatore con cui abbia mai giocato. Fece una doppietta. Di là c’era Eusebio, ma anche lui dovette arrendersi. Josè in quelle giornate era troppo anche per lui”.

Una grande gioia che mitiga ma non cancella la delusione di Belfast.“Piangevamo tutti di rabbia negli spogliatoi. Anche gli oriundi, che a differenza di quello che si è detto in seguito, tenevano tantissimo alla maglia azzurra. Da Costa era uno dei più inconsolabili, altro che menefreghisti. Per non parlare di Schiaffino: un uomo e un atleta eccezionale. Aveva sempre un gesto o una parola giusta, anche là negli spogliatoi di Belfast. Un esempio vero”.

Pivatelli difende anche il commissario tecnico Foni, messo all’epoca sotto accusa dalla stampa per una formazione troppo spregiudicata: “Macché, lui è sempre stato un difensivista. Noi avevamo giocatori fortissimi nel tenere palla. Quello era il nostro piano e quello avremmo fatto. Il problema è che su quel maledetto campo non si stava neanche in piedi. Che doveva fare Foni? Era uno capace e anche una brava persona. Come Ventura del resto”.

Da Belfast a Stoccolma, una storia che non si deve ripetere. “Siamo in buone mani. Giampiero è un amico e un uomo di grande esperienza. Saprà mettere in campo una squadra adeguata. Sono molto fiducioso, non penso che falliremo quest’appuntamento”.

L’ex giocatore rossoblù da qualche anno non frequenta più lo stadio ma continua a seguire il campionato, con un occhio particolare per i club nei quali ha militato più a lungo, Bologna e Milan. “Di attaccanti col mio tiro non ne vedo tanti. Fanno più movimento di quello che facevo io di sicuro, però a calciare non so… Per il resto, mi piacerebbe veder vincere lo scudetto al Napoli. Lì ho giocato una stagione sola, ma mi è bastato per apprezzare quel pubblico fantastico. Auguro ai napoletani di festeggiare questo titolo, se lo meritano proprio”.

Pivatelli saluta e torna dalla moglie Luisa. Tra qualche mese festeggeranno 60 anni di matrimonio. Un amore coronato dopo una grande delusione sportivo. E alla fine ciò che è veramente rimasto di quel 1958 è ancora lì accanto a lui.

La Siria e quel sogno Mondiale ancora acceso

479771Deir ez zor, città della zona orientale della Siria. Terra di sangue e di conflitti. Fino a un mese fa, completamente in mano ai miliziani dell’Isis. L’esercito del dittatore Bashar al Assad è quasi riuscito a liberarla. Non del tutto ancora. Nelle notti scorse l’aviazione russa è giunta in soccorso, bombardando: 133 vittime, quasi tutti civili.

A quasi 7500 chilometri da lì, allo stadio Hang Jebat di Malacca in Malesia, la Siria gioca “in casa” contro l’Australia l’andata del doppio spareggio per la qualificazione alla Coppa del Mondo. Un figlio di Deir ez zor, Omar Al Somah, segna un calcio di rigore a 5 minuti dalla fine. È il gol del pareggio: 1-1. Verdetto rimandato a martedì prossimo, a Sidney.

al somah

Omar, in Russia, sogna di volarci a giugno. Con i suoi compagni, in un mondiale a cui nessuno pensava e che oggi è ancora possibile.

Da anni segna valanghe di gol in Arabia Saudita nell’Al-Ahli. In nazionale è tornato solo da qualche settimana. Cinque anni fa era stato escluso per avere sventolato la bandiera dei ribelli anti Assad dopo una vittoria contro l’Iraq. Il regime lo ha perdonato, lui ha accettato. Per “tentare di regalare una gioia alla nostra gente”, ha detto. E in parte ci è già riuscito: un altro suo gol del pareggio – contro l’Iran a inizio settembre – ha mantenuto vivo il sogno qualificazione. Una rete festeggiata da migliaia di persone nelle strade di Damasco.

Omar al Somah, centravanti ed eroe nazionale in patria. Eppure non tutti lo vedono così. Molti esuli lo hanno considerato un traditore, al pari di Firas Al Khatib, fantasista ed ex simbolo della resistenza della città di Homs al regime. Per anni si è autoescluso dalla selezione. Poi nel febbraio scorso è tornato a vestire la maglia delle “aquile di Qasioun”, epiteto legato al monte che sovrasta Damasco. Una scelta che ancora oggi non lo fa dormire. Con Assad che combatte l’Isis o contro Assad che bombarda i civili siriani? Il numero 10 siriano ha scelto semplicemente di giocare, la cosa che gli è sempre riuscita meglio.

Una cosa che purtroppo non possono più fare tanti suoi ex compagni, caduti in battaglia o semplicemente spariti. Uno di questi, veniva da Homs, proprio come lui. Si chiamava Abdel Baset Sarout, classe 1992. Fino al 2011 era considerato il più forte portiere mai nato in Siria. Un fenomeno, tipo Donnarumma. Ma allo scoppiare della guerra civile, ha scelto di stare contro Assad, in prima linea. La parola “assedio” per lui ha assunto un significato del tutto diverso. Di lui non si hanno più notizie. Altri 37 calciatori importanti hanno fatto la stessa fine durante questi anni. Un tempo in cui gli stadi sono serviti soprattutto come basi militari. Luoghi di morte e non di gioia.

La guerra in Siria è ancora una realtà sempre più complessa. Neanche il calcio può fermarla. Eppure la favola della nazionale che sogna il mondiale può aiutare per qualche ora a dimenticare l’orrore. Le bombe, gli allarmi che suonano, il mezzo milione di morti in 6 anni. Sotto una sola maglia, la squadra allenata da Ayman Hakeem prova a riunire un popolo disperso, ferito, frammentato.

Contro l’Australia si è trovata in svantaggio e ha reagito con la rabbia di chi non accetta altri sogni spezzati. Nessuno dei giocatori in rosa gioca in Europa, in pochissimi guadagnano abbastanza per vivere bene col pallone. Chi gioca in patria, spesso non sa quanto tempo passerà fra una partita e l’altra. Eppure il mondiale adesso è lì, vicino, anche se non vicinissimo.

Non basterà superare l’Australia. Servirà, eventualmente, anche uno spareggio a novembre contro la quarta classificata dell’area Concacaf. L’area centrosettentrionale dell’America, per intendersi. Probabilmente fra Panama, Honduras o addirittura Stati Uniti.

Pensieri ancora lontani per un popolo abituato da tempo a vivere alla giornata. E da qualche settimana, nuovamente aggrappato ai gol di Omar al Somah. Il figliol prodigo, almeno per chi ha scelto di concentrarsi solo sul pallone e sulla sua magia.

La sinistra polacca punta sulla bellezza: votate Magdalena

Magdalena Ogorek, candidata socialdemocratica alla presidenza della Polonia

Magdalena Ogorek, candidata socialdemocratica alla presidenza della Polonia

La sinistra europea guarda alla Polonia con un occhio diverso. E non lo fa solo pensando a possibili riforme politiche, ma anche alle forme della candidata socialdemocratica alle elezioni presidenziali del 10 maggio.

Magdalena Ogorek, 35 anni, alta, bionda e occhi azzurri. L’Alleanza della Sinistra democratica polacca punta su di lei per tornare a occupare la poltrona più prestigiosa di Varsavia. Una scelta affascinante e contestata quella dello schieramento nato nel 1990 dalle ceneri del Partito operaio unico. Quello per capirsi guidato in passato da Gomulka e Jaruzelski, rigidi burocrati storicamente poco sensibili al fascino femminili. [Read more…]

In difesa di Raif Badawi, il blogger frustato per “eccesso di libertà”

IMG_3948Io e Raif Badawi siamo nati lo stesso giorno. Il 13 gennaio. Lui nel 1984, due anni prima di me. Martedì era il nostro compleanno. Lo abbiamo festeggiato in modo diverso. Io stavo a casa a dare forma a un blog appena nato, cercando di dare sostanza a sogni giornalistici. Lui l’ha passato in una prigione dell’Arabia Saudita, condannato a dieci anni di carcere per aver gestito un blog in cui si parlava troppo liberamente dell’Islam.

Raif non pretende di essere un profeta. E nemmeno io. Voleva soltanto aprire una discussione su quale fosse il ruolo nella società moderna di Maometto e degli altri punti di riferimento della sua religione. Per questo, lo stesso stato che ha “fermamente condannato” gli attacchi di Parigi, non lo ha solo rinchiuso in una prigione di Gedda. Gli hanno inflitto una punizione esemplare: mille frustate in piazza davanti alla moschea della città saudita. [Read more…]

Cornamuse e pub, scozzesi a Roma nel giorno del referendum

Roma, la chiesa presbiteriana di St. Andrews in via XX settembre
Roma, la chiesa presbiteriana di St. Andrews in via XX settembre

Alla fine la Scozia ha detto no. No all’indipendenza dal Regno Unito, no all’idea di staccarsi da quella Londra un po’ mamma, un po’ matrigna con cui cammina sotto braccio da più di 300 anni.
Una risposta netta a una domanda che ha diviso le coscienze di un popolo tanto orgoglioso quanto razionale, tanto accogliente quanto scettico sui grandi cambiamenti.

Anche a Roma, lontano dal fiume Tweed e dal lago di Loch Ness, il dilemma è stato vissuto con grande partecipazione da chi porta nel cuore i destini della patria di Braveheart.

Abbiamo sentito suonatori di cornamuse, reverendi, gestori e avventori di pub e docenti universitari. Scozzesi trapiantati a Roma e romani legati profondamente alle Highlands.

Visioni diverse, speranze tradite per alcuni, esaudite per altri. Il racconto di un giorno speciale che nessuno di loro potrà dimenticare.