Alla scoperta di Malcore, il bomber venuto dalla D: “Da bambino sfondavo i garage”

giancarlo-malcore-carpiQuasi tutti i bambini sognano di diventare calciatori. Il pallone fra i piedi, i primi calci, una porta qualsiasi da inquadrare. In mezzo a due cappotti, fra due alberi, oppure, semplicemente, la saracinesca di un garage. La stessa che Giancarlo, a 4 anni, colpiva con potenza e precisione. “Tiravo talmente forte che mio padre si affacciava per vedere chi fosse stato. Non poteva credere che fossero i miei tiri. Avevo già deciso che avrei fatto il calciatore”.

Giancarlo di cognome si chiama Malcore. È cresciuto a San Donaci, un paesino di 6mila abitanti del Salento. L’anno scorso era in serie D a Manfredonia, città di nascita di Matteo Lauriola, il direttore sportivo che ha scelto di portarlo a Carpi, due categorie più in alto. Sabato scorso, Giancarlo ha realizzato la sua prima tripletta in serie B. Tre gol all’Ascoli, tre punti importanti per il Carpi. “Sono molto contento – racconta ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – sono le prime vere soddisfazioni della mia carriera. A me sembrava già un sogno fare il ritiro quest’estate con una squadra di questo livello”.

Nessuna difficoltà nell’adattarsi a una categoria diversa, anzi. Malcore viaggia alla media di un gol ogni 79 minuti. Numeri alla Messi per il ragazzo che gli amici chiamavano il “Fernando Torres del Salento”. Giancarlo ride di questa definizione: “Sì, lo dicevano ma più per il colore di capelli e qualche tratto somatico simile. Come caratteristiche non c’entro molto: a me piace giocare la palla, sono più una seconda punta”.

Il Salento, la terra che l’ha cresciuto, lo ha poi lasciato andare via. E per un ragazzo cresciuto nelle giovanili del Lecce da quando aveva 8 anni, questa è ancora una ferita aperta. “Mi ero immaginato una carriera lunga nella squadra della mia città. Avevo fatto tutta la trafila con la maglia giallorossa. Sentivo che era il mio posto”. Eppure il momento di Malcore non arrivava mai. ”C’erano diverse persone che non mi ritenevano pronto per il Lecce. C’era sempre qualcuno reputato più bravo di me. Avevo perso un po’ di fiducia. Eppure Chevanton, uno dei miei idoli d’infanzia, mi spronava a insistere: diceva che prendevo sempre la porta. E che dovevo lottare su ogni pallone. È stato un compagno eccezionale. Perdemmo una finale in casa, proprio col Carpi. Era il 2013. Io la vidi tutta dalla panchina. E piansi”.

Poi iniziò una processione in un calcio periferico. Gavetta vera, fra Nocerina, Paganese, Chieti e Manfredonia. “Nelle categorie inferiori, 7 volte su 10 devi inventare una giocata. In B è vero che ci sono difese più attrezzate, ma hai anche giocatori capaci di metterti in condizione di segnare. E un’organizzazione tattica che aiuta chi deve finalizzare. Quella di mister Calabro, per esempio, mi dà una grande mano là davanti”.

Eppure il suo allenatore, in quest’avvio di stagione, gli ha riservato più di qualche panchina e sta sempre addosso al suo quasi compaesano. “Quando se la prende con me, si sfoga in dialetto. Così sa che il messaggio mi arriva prima”, scherza Malcore. “Apprezzo molto il fatto che sia esigente con me. Mi dice sempre di non mollare un centimetro. Io faccio di tutto per cercare di essere pronto, Non è un sacrificio, perché il calcio è la mia vita”. E magari un domani quella vita potrebbe essere quella di un calciatore di serie A: “Voglio arrivarci prima possibile e rimanerci a lungo. Non lo nascondo, è un mio obiettivo da quando ho iniziato”.

Suo padre Cosimo, grande appassionato di calcio e militare dell’Aeronautica, ha sempre creduto nei mezzi del figlio. È stato lui a indirizzarlo al calcio, togliendogli la palla da basket dalle mani, l’altra sua grande passione. Magari mamma Lucia avrebbe avuto qualche completino meno sporco da lavare, ma non importa. Il loro Giancarlo oggi ha 23 anni e ancora lo spirito di quel bambino che massacrava a pallonate la saracinesca di un garage.

“Voglio solo fare bene col Carpi. Ho compagni splendidi, che mi hanno fatto sentire subito a casa. Da Mbakogu che abbraccio ogni volta che vedo, a Pasciuti che non fa mai un errore tattico. Arrivare a 50 punti è il nostro primo obiettivo”.

Zona tranquillità, al riparo da brutte sorprese. Individualmente, invece, la missione è fare meglio dei 14 gol dell’anno scorso a Manfredonia. Era serie D, ma fa rete fa sempre lo stesso rumore. Ne ha già fatti 5, ne restano altri 10. Conviene scommettere su di lui?

“Chi lo ha fatto in passato, di solito ha vinto”, afferma a metà fra gioco e spavalderia. “Quando ero ancora in Salento, c’era il proprietario di un chiosco vicino a dove giocavamo che scommetteva contro di me, alzando sempre il numero di reti da fare. Gli andava male comunque. Era divertentissimo”. Quasi come un gol stupendo al Napoli in precampionato o una tripletta alla nona presenza in B. “Bello sì, ma ormai è già passato. Domenica arriva il Brescia, squadra tostissima. Ci faremo trovare pronti”.

Come sta facendo lui, Giancarlo Malcore da San Donaci, al primo anno vero in un campionato professionistico.

L’eliminazione dell’Italia nel ‘58, raccontata da Gino Pivatelli: “Io c’ero”

Gino_Pivatelli

“E chi se la dimentica quella partita? Avrei dato un braccio per andare al mondialeMi viene ancora da piangere se ci penso”. Il signore dall’altra parte della cornetta fa una lunga pausa. Sospira e forse una lacrima gli scende davvero. Gino Pivatelli, nel 1958, era il centravanti della nazionale che fallì la qualificazione ai mondiali contro l’Irlanda del Nord. Quel 15 gennaio era in campo a Belfast. Aveva 24 anni. Oggi ne ha 84 e vive a Bologna con la moglie Luisa, sposata nel ’58 “nel periodo in cui saremmo dovuti andare in Svezia per la Coppa del Mondo”, racconta al microfono di Gianlucadimarzio.com. “Avevo anche pensato di portarla a vedere i mondiali in viaggio di nozze. Ma alla fine preferimmo fermarci in Danimarca dai miei compagni al Bologna Jensen e Pilmark. Meglio così, mi sarei solo arrabbiato di nuovo”.

E sessant’anni dopo, quell’amarezza è ancora lì, tangibile e indifferente al tempo trascorso. “Non fu un incontro di calcio, fu una vergogna. Giocammo su un terreno scandaloso, una palude di fango. Sembravano sabbie mobili, si andava giù fino alla caviglia”. E anche un bomber come Pivatelli, 146 gol in carriera, quel giorno rimase all’asciutto. “Ebbi un paio di occasioni nel primo tempo che se mi capitassero adesso, lì fuori nel giardino, farei sicuramente due gol. Là facevi fatica a prendere la palla. No, non si doveva permettere di giocare una partita del genere. Ma sa, con quell’arbitro lì…”.

Istvan Zsolt, fischietto ungherese. Il vero colpevole – secondo Pivatelli – della sconfitta di Belfast. “La sua figura è la prima immagine che mi viene in mente di quella sfida. Me lo ricordo come se ce l’avessi davanti ora: senza capelli, con la pancia, ci fischiò tutto contro. Buttò fuori Ghiggia, ma fu solo la ciliegina sulla torta. Avevo anche l’impressione che fosse un po’ ubriaco. Mi deve un mondiale, quel signore lì”, continua il secondo marcatore di sempre della storia del Bologna dopo Pascutti. Un giocatore capace, nel 1963, di vincere una Coppa dei Campioni con il Milan contro il Benfica a Wembley. “Devo ringraziare Altafini, il più grande giocatore con cui abbia mai giocato. Fece una doppietta. Di là c’era Eusebio, ma anche lui dovette arrendersi. Josè in quelle giornate era troppo anche per lui”.

Una grande gioia che mitiga ma non cancella la delusione di Belfast.“Piangevamo tutti di rabbia negli spogliatoi. Anche gli oriundi, che a differenza di quello che si è detto in seguito, tenevano tantissimo alla maglia azzurra. Da Costa era uno dei più inconsolabili, altro che menefreghisti. Per non parlare di Schiaffino: un uomo e un atleta eccezionale. Aveva sempre un gesto o una parola giusta, anche là negli spogliatoi di Belfast. Un esempio vero”.

Pivatelli difende anche il commissario tecnico Foni, messo all’epoca sotto accusa dalla stampa per una formazione troppo spregiudicata: “Macché, lui è sempre stato un difensivista. Noi avevamo giocatori fortissimi nel tenere palla. Quello era il nostro piano e quello avremmo fatto. Il problema è che su quel maledetto campo non si stava neanche in piedi. Che doveva fare Foni? Era uno capace e anche una brava persona. Come Ventura del resto”.

Da Belfast a Stoccolma, una storia che non si deve ripetere. “Siamo in buone mani. Giampiero è un amico e un uomo di grande esperienza. Saprà mettere in campo una squadra adeguata. Sono molto fiducioso, non penso che falliremo quest’appuntamento”.

L’ex giocatore rossoblù da qualche anno non frequenta più lo stadio ma continua a seguire il campionato, con un occhio particolare per i club nei quali ha militato più a lungo, Bologna e Milan. “Di attaccanti col mio tiro non ne vedo tanti. Fanno più movimento di quello che facevo io di sicuro, però a calciare non so… Per il resto, mi piacerebbe veder vincere lo scudetto al Napoli. Lì ho giocato una stagione sola, ma mi è bastato per apprezzare quel pubblico fantastico. Auguro ai napoletani di festeggiare questo titolo, se lo meritano proprio”.

Pivatelli saluta e torna dalla moglie Luisa. Tra qualche mese festeggeranno 60 anni di matrimonio. Un amore coronato dopo una grande delusione sportivo. E alla fine ciò che è veramente rimasto di quel 1958 è ancora lì accanto a lui.

Il “pioniere” Leonardo e una nuova tappa del suo viaggio: la Turchia

Leonardo_Nascimento_de_Araújo_2013-01-01Coraggio, cuore e curiosità. Tre “c” che riassumono le scelte della seconda vita nel calcio di Leonardo, nuovo allenatore dell’Antalyaspor.
Nuovo viaggio, sfida nuova di un uomo che ama essere esploratore e pioniere. A Milano, a Parigi e adesso in Turchia. Da sei anni non tornava in panchina: era il 29 maggio del 2011. A Roma, nella finale di Coppa Italia, la sua Inter batteva 3-1 il sorprendente Palermo di Delio Rossi. Doppietta decisiva di Samuel Eto’o, oggi stella dei turchi. Leonardo guarderà subito a lui per rialzare una squadra inchiodata al 13° posto, nonostante i milioni spesi daAli Şafak Öztürk, proprietario del club . Un presidente che non vuole perdere tempo: 33 anni, rampante petroliere con un fatturato annuo di 10 miliardi e zero voglia di galleggiare sui bassifondi della classifica.

La sua ambizione ha convinto il brasiliano, insieme alla curiosità per un campionato nuovo, la voglia di rimettersi in gioco, la possibilità di farlo con Nasri, Menez e il camerunense là davanti. Ricominciare dalla periferia del calcio. Dare un senso agli investimenti fatti. Quasi un déja vu per Leo, che nel 2011 ricevette dal nuovo PSG degli sceicchi la direzione sportiva del club. Manager lontano dal campo. Due anni a lavorare dietro le quinte per portare i parigini nel calcio che conta, ingaggiando Ancelotti, Ibrahimovic, Thiago Silva, Verratti e Cavani, prima di salutare a seguito di una discussa squalifica per uno scontro con l’arbitro Castro dopo un pareggio con il Valenciennes.

Zlatan_Ibrahimović_unveilingUn addio difficile, dopo aver messo il PSG sulla mappa del calcio europeo. Un congedo dalla squadra che, da giocatore, nel ’96 gli aveva dato la possibilità di mettersi in luce in Europa. Veniva dal campionato vinto con i Kashima Antlers in Giappone, paese cruciale per la sua carriera. A Tokio, infatti, nel ’93 il suo San Paolo sconfisse il Milan in coppa Intercontinentale. Nel frastuono delle trombette e nel dolore della sconfitta, i rossoneri fecero la sua conoscenza. Fu amore a prima vista, concretizzato nel ’97 e andato avanti per 13 anni. Prima in campo, poi come osservatore e infine come allenatore. Una scommessa durata un anno, finita dopo un campionato concluso al terzo posto e ricordato soprattutto per il modulo “4-2 e fantasia”. Ronaldinho, Pato e Borriello più Seedorf. Liberamente ispirato al Brasile di Telè Santana, croce e delizia di una stagione divertente ma non abbastanza vincente, secondo i vertici. “A un certo punto avevo pensato che il Milan fosse la mia eternità”, disse poco dopo l’addio. Sbagliava, ma da cittadino del mondo trovò il coraggio per rimettersi in viaggio. Spostandosi di una ventina di chilometri, la distanza che separa Milanello da Appiano Gentile. Il luogo più vicino e lontano che potesse scegliere. La panchina dell’Inter, al posto di Benitez, nell’anno dopo il triplete. La stima di Moratti, un secondo posto alle spalle proprio del Milan di Allegri, fino all’addio, dopo il citato trionfo in coppa Italia.

Leonardo_Vicario

Oggi a 48 anni Leonardo torna in campo. Di nuovo protagonista dopo l’esperienza da commentatore a Sky Sport. C’è un progetto da far crescere, un club che somiglia a una start up. Leonardo in gioventù voleva diventare ingegnere. Il calcio gli ha fatto prendere un’altra via. Un po’ come il suo illustre omonimo del Rinascimento, si è trovato a dipingere, affrescare, inventare, plasmare, restaurare.
Un artista a disposizione di un facoltoso mecenate. Avrà due anni per accontentarlo e fare dell’Antalyaspor una nuova Gioconda.