La favola del portiere goleador: Brignoli ma non solo. Quando l’irrazionale speranza vince sulla ragione

brignoli_golQuella maglia diversa da tutte le altre nel mezzo di un territorio sconosciuto. Lo spirito dell’avventuriero e l’inadeguatezza dell’aspirante eroe per caso. Il cross, la speranza, l’impatto. Gol del portiere, pazzesco. L’ incantesimo del Benevento si chiude con una storia da favola. Il primo punto di un torneo stregato arriva così, all’ultimo minuto, nel modo più incredibile. Alberto Brignoli. È lui il protagonista della fiaba del giorno. Otto presenze in questa stagione, 18 palloni raccolti in fondo alla rete. Fino al 95’ di Benevento-Milan, il gol per lui ha sempre avuto il sapore della sconfitta. È stato sempre così, fino al colpo di testa che ridà speranze a una città e sancisce il trionfo dell’irrazionalità sulla ragione.

Il portiere che segna. Un ossimoro, il gesto disperato e ribelle contro il calcio degli schemi e della preparazione meticolosa. Perché vedere quell’uomo che rompe la sua solitudine e va a mischiarsi in cerca di gloria fa sempre sobbalzare. Mossa estrema, inchino al fato e che Dio la mandi buona. Quasi sempre non accoglie la preghiera, ma quando lo fa è una rivoluzione. Il sussulto di speranza che diventa gioia primordiale. Braccia larghe e corsa urlante. Ha esultato così Brignoli, inseguito dai compagni impazziti e liberati da un incubo. Quasi sempre i portieri gioiscono così. In modo sfrenato e infantile, perché sono impreparati a quel tipo di felicità. Non hanno mitraglie o dita da roteare vicino all’orecchio. Hanno solo quel flash: il pallone che finisce oltre la riga, il merito inusuale di esserne stati i protagonisti. Non hanno pose per i fotografi o gesti in mente. Vivono quella gioia urlandola, increduli, come si fa di fronte a eventi difficilmente ripetibili.

IL GOL DI RAMPULLA

Ne abbiamo già visti, ogni tanto, nel nostro campionato. Il primo a segnare su azione è stato Michelangelo Rampulla in un derby: Atalanta-Cremonese, 23 febbraio 1992.

Bergamaschi in vantaggio con un rigore di Bianchezi a fine primo tempo. I grigiorossi attaccano per tutta la ripresa a caccia del pareggio che non arriva. Poi nei minuti di recupero, l’ultima occasione. Punizione dal lato destro. Una sorta di corner corto. Lo batte Chiorri. Dall’altra parte del campo piomba in area Rampulla. Un’ora prima in quella porta ha raccolto il pallone del rigore subito, questa volta è lui con un tuffo a costringere il collega Ferron alla raccolta. Entrambi nella storia. Sarà proprio Rampulla il primo a consolare il portiere avversario a fine partita. Col tempo rimarrà sempre “l’uomo di quel gol” e un po’ lo maledirà, perché quella rete ha in parte oscurato una carriera passata a non prenderli. Nei dieci anni successivi ha vinto tutto con la Juventus, ma il suo nome evocherà sempre quel ribaltamento di ruoli. Il primo su azione, ma non il primo del calcio italiano del dopoguerra.

LUCIDIO SENTIMENTI, PRIMO PORTIERE RIGORISTA

Il caso vuole che lo stadio fosse sempre lo stesso. E sempre l’Atalanta la vittima. Era il 4 novembre del 1945. Al Mario Brumana, nome con cui si chiamava all’epoca l’impianto che oggi conosciamo come Atleti Azzurri d’Italia, la Juventus ottiene il pareggio in extremis con un rigore battuto da Lucidio Sentimenti. Il portiere bianconero andò a calciare perché Silvio Piola non si sentiva in condizione di tirare.

Gol, ma Sentimenti lo aveva già fatto un’altra volta, prima che il conflitto mondiale fermasse vite e palloni. Stagione 1941/42, Napoli-Modena al San Paolo. Lucidio difende la porta degli emiliani, il fratello Arnaldo è invece il portiere della squadra di casa. È conosciuto come pararigori. Ne ha già presi sei in campionato. Un Handanovic ante litteram. Nessuno vuole confrontarsi contro di lui. Ha già ipnotizzato gente come Bernardini e Piola. Il Modena, sotto 2-0, guadagna un rigore. Nessuno vuole prendersi la responsabilità. Nessuno, a parte il fratello minore che lo conosce da sempre. Sentimenti II contro Sentimenti IV. Parenti serpenti. “Che sei venuto a fare tanto te lo paro”, dice Arnaldo. “Non metterci le mani, tiro forte”, risponde Lucidio. E alla fine ha ragione lui. Rete e insulti familiari. Alla fine però, quella partita la vince comunque il Napoli.

Lucidio Sentimenti chiuderà la sua carriera con 5 reti realizzate, tutte dal dischetto. Uno talmente bravo con i piedi che la Juve lo utilizzò anche come ala destra in un anno in cui aveva le dita della mano destra fratturate. Il portiere più prolifico del nostro campionato, meglio di Antonio Rigamonti, che negli anni ’70 andò a segno tre volte dal dischetto. Con la maglia del Como, per volontà di mister Marchioro. Lontanissimo dai goleador dell’epoca moderna visti in altri tornei: Rogerio Ceni, leggendario portiere brasiliano del San Paolo, fra punizioni e rigori è andato a segno 120 volte. Quasi il doppio del paraguaiano Chilavert, autore di 62 reti e perfino di un’ineguagliata tripletta nel ’99 con la maglia del Velez

DA TAIBI AD AMELIA

Ma il portiere che calcia da fermo non ha lo stesso fascino del gol disperato su corner. In settimana Milinkovic Savic, estremo difensore del Torino aveva colpito una traversa su punizione nei minuti di recupero contro il Carpi. Forse era il segnale che qualcosa di magico stava per accadere di nuovo. L’ultima rete di un portiere in serie A l’aveva segnata Massimo Taibi, aprile 2001, in un Reggina-Udinese. Corner all’ 87’, calabresi in svantaggio, il portiere reggino si avventa in area e di testa trafigge Turci. Gol del pareggio, come quasi sempre succede, perché nessuno osa mandare in avanti l’ultimo baluardo quando c’è ancora un risultato da difendere. Ci ha provato Buffon in quell’Italia-Svezia che vorremmo non aver mai vissuto ma sarebbe stata comunque una vittoria parziale prima dei supplementari.

Una volta però qualcuno ci è riuscito. Fabio Coltorti, svizzero di Locarno, numero 1 del Lipsia nel 2015. Lontani dai fasti attuali, i tedeschi si trovavano nella Zweite Bundesliga a caccia della promozione. In uno scontro diretto contro il Darmstadt serviva solo vincere. Per questo sull’1-1 nei secondi finale anche Coltorti si butta nella mischia. E segna clamorosamente con una girata di destro, dopo un pregevole quanto casuale controllo mancino. Vittoria del Lipsia, che quell’anno non riesce a salire, ma negli anni successivi inizierà la scalata al calcio europeo.

Momenti eccezionali, come il colpo di tacco con cui il danese Martin Hansen dell’ADO Den Haag aggancia il PSV Eindhoven in una gara di Eredivisie. Forse la rete più bella mai segnata da un portiere, al pari della rovesciata del sudafricano Oscarine Masuluke, portiere del Baroka Fc contro gli Orlando Pirates.

Storie di gol lontani ed eroici. L’ultimo di un portiere italiano fu messo a segno invece in una competizione europea. Era il novembre del 2006, fase a gironi di Europa League, Partizan Belgrado-Livorno. A quattro minuti dalla fine i toscani si trovano sotto. Punizione dal lato sinistro, Marco Amelia, contro il volere di mister Arrigoni, si precipita in area. Il Livorno ha bisogno di un punto per tenere vive le speranze di qualificarsi ai sedicesimi di finale. Lo ottiene proprio così, con un’incornata del suo portiere, che esulta come forse non aveva fatto neanche a Berlino pochi mesi prima.

Gioie uniche, momenti di follia che aiutano a non crescere. Pazzie che a volte si “ereditano” in famiglia. Come successo agli Schmeichel, Petar e Kasper, padre e figlio a segno con le maglie del Manchester United e Leicester. Magie di un momento destinate a restare per sempre.

Perché, si sa, la speranza è sempre l’ultima a morire. E nel calcio, quella speranza, spesso la riconosci facilmente: ha una maglia diversa da tutte le altre e si trova in mezzo a tante divise uguali tra loro. E ogni gol segnato da lei è una piccola favola che non muore mai.

L’eliminazione dell’Italia nel ‘58, raccontata da Gino Pivatelli: “Io c’ero”

Gino_Pivatelli

“E chi se la dimentica quella partita? Avrei dato un braccio per andare al mondialeMi viene ancora da piangere se ci penso”. Il signore dall’altra parte della cornetta fa una lunga pausa. Sospira e forse una lacrima gli scende davvero. Gino Pivatelli, nel 1958, era il centravanti della nazionale che fallì la qualificazione ai mondiali contro l’Irlanda del Nord. Quel 15 gennaio era in campo a Belfast. Aveva 24 anni. Oggi ne ha 84 e vive a Bologna con la moglie Luisa, sposata nel ’58 “nel periodo in cui saremmo dovuti andare in Svezia per la Coppa del Mondo”, racconta al microfono di Gianlucadimarzio.com. “Avevo anche pensato di portarla a vedere i mondiali in viaggio di nozze. Ma alla fine preferimmo fermarci in Danimarca dai miei compagni al Bologna Jensen e Pilmark. Meglio così, mi sarei solo arrabbiato di nuovo”.

E sessant’anni dopo, quell’amarezza è ancora lì, tangibile e indifferente al tempo trascorso. “Non fu un incontro di calcio, fu una vergogna. Giocammo su un terreno scandaloso, una palude di fango. Sembravano sabbie mobili, si andava giù fino alla caviglia”. E anche un bomber come Pivatelli, 146 gol in carriera, quel giorno rimase all’asciutto. “Ebbi un paio di occasioni nel primo tempo che se mi capitassero adesso, lì fuori nel giardino, farei sicuramente due gol. Là facevi fatica a prendere la palla. No, non si doveva permettere di giocare una partita del genere. Ma sa, con quell’arbitro lì…”.

Istvan Zsolt, fischietto ungherese. Il vero colpevole – secondo Pivatelli – della sconfitta di Belfast. “La sua figura è la prima immagine che mi viene in mente di quella sfida. Me lo ricordo come se ce l’avessi davanti ora: senza capelli, con la pancia, ci fischiò tutto contro. Buttò fuori Ghiggia, ma fu solo la ciliegina sulla torta. Avevo anche l’impressione che fosse un po’ ubriaco. Mi deve un mondiale, quel signore lì”, continua il secondo marcatore di sempre della storia del Bologna dopo Pascutti. Un giocatore capace, nel 1963, di vincere una Coppa dei Campioni con il Milan contro il Benfica a Wembley. “Devo ringraziare Altafini, il più grande giocatore con cui abbia mai giocato. Fece una doppietta. Di là c’era Eusebio, ma anche lui dovette arrendersi. Josè in quelle giornate era troppo anche per lui”.

Una grande gioia che mitiga ma non cancella la delusione di Belfast.“Piangevamo tutti di rabbia negli spogliatoi. Anche gli oriundi, che a differenza di quello che si è detto in seguito, tenevano tantissimo alla maglia azzurra. Da Costa era uno dei più inconsolabili, altro che menefreghisti. Per non parlare di Schiaffino: un uomo e un atleta eccezionale. Aveva sempre un gesto o una parola giusta, anche là negli spogliatoi di Belfast. Un esempio vero”.

Pivatelli difende anche il commissario tecnico Foni, messo all’epoca sotto accusa dalla stampa per una formazione troppo spregiudicata: “Macché, lui è sempre stato un difensivista. Noi avevamo giocatori fortissimi nel tenere palla. Quello era il nostro piano e quello avremmo fatto. Il problema è che su quel maledetto campo non si stava neanche in piedi. Che doveva fare Foni? Era uno capace e anche una brava persona. Come Ventura del resto”.

Da Belfast a Stoccolma, una storia che non si deve ripetere. “Siamo in buone mani. Giampiero è un amico e un uomo di grande esperienza. Saprà mettere in campo una squadra adeguata. Sono molto fiducioso, non penso che falliremo quest’appuntamento”.

L’ex giocatore rossoblù da qualche anno non frequenta più lo stadio ma continua a seguire il campionato, con un occhio particolare per i club nei quali ha militato più a lungo, Bologna e Milan. “Di attaccanti col mio tiro non ne vedo tanti. Fanno più movimento di quello che facevo io di sicuro, però a calciare non so… Per il resto, mi piacerebbe veder vincere lo scudetto al Napoli. Lì ho giocato una stagione sola, ma mi è bastato per apprezzare quel pubblico fantastico. Auguro ai napoletani di festeggiare questo titolo, se lo meritano proprio”.

Pivatelli saluta e torna dalla moglie Luisa. Tra qualche mese festeggeranno 60 anni di matrimonio. Un amore coronato dopo una grande delusione sportivo. E alla fine ciò che è veramente rimasto di quel 1958 è ancora lì accanto a lui.

Il “pioniere” Leonardo e una nuova tappa del suo viaggio: la Turchia

Leonardo_Nascimento_de_Araújo_2013-01-01Coraggio, cuore e curiosità. Tre “c” che riassumono le scelte della seconda vita nel calcio di Leonardo, nuovo allenatore dell’Antalyaspor.
Nuovo viaggio, sfida nuova di un uomo che ama essere esploratore e pioniere. A Milano, a Parigi e adesso in Turchia. Da sei anni non tornava in panchina: era il 29 maggio del 2011. A Roma, nella finale di Coppa Italia, la sua Inter batteva 3-1 il sorprendente Palermo di Delio Rossi. Doppietta decisiva di Samuel Eto’o, oggi stella dei turchi. Leonardo guarderà subito a lui per rialzare una squadra inchiodata al 13° posto, nonostante i milioni spesi daAli Şafak Öztürk, proprietario del club . Un presidente che non vuole perdere tempo: 33 anni, rampante petroliere con un fatturato annuo di 10 miliardi e zero voglia di galleggiare sui bassifondi della classifica.

La sua ambizione ha convinto il brasiliano, insieme alla curiosità per un campionato nuovo, la voglia di rimettersi in gioco, la possibilità di farlo con Nasri, Menez e il camerunense là davanti. Ricominciare dalla periferia del calcio. Dare un senso agli investimenti fatti. Quasi un déja vu per Leo, che nel 2011 ricevette dal nuovo PSG degli sceicchi la direzione sportiva del club. Manager lontano dal campo. Due anni a lavorare dietro le quinte per portare i parigini nel calcio che conta, ingaggiando Ancelotti, Ibrahimovic, Thiago Silva, Verratti e Cavani, prima di salutare a seguito di una discussa squalifica per uno scontro con l’arbitro Castro dopo un pareggio con il Valenciennes.

Zlatan_Ibrahimović_unveilingUn addio difficile, dopo aver messo il PSG sulla mappa del calcio europeo. Un congedo dalla squadra che, da giocatore, nel ’96 gli aveva dato la possibilità di mettersi in luce in Europa. Veniva dal campionato vinto con i Kashima Antlers in Giappone, paese cruciale per la sua carriera. A Tokio, infatti, nel ’93 il suo San Paolo sconfisse il Milan in coppa Intercontinentale. Nel frastuono delle trombette e nel dolore della sconfitta, i rossoneri fecero la sua conoscenza. Fu amore a prima vista, concretizzato nel ’97 e andato avanti per 13 anni. Prima in campo, poi come osservatore e infine come allenatore. Una scommessa durata un anno, finita dopo un campionato concluso al terzo posto e ricordato soprattutto per il modulo “4-2 e fantasia”. Ronaldinho, Pato e Borriello più Seedorf. Liberamente ispirato al Brasile di Telè Santana, croce e delizia di una stagione divertente ma non abbastanza vincente, secondo i vertici. “A un certo punto avevo pensato che il Milan fosse la mia eternità”, disse poco dopo l’addio. Sbagliava, ma da cittadino del mondo trovò il coraggio per rimettersi in viaggio. Spostandosi di una ventina di chilometri, la distanza che separa Milanello da Appiano Gentile. Il luogo più vicino e lontano che potesse scegliere. La panchina dell’Inter, al posto di Benitez, nell’anno dopo il triplete. La stima di Moratti, un secondo posto alle spalle proprio del Milan di Allegri, fino all’addio, dopo il citato trionfo in coppa Italia.

Leonardo_Vicario

Oggi a 48 anni Leonardo torna in campo. Di nuovo protagonista dopo l’esperienza da commentatore a Sky Sport. C’è un progetto da far crescere, un club che somiglia a una start up. Leonardo in gioventù voleva diventare ingegnere. Il calcio gli ha fatto prendere un’altra via. Un po’ come il suo illustre omonimo del Rinascimento, si è trovato a dipingere, affrescare, inventare, plasmare, restaurare.
Un artista a disposizione di un facoltoso mecenate. Avrà due anni per accontentarlo e fare dell’Antalyaspor una nuova Gioconda.