Da Cor Coster a Mino Raiola. Un gioco in procura

Juventus - NapoliDue barricate divise da un apostrofo. L’agente da una parte, la gente dall’altra. Una minima differenza a livello lessicale, due mondi inconciliabili nell’approccio al calcio. Il procuratore e il tifoso, destinati per definizione a non andare d’accordo. Clausole, scadenze e interessi in conflitto con chi vorrebbe maglie tatuate sulla pelle di idoli presenti e futuri.

Chi non è stato sulla luna nell’ultima settimana, avrà sentito parlare del caso Donnarumma. Per gli altri , basti sapere che il portiere del Milan, classe ’99, ha rifiutato il rinnovo del contratto – in scadenza a giugno 2018 – con i rossoneri e adesso rischia di passare una stagione da separato in casa.

In tanti si sono fatti un’idea. La maggioranza si è rumorosamente schierata contro il giocatore, reo di aver tradito la fiducia della società che lo ha lanciato. Sui social, l’immagine più rilanciata è stata quella dell’ormai celebre bacio alla maglia rossonera dopo la sconfitta contro la Juventus a Torino. Donnarumma come Giuda, ma anche come Higuain, Pjanic o Ibrahimovic. Mercenari, secondo il popolo. Professionisti, secondo i custodi delle loro gesta. Ossia i procuratori.

Tra questi svetta Mino Raiola, l’agente di Gigio Donnarumma. La sua parabola è quella dell’uomo che si è fatto da solo. Da cameriere in una pizzeria di famiglia ad Haarlem, sobborgo di Amsterdam, a principe degli intermediari calcistici. Ha cominciato all’inizio degli anni ’90 portando l’olandese Brian Roy al Foggia e in un quarto di secolo ha costruito un impero. Si calcola che abbia incassato 500 milioni di euro di commissioni. La scorsa estate ha portato Pogba al Manchester United. Un trasferimento costato agli inglesi 105 milioni di euro. Tutti soldi nelle casse della Juve? Neanche per sogno. Raiola ha avuto la sua parte, sia dalla Juve, sia dal Manchester, sia dal giocatore.

I bianconeri, in virtù di un accordo siglato con l’agente poche settimane prima che Pogba lasciasse Torino, hanno girato a Raiola 27 milioni di euro. Il Manchester ha dovuto aggiungere alla spesa altri 19 milioni, pagabili in 5 scomode rate entro settembre 2020. E infine la stella francese ha versato a Mino circa 2 milioni e mezzo, una percentuale fra il 10 e il 15% del suo ingaggio.

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Cruijff e Coster insieme

Ora però basta cifre. Chiediamoci quando è iniziato tutto questo e perché. Il primo procuratore che il calcio ricordi è Cor Coster. Vi dice niente il suo nome? Non credo. Quello del suo assistito invece lo sapete di sicuro: Johann Cruijff. È il 1968. L’asso dell’Ajax sta discutendo il suo contratto con la dirigenza. Più che un calciatore, Johann è un artista. Difficile che abbia dimestichezza anche con gli affari venali. Meglio farsi aiutare allora da qualcuno che per lavoro commercia pietre preziose. Uno che qualche anno dopo sarebbe diventato anche suo suocero. Un uomo che, come Raiola, ha iniziato dal niente, vendendo orologi importati dalla Svizzera nel mercato delle pulci di Amsterdam. Coster, contro il volere dei dirigenti olandesi, tratta al posto del calciatore. Nell’anno delle rivoluzioni più o meno realizzate, nasce così un nuovo mestiere.

L’Italia resiste ancora un decennio, prima di scoprire questa figura nel ’77, altro anno caldo nelle strade. Curiosamente, il primo calciatore italiano ad affidarsi a un procuratore è uno di quelli che verranno sempre ricordati con una maglia incollata alla pelle: Giancarlo Antognoni. Il suo agente si chiama Antonio Caliendo e di lavoro fa l’editore di manuali sportivi. Qualche anno dopo gestirà il trasferimento alla Juve dell’erede di Antognoni a Firenze: Roberto Baggio. Ma il divin codino non è certo il suo unico gioiello. Mentre Raiola si divide ancora fra pizzeria e campi di periferia, Caliendo ha già il mondo del calcio ai suoi piedi. Nella finale di Coppa del Mondo di Italia ’90, gestisce 12 dei 22 calciatori in campo. Oggi ha 73 anni e nei giorni scorsi, il suo nome è tornato d’attualità per una curiosa vicenda legata al Modena calcio. Ma di questo parleremo un’altra volta.

donnarumma.milan.mano.sul.cuore.2016.2017.1080x648La domanda di oggi è perché Donnarumma ascolta solo Mino Raiola? E perché chiude la porta al club tifato da bambino e che gli offre un contratto da 5 milioni all’anno? La risposta è nella mente del portiere ma forse è la risposta data da tanti altri calciatori. È la risposta alla domanda “chi ha creduto prima in me”. Perché ammesso e non concesso che si voglia ricondurre la scelta di Donnarumma a questioni etiche, bisogna anche considerare questo aspetto. Da Castellamare di Stabia a San Siro, la strada è lunga. E se il punto di partenza era immutabile, la destinazione poteva essere un’altra qualsiasi. Tante società si erano interessate a quel giovane portiere del Club Napoli. Gli osservatori avevano scritto tanto su quel ragazzone che faceva ancora le medie e oscurava già lo specchio della porta. Gente competente ma disarmata. Prestigiosi e velleitari come ministri senza portafoglio. Per lasciare la propria casa, la famiglia di un quattordicenne ha bisogno di garanzie maggiori. E in questo contesto, i procuratori arrivano sempre prima e con maggiore efficacia rispetto ai club.

Quando Donnarumma firma nell’agosto del 2013 il primo contratto col Milan, non è solo un bimbo di 14 anni. È già un prodotto della scuderia Raiola. Vincenzo, il cugino di Mino, ha già ottenuto la fiducia del signor Alfonso, falegname e padre di Gigio. Affidarsi a loro, finora, ha dato i frutti sperati. Quattro anni dopo, al momento di doversi fidare di qualcuno, i Donnarumma hanno scelto i Raiola. Perché il Milan di oggi non è lo stesso che lo ha scelto. Solo il tempo dirà se migliore o peggiore, ma gli interlocutori di sicuro non sono più gli stessi. E quelli di adesso non hanno la fiducia di Vincenzo e Mino. Che invece sono sempre i due che hanno bussato alla loro porta.  Girare loro le spalle, è difficile se non impossibile.

È questo che la gente fatica a capire dell’agente. Il giocatore, soprattutto se è un potenziale campione, viene cresciuto più dal procuratore che dalla società. Come un Tamagotchi. L’agente rivendica la sua paternità sportiva. Finché il sistema non cambierà, un diciottenne, se proprio deve avere un debito di riconoscenza con qualcuno, ce l’avrà con chi lo ha tirato fuori dal nulla. Per il tifoso è sempre la società, ma il calciatore sa che il più delle volte è il procuratore. E questi è così potente nel calcio di oggi, perché le società sono sempre più impotenti. Soprattutto nella scoperta e nella gestione degli atleti. Perché il cartellino vale meno di una scadenza sul contratto. I giovani diventano professionisti sempre prima e come tali devono essere trattati. Escludendo i sentimenti e pensando ai risultati. Le storie come quella di Francesco Totti ci fanno piangere perché sono uniche ed eccezionali, ma non sono necessariamente un modello. 

La scelta di Donnarumma sembra incomprensibile agli occhi della gente. La squadra della tua infanzia e la possibilità di diventare una bandiera. Infanzia e possibilità. Sogni e romanticismo. È quello che piace alla gente. Ma di sicuro non è quello che cerca l’agente. Che è stato il primo – ricordiamolo – a rendere reale il sogno di quel bambino. E se oggi quella persona dice che bisogna spostare il sogno su una dimensione ancora più grande, forse il bambino di ieri si convince che è ora di cambiare prospettiva. Magari pentendosi di un bacio dato troppo in fretta. Di un gesto che ora ferisce chi lo ha ritenuto il preludio di un’ eterna monogamia. Ma a 18 anni è normale fare cose senza pensare. Anche quando si ha la fortuna di essere predestinati. Poi certo, la ragazza del primo bacio non verrà mai dimenticata. È stato  un amore puro, ingenuo e disinteressato. Ma se non sei Francesco Totti, quel bacio è destinato a finire nei ricordi. E anche la ragazza troverà qualcuno che, almeno per un po’, la farà sentire di nuovo irresistibile. Con l’illusione di una nuova monogamia.

Donnarumma non ha tradito il suo sogno. Non ha tradito Raiola, che lo ha guidato fin dall’inizio convincendolo di poter vincere il Pallone d’oro. Ha tradito l’idea collettiva che potesse essere il nuovo Francesco Totti. Non lo sarà. Ma forse non ha mai voluto esserlo. E non può essergliene fatta una colpa.  Di amori come quello di Totti e la Roma non ne vivremo più probabilmente. Per questo piangevano tutti quel giorno. Per questo alcuni di loro oggi insultano Donnarumma, simbolo – a loro dire – d’ingratitudine e superficialità. Un giorno forse si renderanno conto che la vera illusione è stata pretendere una fedeltà simile da uno studente fuori sede. Uno che sogna di vincere e di guadagnare. Proprio come fanno tutti i lavoratori. Liberi di non amarlo e anche di contestarlo. Ma senza eccedere. In fondo un professionista è normale che sia, almeno un po’, un mercenario. 

Società, calciatori, procuratori. Ognuno fa il suo gioco. L’importante è che ci sia un arbitro all’altezza. Qualcuno che riscriva alcune regole, innalzando i premi di formazione. Uno che non tolleri in alcun modo entrate assassine sui vivai., il bene supremo da tutelare. Il mondo di mezzo in cui si trovano tutti e da cui tutto inizia. 

Lettera di un pallone a Francesco Totti

totti-da-facebook-champions-leagueCiao Francesco,

come va senza di me? Ok, non fare quella faccia. È una domanda stupida, hai ragione. Lo so che ti manco. Domenica me l’hai scritto pure addosso con un pennarello, prima di calciarmi lontano, fra le braccia di chi ci ha amato più forte.

Mamma mia quanto piangevi Francé. Con me vicino, non ti avevo mai visto versare tutte quelle lacrime. Altre volte, in quello stadio, il tuo stadio, eri stato sul punto di crollare.

CALCIO: LAZIO PAZZA GIOIA COPPA ITALIA,ROMA ANNO NERO

26 maggio 2013. Finale Coppa Italia. Lazio-Roma 1-0 (da ForzaRoma.info)

Il 26 maggio di quattro anni fa, per esempio. Il derby perso più doloroso, quello che valeva un trofeo. La Coppa Italia “alzata in faccia” dai laziali, mentre nascondevi la tua fra le mani. Non avevi niente di cui vergognarti. Eri stato l’unico a trattarmi con rispetto, fantasia e volontà. L’ultimo ad arrendersi.

Non ti avevo visto così neanche il 25 aprile del 2010, il giorno in cui Pazzini mi mise due volte alle spalle di Julio Sergio. Credimi, quella domenica avrei preferito sbattere su un palo che finire la mia corsa in rete, sotto la Nord. Ma io non posso decidere dove andare. Sono solo uno strumento fra i piedi degli altri. Roma-Sampdoria 1-2. Fine del sogno scudetto, dopo una rimonta incredibile all’Inter di Mourinho.

Una volta avevi pianto di brutto, me lo ricordo. Dopo Roma-Arsenal nel 2009, ottavi di Champions. Eliminati ai rigori. “Solo chi è romanista come me sa che si può anche piangere per questa maglia”, dicesti a fine partita. Io sono di tutti, ma sappi che l’ho capito comunque.

Mannaggia Francé, quante ne abbiamo passate insieme. Tu sempre con gli stessi colori, io sempre diversi. Ogni anno più sgargiante, più curato, ma alla fine sempre lo stesso. “Il tuo giocattolo preferito”, mi hai definito domenica, mentre passeggiavi per il campo. Senza sapere – per una volta – dove andare.

Gallinari

Prospero Gallinari

Nel ’77, quando ci siamo incontrati per la prima volta, la gente si sparava nelle strade di Roma. Più pallottole che palloni. Fascisti contro comunisti. Tu iniziavi a farmi rotolare, altri smettevano di farlo. Alcuni per sempre, anche se erano solo ragazzi. Erano anni difficili quelli. Il 24 settembre del 1979, due brigatisti, Mara Nanni e Prospero Gallinari, venivano rintracciati e arrestati a via Vetulonia. Sotto casa tua Francé, nella strada dove sei nato. Erano fra i responsabili del sequestro Moro. Tre giorni dopo avresti compiuto tre anni, che ne dovevi sapere delle Brigate Rosse… Le hai scoperte così, col rumore degli spari e le chiazze di sangue sul marciapiede, mentre mamma Fiorella ti tappava le orecchie.

Forse quei colpi ti hanno avvicinato ancora di più a me. E io ti ho aiutato a stare lontano da guai e cattive compagnie. Da grande, visitando Adriano Sofri nel carcere di Regina Coeli, gli hai confidato che forse saresti stato lì anche tu, se non ci fossi stato io. Ci credo poco. Timido com’eri, non ti saresti mai messo in certi giri. Papà Enzo non lo avrebbe mai permesso. Lui ci aveva provato tanto a coccolarmi. Da ragazzino sognava di avermi sempre tra i piedi con la maglia della Roma addosso. Ma il suo tocco non aveva niente a che fare col tuo. Anzi. Ogni volta che giocava a Piazza San Cosimato, a Trastevere,  perdeva e pagava da bere a tutti. Poi sei arrivato tu.

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Francesco a 11 anni

Negli anni ’80 eri sempre in mezzo a un campetto improvvisato. Quattro giacche o due cartelle a fare da pali e via. Eravamo sempre i più piccoli. Nessuno ti voleva in squadra. E alla fine rimanevamo sempre io e te, al momento dell’ultima scelta. “Palla o ragazzino?”. Poi diventavamo una cosa sola e volevano rifare tutto daccapo. Enzo sorrideva, a due passi da te. Come un uomo che guarda il suo bambino aprire il libro delle favole. Era appena iniziata, non poteva immaginare quanto sarebbe arrivata lontana. Restando cosi incredibilmente vicina.

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Gli inizi a Trigoria

Nell’89 hai cominciato a prendermi a calci a Trigoria. Primi sogni realizzati. Per qualche anno mi hai raccolto a bordo campo all’Olimpico. All’intervallo ti mettevi a giocare e già incantavi, in attesa del tuo momento. Che sarebbe arrivato, poco tempo dopo. Era il 28 marzo del 1993, Brescia-Roma. Io ero tutto bianco, come usava una volta. Tu in rosso, con un po’ di giallo. Sulle spalle il numero 16. Ci siamo solo annusati quel giorno. Sei entrato tardi, a partita decisa, al posto di Rizzitelli.

Quello che è successo dopo lo sanno tutti. O magari lo sappiamo solo io e te. Trecentosette volte sono finito alle spalle di un portiere avversario. Di destro, di sinistro, di testa. Mi hai colpito in ogni modo. Il tuo piede ha saputo essere ferro, ma anche piuma.  Quel cucchiaio magico era la tua carezza più dolce. Il tuo modo per dirmi quanto mi volevi bene. Ci sono cascati in Olanda, ancora se lo sognano a San Siro. Una volta, in un Roma-Juve di quattro anni fa mi hai scagliato a 113 chilometri all’ora. Buffon manco mi ha visto. Ed eri già mezzo vecchio Francé… Dai oh, scherzo, lo so che sei permaloso. Lo dice sempre Ilary, l’unica che hai amato più di me. Ah no, ci sono anche Chanel, Isabel e Christian. E questo ragazzino, con me tra i piedi, è sicuramente meglio di suo nonno.

gettyimages-689446666Eravate belli domenica allo stadio. Io una famiglia non l’ho mai avuta, non so neanche dove sono nato e forse è meglio che non sappia chi sono i miei genitori. E soprattutto è meglio che non lo sappiano milioni di bambini.

Domenica però anch’io mi sono sentito tuo figlio. In un momento preciso. Eri entrato da poco al posto di Salah. A un certo punto un difensore del Genoa mi respinge verso la trequarti. Arrivo dall’alto, verso di te. Potresti appoggiarmi di testa, invece t’inarchi in avanti. Atterro docilmente sulla tua schiena e scivolo indietro verso un tuo compagno. Non so perché, ma non riesco a rimuoverlo. Un gesto da padre, di quelli che fate per divertire e per essere dolci. Mi hai stupito ancora una volta. E ho tifato per te. Per tutti i 40 minuti che sei stato in campo, ho sperato che mi buttassi in porta. Lì nella rete a guardarti correre sotto la Sud per l’ultima volta.

totti.roma.2016.palleggio.750x450Qualcuno alla fine l’ha fatto per te e un’oretta dopo ci siamo salutati comunque là, davanti a chi ci ha seguito sempre. Non hai avuto il coraggio di guardarmi. Ti capisco. Neanch’io ce l’avevo. Sono finito in buone mani, quelle di un ragazzo che non mi venderebbe mai. A nessuna cifra. Solo perché sono io, solo perché mi ci hai spedito tu.

Un’ultima cosa, Francé. Io non te lo dico “mi mancherai”. Perché lontano dagli occhi della folla, lontano dalle telecamere, lontano dagli allenatori, dai presidenti, dall’Olimpico, da Trigoria, io e te non ci lasceremo mai. Abbiamo tutto il tempo per giocare. Come abbiamo sempre fatto. Benedetto tempo…

Grazie Francesco,

Il tuo giocattolo preferito.

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Francia-Romania: dalla poesia di Cioran a Les Ulis

euro-2016-sorteggiFinalmente si comincia. Per un mese tanti rapporti andranno in crisi. Molte donne troveranno amanti disinteressati al pallone. I divani diventeranno discariche e sui pavimenti di tutt’Europa il più esagitato o maldestro della compagnia rovescerà bevande. Diventeranno colla, perché “vabbè dai-lascia stare-tanto tra poco c’è l’intervallo”. 15 minuti in cui difficilmente qualcuno pulirà, a meno che il prematuro ingresso di una donna di casa non obblighi gli spettatori a una repentina verticalità. Voleranno stracci, ma il tempo asciuga le cose.

Cinquantuno partite, dal 10 giugno al 10 luglio. Da Francia-Romania alla finale. Si parte e si finisce a Parigi.  Ventiquattro squadre, semi-sconosciuti che in una manciata di minuti possono cambiare vita e carriera. Forse l’Europa non sarà mai davvero unita. Di sicuro l’Europeo unirà nuovamente i suoi singoli frammenti. Tutti contro tutti. Nella migliore tradizione del Vecchio Continente.

Ogni occasione sarà buona per scoprire qualcosa o qualcuno. A partire dalla gara inaugurale. Ecco allora qualche pillola su Francia-Romania. Divertitevi. E usate bicchieri di carta; l’uomo che cammina su pezzi di vetro avrà anche due anime come dice De Gregori, ma la vostra donna non esiterà a distruggerle entrambe

IL COLLEGAMENTO 

La Romania, dopo il 1945, venne inglobata nel blocco comunista. Vita dura per gli intellettuali. In molti scelsero di fuggire all’estero. Due su tutti: Emil Cioran e Mircea Eliade. Entrambi trovarono riparo a Parigi, dove ritroveranno Eugene Ionesco, vecchio amico dei tempi universitari. Per tutta la vita parleranno in rumeno tra loro, pur scrivendo memorabili pagine in francese. Un poeta, uno storico e un drammaturgo. Cioran è stato uno degli autori più scettici e pessimisti del XX secolo. Umori condivisi dal suo popolo originario in vista della sfida ai padroni di casa.

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Da sinistra Cioran, Ionesco, Eliade

IL PERSONAGGIO

A guidare i rumeni ci sarà Angel Iordanescu, l’allenatore più vincente della storia della Romania, condottiero della squadra che a Usa ’94 arrivò a un rigore dalle semifinali dopo aver battuto l’Argentina agli ottavi. La Svezia di Brolin infranse quel sogno. Nel 2007  i socialdemocratici rumeni decidono di candidare Iordanescu in senato. Viene eletto, ma a metà legislatura  contribuisce alla scissione del partito insieme a un gruppetto di senatori. Nasce “l’unione nazionale per il progresso della Romania”. Lui però si stanca presto dei banchi parlamentari. E nel 2014 torna sulla panchina della nazionale. Oggi affida i suoi sogni di gloria a Stanciu e Stancu.

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Iordanescu nel 2008 poco dopo essere stato eletto nel partito socialdemocratico

DA TENERE D’OCCHIO

Ci sono 120 milioni di motivi per dire Paul Pogba. Tanti quanti i soldi che il Real sembra essere pronto a versare alla Juventus per portarlo a Madrid. E allora diciamone un altro: Nicolae Stanciu, classe 1993, stellina dello Steaua Bucarest. Il (poco) talento della Romania passa dalle sue giocate. Su di lui c’è stato un vago interesse del Milan nei mesi scorsi. Aveva ancora il ciuccio in bocca quando ai mondiali americani Gheorge Hagi trascinava la Romania. Classe, fantasia e sfrontatezza ne fanno il primo erede credibile. Un numero 10 vero.

ORIGINI GIOCATORI

Sarà un Europeo multietnico e ovviamente la Francia è una delle squadre più dotate in questo senso. Nel ’98 vinse il mondiale con tanti figli delle colonie, oggi punta tutto su un centrocampo che parte dal Mali e dalla Guinea, origine delle famiglie Kanté e Pogba. La Romania invece è l’unica squadra di tutto l’Europeo ad avere una formazione strettamente autoctona, senza naturalizzati né seconde generazioni. Un terzo dei giocatori della nazionale francese provengono dall’Ile de France. Quasi metà dell’undici titolare di stasera è infatti cresciuto nell’area della capitale. Tutto il centrocampo, con Matuidi, Pogba e Kanté e due esterni di sinistra, uno difensivo (Evra) e l’altro offensivo (Martial). Curiosamente Martial ed Evra provengono dalla stessa banlieu, Les Ulis, poco più di ventimila abitanti a sud-ovest di Parigi. La stessa che ha visto nascere e crescere un certo Thierry Henry, campione del mondo nel ’98 a due passi da casa.

 

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I palazzoni di Les Ulis, terra di campioni e disagio

IL DATO

Poco talento ma tanta solidità. Nelle dieci partite di qualificazione alla fase finale, la Romania di Iordanescu ha subito solo due reti. Il fiorentino Tatarusanu in porta e il napoletano Chiriches al centro dells difesa danno ottime garanzie, tutte però da testare contro i vari Griezmann, Martial e Giroud, fischiatissimo dal pubblico francese nelle precedenti amichevoli.

FUORI DAL CAMPO

Il fantasma del terrorismo volteggia sull’Europeo. È inevitabile dopo i fatti del 13 novembre. Stesso teatro, misure di sicurezza impressionanti. A dirigerle sarà un uomo di 46 anni, Ziad Khoury, già ribattezzato Monsieu securitè. È l’unico che merita il tifo di tutti in quest’Europeo. Potrà contare su una rosa illimitata e avrà il dovere di non ostentarla troppo per far sì che sembri sempre una grande festa. La difesa di Deschamps, viste le assenze di Varane e Koscielny, non sarà perfetta. Quella di Khoury non potrà correre questo rischio.

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Ziad Khoury

Il male in campo. Da Marco Pannella a Marco Russ

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Giacinto Marco Pannella, morto giovedì 19 maggio all’età di 86 anni

Alla fine Marco se n’è andato. Aveva 86 anni, vissuti da Pannella. Giacinto, il suo primo nome, quello che i genitori gli avevano attribuito all’alba degli anni ’30 a Teramo, non lo identificava più da decenni. Era il nome di uno zio, noto teologo e sacerdote. Da quell’eredità onomastica si era “smarcato” rumorosamente, facendo dell’anticlericalismo una delle sue tante bandiere. Dietro ai suoi vessilli si erano uniti peccatori erranti e borghesi in cerca di redenzione, tossici e pentiti di vario genere, dai reati, ai matrimoni, alle gravidanze. Aveva due tumori, uno ai polmoni e l’altro al fegato. Facevano a gara a chi l’avrebbe fatto fuori per primo. Uno dei due ha vinto e tutti hanno perso uno dei più grandi protagonisti del ‘900. Era normale che succedesse. Altan ha scritto che forse non è morto davvero, “ha solo iniziato uno sciopero della vita”.

Se n’è andato a 86 anni, fumando due pacchetti di Gauloises fino all’ultimo respiro. Se n’è andato così, dopo aver ricacciato nella palude migliaia di coccodrilli pronti da mesi. L’ultima resistenza serena di un’esistenza vorticosa. Pannella si era sempre battuto. Per quasi tutti contro quasi tutti. Per la libertà di sbagliare, di cambiare radicalmente lo scenario della propria vita senza doversi scusare con nessuno. Essere radicali, lontano dal radicalismo delle ideologie. Sempre nella stessa squadra, cambiando simboli e compagni di viaggio, ma rimanendo fragorosamente se stesso. Questa volta non ha lottato più di tanto. Il suo corpo, vilipeso e allo stesso tempo elevato a icona, si è arreso. È normale, a quell’età, dopo una vita straordinaria. Così è morto il difensore degli ultimi.

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Marco Russ, classe 1986, difensore dell’Eintracht Francoforte

Marco Russ invece non ha ancora trent’anni. Non fuma e non si batte per i diritti civili. È il difensore dei terz’ultimi della Bundesliga, l’Eintracht Francoforte. Ha sempre giocato lì, a parte una trascurabile e rapida esperienza al Wolfsburg. Non ha mai fatto uno sciopero della fame, nè un comizio. Anche lui fino a una settimana fa sapeva di dover lottare per salvarsi. Pensava che l’avversario fosse il Norimberga, terzo nella Zweite Liga, la serie B tedesca. In Germania, fanno così per stabilire l’ultimo posto in Bundesliga: terz’ultimi contro terzi, due categorie contro in un playoff. Andata e ritorno, Paradiso o Inferno.

Marco pensava che l’inferno fosse una retrocessione. Salvarsi dalla B. E lui è il capitano, l’uomo cui tutti guardano per uscire da un tunnel lungo 180 minuti, prima a Francoforte, poi a Norimberga. Ma pochi giorni prima della gara di andata, il difensore viene informato che c’è un’altra galleria ad aspettarlo. È stato trovato positivo all’antidoping il 30 aprile scorso dopo Darmstadt-Eintracht. Una gara vinta 2-1 in rimonta. Se lo ricorda quel giorno: era stanco, felice e tranquillo. Non aveva sostanze proibite da nascondere. E allora com’è possibile che sia positivo al doping? I risultati delle sue analisi danno valori folli. Un livello altissimo di Hcg, l’ormone della crescita. Troppo alto per essere doping. “Può essere qualcosa di peggio”, avvertono i medici. Le visite successive dicono che “quel qualcosa di peggio” è ciò che temevano. È un tumore ai testicoli. Marco Russ, capitano dell’Eintracht Francoforte, 29 anni e due figli, adesso sa da cosa deve salvarsi.

Dubito che il Marco di Francoforte abbia letto nelle scorse settimane una delle ultime interviste rilasciate dal Marco di Teramo. Il leader radicale sosteneva di continuare con la sua vita di sempre. “I tumori su di me non hanno effetto”, diceva Pannella a Emiliano Liuzzi. Un colpo al cuore avrebbe invece portato via, pochi giorni dopo, il suo intervistatore. Un giocatore come Russ sarebbe piaciuto al livornese Liuzzi: arcigno e tignoso come la gente della sua terra. Attaccato alla maglia e alla professione, nella buona e nella cattiva sorte. Non l’ha letta Russ quella pagina del Fatto Quotidiano, ma si comporta come se l’avesse fatto.

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Russ è capitano dell’Eintracht dal 2013

“I tumori su di me non hanno effetto”. Pannella raccontava una bugia, ma non del tutto. Il male, così invasivo e presente sul corpo, non doveva distoglierlo dagli obiettivi di una vita. Non doveva cambiare abitudini e attitudini. E fino alla fine ha giocato la sua partita. A Francoforte, mercoledì 18 maggio, un ragazzo più giovane di oltre mezzo secolo, col suo stesso nome e il suo identico avversario, decideva di non lasciarsi vincere. “Sto bene, posso giocare”, dice Russ a mister Nico Kovac, il suo allenatore. “Dobbiamo salvarci, voglio aiutare la squadra”. È quel “noi” che può salvarlo, in realtà. Quella voglia di continuare a mettersi il parastinchi, allacciarsi gli scarpini, fare uno scherzo al compagno accanto in spogliatoio. È il desiderio di non ricevere pacche sulle spalle e di non trovare volti commiserevoli. Marco vuole scendere in campo. La federazione, viste le straordinarie circostanze, non l’ha sospeso per la positività all’antidoping. All’Eintracht sono tutti d’accordo: il capitano gioca.

Unknown-1“I tumori su di me non hanno effetto”. Forse lo pensava davvero Marco Pannella nella sua casa di via della Panetteria, ma giovedì 19, alle 14:02, viene definitivamente smentito. Mancano sei ore alla partita della Commerzbank Arena di Francoforte. Russ è nella sua camera e pensa a che effetto gli farà entrare nel suo stadio per quella che potrebbe essere…no, questo non vuole pensarlo. Ma ci pensa, perché sarà anche un duro ma è pur sempre un uomo. Tutta la sicurezza che ha mostrato e trasmesso ai suoi compagni è lo scudo dietro al quale si nasconde. Quello che gli passa per la testa deve avere le sembianze di guerre stellari. Ma questo gli altri non possono né devono vederlo. Lo aspettano 50 mila tifosi là fuori. Hanno preparato uno striscione. C’è scritto: “Marco, lottare e vincere”. Sbrigativi, concisi. Tedeschi. Lo spread con il lirismo mediterraneo è evidente, ma quando il capitano sbuca dal tunnel, il boato è assordante. Sognano di vincere con un suo gol. Il romanticismo, anche se a volte non ce lo ricordiamo, l’hanno inventato loro.

Sarebbe una bella favola se la rete salvezza arrivasse proprio dall’uomo che dovrà salvarsi, ma Disney non passava da Francoforte quella sera. Anzi. Minuto 43 del primo tempo: un cross dalla trequarti di Sebastian Kerk, mancino del Norimberga, attraversa l’area dell’Eintracht. Vanno tutti a vuoto. Tutti tranne Marco Russ, che di destro infila il portiere. Il suo. Autogol. Le telecamere indugiano sul capitano dei padroni di casa. Chissà se vede e sente quello che succede intorno a lui. Fa per portarsi le mani sul volto, ma non finisce il gesto. Lo fanno i compagni accanto a lui, increduli, scioccati, sani. Marco ha sbagliato e lo sanno tutti. Lo sa anche lui. Nessuno lo rimprovera. È stato un eccesso di generosità, un autogol “radicale”. Intento lodevole, risultato da dimenticare. Il suo omonimo da lassù potrebbe raccontargliene di esperienze simili, di autoreti elettorali e di scelte sbagliate.

                                       Le azioni salienti della gara di andata Eintracht-Norimberga

Russ è frastornato, ma rientra in campo nella ripresa. Vorrebbe spaccare il mondo. Accelera, ma ha i freni rotti. Al 56′ cerca l’azione personale. Caparbia e sgangherata: un ritratto della sua vita da 48 ore. Perde palla e commette un duro fallo su Hanno Behrens, mediano avversario. Tutto troppo veloce per chi ha troppe cose a cui pensare. Chissà se si ricorda che era diffidato mentre l’arbitro gli sventola il cartellino giallo. Chissà cosa grida quando va a un centimetro dal naso del signor Daniel Siebert, 32 anni, professione studente. Lunedì 23 maggio, Russ non potrà giocare a Norimberga la gara di ritorno. Forse non avrebbe potuto farlo lo stesso. I medici avevano deciso di posticipare l’operazione al massimo a martedì 24. Magari li avrebbe convinti a spostarla ancora un paio di giorni. O forse aveva già deciso che non era più tempo per inseguire il pallone. Da guerriero è andato in battaglia, ma un padre di famiglia non può perdere la guerra.

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Marco Russ a fine partita con i due figli

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L’abbraccio tra Russ e Gacinovic

Alla fine comunque non perde neanche l’Eintracht. Il pareggio lo sigla Mijat Gacinovic. È il suo primo gol con la maglia dei rossoneri di Francoforte. L’ha indossata per 400 minuti in tutta la sua vita. Russ per oltre 21 mila. Quando l’arbitra fischia la fine, Marco non sa se ci saranno altri secondi per lui con quella divisa addosso. Non piange. Difficile che lo faccia un tedesco. Condivide e  sorride, perché una serena resistenza al male passa anche per la condivisione di attimi con le persone amate. Matteo Angioli e Laura Hurt sono stati gli angeli custodi di Pannella nei momenti di sofferenza più intima. Quelli di Marco Russ sono piccoli, inconsapevoli e biondissimi. I suoi figli, che lo accompagnano in uno struggente cammino verso gli spogliatoi. Ci saranno anche martedì fuori dalla sala operatoria, quando loro padre non avrà intorno 50 mila tifosi. E forse sarà retrocesso o doppiamente salvo.

Ma lotterà per tornare a “calpestare nuove aiuole”. Come il signor Hood, il Marco di Teramo, che lassù starà già combinando qualche casino.

                   Signor Hood di Francesco de Gregori. Dedicata a Marco Pannella. Era il 1975.

Leicester, my Disneyland

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Jamie Vardy’s lookalike and me outside the stadium. His real name is Lee Chapman and he’s a postman

 

I tried. I travelled the 1,300 miles that separate Rome from Leicester imagining what I would find. I put my pen and notebook into my backpack determined to write a report on the miracle of Leicester City. I swear I tried. I tried to be a professional journalist. I tried, but I was overwhelmed. I didn’t make any written notes, just a tide of Post-it notes written on my heart and in my eyes. I thought I was going to Leicester but found myself in Woodstock. Yes, because for my generation, for those who have always dreamt of the improbable overtaking logic, this Saturday in May in the East Midlands will always be remembered as the day the world was turned on its head. Everyone danced, sang and laughed out loud at this party of all parties. People of all races, all nationalities and all ages came together to celebrate the eternal losers who were suddenly projected onto the winner’s podium. A sea of people who climbed on the most absurd and unlikely bandwagon football has ever seen.

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Smiling fans waiting to enter the stadium

 

There are no issues here in Leicester. Everyone supports their club as they have for years. In this ‘middle earth’ everybody needs everyone and integration is a must. This middle earth does not feel like a ‘Mafia capitale’, even though everybody calls Claudio Ranieri ‘The Godfather’. This is the football capital of the people and for romance. This is the place where fear does not exist. In a city of about 300,000 inhabitants, only 45% are white. Being black, white or Asian in Leicester makes no difference. All skin colours are lost in the blue of the Foxes.

“Where are you from?” asks Robert, an English teacher living in Cambridge I met on the 158, the bus that goes to Leicester from Earl Shilton. It is the birthplace of Robert and also the only accommodation I could find in a 20-mile radius of Leicester. From 9:30 am on Saturday 7 May, we will spend the whole day together. He will be my guide on my personal vigil in this unexpected footballing paradise.

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Robert Coe, my guide in Leicester

 

He has dreamed of this day since he was born. He can not explain what has happened, because no one here could even have conceived of such a story. But here was history in the making, a stone’s throw from Nottingham, until now the most famous city in the East Midlands. A few months ago he used to answer ‘Leicester’, to someone asking ‘Where are you from?’ However he also used to add, ‘close to Nottingham’, to make it clearer. Now he wants to share the excitement of being at the centre of the world. I let myself be guided towards the stadium. Seven hours before the match, we do not have tickets, but we do not care. Maybe we will find them, maybe not. We go on a pilgrimage, we are the daydreamers. Actually there were five days of daydreaming that we will share with everyone here since Hazard stopped Tottenham’s challenge and presented the trophy to Leicester.

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Lee Jobber, life-long Leicester fan, better known as Lee “the drummer”

 

We meet Lee Jobber, probably the most famous Leicester fan in the world. A gentle giant with dozens of tattoos dedicated to the Foxes. He’s been watching Leicester since he was 4 years old. Today, he is 36, and since 2003 has been the official drummer at the stadium. Away from the stadium he is a support teacher for disabled children in local schools. Both he and Robert, unlike many of their fellow citizens, have never supported a more prestigious club. Even in 2009 when the champions of today faced Yeovil in League One, the third tier of English professional football.

They hug each other and smile. Rob then asks him where he was on Monday, the day of their jubilant triumph. Lee tells him and Robert breaks down and cries. A serious English teacher in tears when recalling their greatest triumph. “Comparable only to the birth of my son”, he said, quickly wiping his eyes. It has the decency of an adult and the candour of a child. I understand him. He asks who these Italians are, arriving in ten coaches. “They are the last romantics, Rob. Those accustomed to more lows than highs. Look at them, none of them have the shirt of Juve. They have those of Bari, Parma, Padova, Reggina. Fans from football’s outskirts on a day out.

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A group of Italian fans in Leicester

 

Vardy and Mahrez had been identified as the outcasts of football. Vardy is Leicester’s top scorer who came from the lower leagues and a few years ago was playing with an electronic tag as a result of defending a disabled friend. Italian fans are crazy for Mahrez, an Algerian that cost £400,000 two years ago. He came from Le Havre and was a substitute in Leicester’s promotion to the Premier League. Today, he is worth 100 times more and has been crowned PFA Player of the Year. Not only Vardy and Mahrez, but also Drinkwater and Kante, Okazaki and Ulloa, Morgan and Huth. Demigods and heroes. Common guys like many others, but special like none before

But to transport a convoy of buses from Italy (and many private cars and flights) it needs a special connection. “Ranieri, oh oh, Ranieri, oh oh oh. He came from Italy, to manage the City,” sings the tricolor army of a multitude of replica shirts to the leader who, at the age of 64 years, came to the port in a makeshift vessel. He has crossed a thousand seas and often foundered. However he always found a new crew and finally reached the promised land. The idiom ‘Always the bridesmaid, never the bride’ was often said about him in England. Leicester too, used to be the bridesmaid at weddings. Now Claudio and Leicester have got married! Robert said that local families have begun to call newborns Claudio. “What a beautiful name,” he says. Robert nods. People continue to flock to the stadium. We start singing, attracted by a gospel choir that sings to the fans, invoking their gods. The King Power Stadium is their church. The faithful count down the minutes. Still four hours to go to Mass.

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We have time to talk, so I tell Rob that last night I had dinner where Ranieri and his team celebrated their first clean sheet. That happened in October when Leicester was sleeping its dreamless sleep. The manager wanted to show his quintessential Italian style: neither getting beaten, nor taking himself too seriously. The place is called Peter pizzeria, and a margherita prepared by Mauro Altieri from Nola is a Champions League pizza. At the table next to me was Paolo Benetti, deputy to Claudio Ranieri. He is there with friends so I don’t want to interrupt but we meet later at the exit. The fan and the journalist were fighting about what to ask, but the supporter won: “Thanks Paolo, thank you very much. It’s been an exciting year.” He thanked me and then we started talking, but this will be the subject of a next piece.

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Mauro Altieri and Assan El-Oualidi, the Italian duo of Peter pizzeria

 

Three hundred yards away, two guys from Piemonte run an ice-cream shop. They started their business in the summer of 2014, one year before Ranieri arrived in Leicester. Daniele Taverna and Antonio De Vecchi, who are also life partners, conquered Leicester before Ranieri did. “Ranieri is a very nice guy. At the beginning, he often came here. Later on, he could not walk freely downtown. However, we know his assistants still buy ice-cream for him,” says Daniel, a former electrician. “Okazaki is our top client. He is mad about our ice-cream”. Gelato Village is rising in Tripadvisor rankings and thanks to Leicester City, it is sixth place in Britain’s ice-cream shop rankings.

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Daniele Taverna and Antonio De Vecchi, the Piedmont-born partners of Gelato Village

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Free samosas

Robert does not know it, but we will go to the stadium soon. For the moment we fill our stomachs with samosas, handed out free in the hundreds by the local Sikh community. Then Rob hands me a tin of Tyskie: economic, Polish and light. As time goes by, Tyskies almost match the goals scored by Vardy. Around me, many people did the same. For this reason, patients admitted to the local hospital, most of them drunk, doubled that day. Nothing serious, however, the doctors were forced to choose Hippocrates, instead of Dyonisus.    

After a quick greeting and photos of arriving players, we start looking for tickets. In the days before, frightening figures were circulating to get access to the stadium. Thousands of pounds. Not so. Everyone hopes the Everton fans will arrive with tickets to sell. It is a surreal situation. Touts are illegal but in England, the tickets do not contain names and Robert and I are able to acquire two tickets for the away end. It’s raining and still 45 minutes to kick-off. I’m happy, especially for him. We get a little nervous while entering the area reserved for visiting supporters, but after a few cautious glances we realize that 70% of people around us are from Leicester. I’m not surprised. The Everton supporters come together with the whole stadium and they applaud Bocelli and join the party peacefully.

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Inside The King Power Stadium

 

The game is a walk in the park and Leicester win 3-1, with a brace from Vardy interspersed with a goal by Andy King. In the final few minutes Everton supporters cheer for a consolation goal by Mirallas.

Robert has changed places, a few steps below, to be closer to the home fans. To Italians it seems absurd, but in England, the two sets of fans are practically neighbours. Next to me in the meantime I meet Matt, who works in advertising. He whispered: “I am from Leicester, but I support Liverpool.” Everton fans could even tolerate Leicester fans celebrating by their side, but not him for sure! He seems more worried about supplies from the bar, so we drink a little Singha, the Thai beer which has the monopoly in the stadium. Matt wants to challenge me, convinced of his British superiority and proud of his beer belly. On our third beer, I see him stagger and make a grimace. “Respect,” he says before disappearing into the bathroom. I take this opportunity to get closer to Robert, who has tried in vain to call me. My i-phone died before Bocelli and Mahrez hit their high notes. I wouldn’t have liked to continue the party without him.

After the final whistle, another game starts. Three brave fans attempt a desperate race onto the pitch, fleeing the stewards, looking for ten seconds of fame. Judging by the way are blocked, the three will regret their courage for a long time.

It is time for Wes Morgan to lift the trophy to the sky. A trophy designed by a jeweller from Leicester, 52-year-old Paul Marsden. Here are the fireworks and streamers. Everyone chants an unlikely “champeones, champeones, ole, ole, ole”, a kind of neologism that not even Robert, who I address as a Cambridge professor, knows how to explain. Why they use this Latin chant, I’ll never know, but I find myself shouting it to the Leicester sky. When the linguistic divisions once again have logic, the fans deliver the classic and timeless “We are the champions”. I am trembling now, much more than ever before.

I will never forget Vichai Srivaddhanaprabha, the most ‘copy and pasted’ name in journalism, taking his victory lap. Seventeen letters meaning ‘light of progressive glory’, a honorary name Thai King Rama IX gave the Raksriaksorn family (their original name). Rama, the legendary king was crowned in 1946, six years before Queen Elizabeth. On his 70th year on the throne, he leads the triumphant lap, pictured in a vaguely kitsch portrait, behind Vichai and his son, whose King Power organisation monopolises duty-free at Thailand’s airports.

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Robert and Steve Walsh

 

Then the stadium is empty and the streets are filled with the incessant honking of car horns, flags being waved, spontaneous chanting and hugging of strangers. Robert gives a last look at the space where Filbert Street Stadium stood until 2003. It was a hundred yards away from where his club became champions. Here were the memories of his childhood. There was Steve Walsh, a hero from the 90’s. In the morning, when he met Walsh, his eyes shone. The people of Leicester dubbed him “Captain Fantastic”.

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The wasteland where the old stadium stood

 

This long-term fan has big memories and a big heart even when the Premier League champions is a present so bright, it seems to overwhelm everything else. He has not a shred of melancholy in his eyes, but only the knowledge of knowing how far Leicester have come, being surrounded by these car horns, the music of Champions, and fireworks on the pitch. Robert looks around and keeps on saying ‘What a day, what a day’. He resists from crying. Only ten hours ago, I did not know him. Now, I know something about him.

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We head to downtown Leicester. On our way, we are surrounded by cars with joyful passengers, banners in Italian and plenty of celebrating with people walking around, whipped into a frenzy.

And the night continues, meeting new faces met on the street, like Duncan and Ken, my best friends for two hours in Les-tah clubs. I don’t even introduce myself as a journalist, but now it’s, “Hi, I’m Claudio, I come from Italy and I’m just a fan.” My memories are of more hugs, singing, flags, Italians looking for a late-night liason and Englishmen drinking every last drop.

As people begin to flood out of the clubs, a fan climbs the Clock Tower in the main square. Nobody understands why, but maybe it was the alcohol. He wanted to stop time and I think everyone hoped that we would.

I opened my eyes in Earl Shilton at 2.30pm. My flight to Italy was at 3pm. I have messages from Robert, so we know we are both still alive. Honestly, I can not say if I decided not to take the flight as I was lost in the party. Who cares? You can buy a ticket for another flight. You can not buy these memories, they will not come back again. Leicester, my dear, my Disneyland, I will never forget you.

(translated by Barbara Giambene and Robert Coe).

Leicester, la mia Disneyland

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Io e il sosia di Jamie Vardy fuori dallo stadio. Si chiama Lee Chapman e fa il postino.

Ci ho provato. Ho percorso i 2000 chilometri che separano Roma da Leicester immaginando quello che avrei trovato. Ho messo nello zaino block notes e penne convinto di realizzare un reportage sfaccettato sulla città del miracolo. Giuro che ci ho provato. Ho cercato di mettere avanti la mia professionalità, l’essere giornalista prima di tutto. Ci ho provato, ma sono stato travolto. Non ho appunti scritti, ma una marea di post-it sul cuore e negli occhi. Credevo di andare a Leicester e mi sono trovato a Woodstock. Sì, perché per la nostra generazione, per quelli che hanno sempre sognato l’improbabile sorpasso dell’irrazionalità sulla logica, questo sabato di maggio nelle East Midlands sarà sempre ricordato come il giorno in cui il mondo si è capovolto. Tutti hanno danzato, cantato e riso in questa festa. Tutte le etnie, tutte le età, gli sconfitti di sempre improvvisamente proiettati sul gradino più alto del podio. Una fiumana di persone salita sul più improbabile carro dei vincitori che il calcio abbia mai visto.

 

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Tifose prima di entrare allo stadio

Nessun problema, la gente di Leicester non fa scendere nessuno. Include, come fa da decenni. L’integrazione è sottintesa in questa terra di mezzo in cui ognuno ha bisogno dell’altro. Una “terra di mezzo” che non ha il sapore acre di Mafia capitale, anche se Claudio Ranieri è per tutti “The Godfather”. Questa è la capitale del calcio, del popolo e del romanticismo. Questo è il posto che temevamo non esistesse. Una città di circa 300 mila abitanti, con solo il 45% di bianchi europei. Sikh o pakistani, gialli o neri, a Leicester non fa differenza. Tutti i colori si perdono nel blu delle Foxes. “Where are you from?”, mi chiede Robert, insegnante di inglese per stranieri a Cambridge. Lo incontro sul 158, il pullman che porta a Leicester da Earl Shilton, un piccolo paesino della provincia. È il luogo di nascita di Robert e anche l’unico alloggio che ho trovato nel raggio di 30 chilometri. Sono le 9 e mezzo di sabato 7 maggio. Passeremo tutta la giornata insieme. Sarà il mio Virgilio in questo Paradiso improvvisato.

 

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Robert Coe, la mia guida a Leicester

Sognava questo giorno da quando è nato. Non lo aspettava, perché nessuno qui poteva davvero pensare di vivere una storia così. E invece eccola la Storia, proprio qui a due passi da Nottingham, la più famosa città dei dintorni. Pochi mesi fa, quando gli chiedevano “where are you from” rispondeva Leicester. Poi, per farsi capire, aggiungeva “close to Nottingham”. Adesso vuole condividere l’emozione di essere al centro del mondo. E io mi lascio guidare verso lo stadio. Mancano 7 ore alla partita, non abbiamo i biglietti, ma non importa. Forse li troveremo, forse no. Andiamo in pellegrinaggio, sonnambuli di un sogno collettivo che va avanti da 5 giorni. Da quando Hazard ha stoppato la rincorsa del Tottenham e regalato la certezza del titolo.

 

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Lee Jobber, tifoso del Leicester da sempre, conosciuto ovunque come Lee “the drummer”

Incontriamo Lee Jobber, il tifoso del Leicester più famoso al mondo. Il gigante buono per eccellenza, decine di tatuaggi sul corpo dedicati alle Foxes. Vede tutte le loro partite da quando aveva 4 anni. Oggi ne ha 36 e dal 2003  suona il tamburo allo stadio. Lontano dagli spalti, fa l’insegnante di sostegno per bambini disabili nelle scuole locali. Sia lui che Robert, a differenza di tanto loro concittadini, non hanno mai tifato anche per un club più prestigioso. Neanche nel 2009, quando i campioni di oggi affrontavano lo Yovile in League One, la terza serie. La nostra Lega Pro.

 

 

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Un gruppo di italiani in giro a Leicester già da venerdì sera.

Si abbracciano e sorridono. Poi Rob gli chiede dov’era lunedì, il giorno del trionfo. Lee racconta, Robert scoppia a piangere. Un compassato professore d’inglese in lacrime nel ripensare alla sua gioia più grande. Paragonabile solo alla nascita di mio figlio, mi spiega, asciugandosi rapidamente gli occhi. Ha il pudore di un adulto e il candore di un bambino. Lo capisco e chi non lo capisce difficilmente capirà tante altre cose. Mi chiede chi sono questi italiani che arrivano con dieci pullman. Sono gli ultimi romantici, Rob, quelli abituati più ai bassi che agli alti. Guardali, nessuno di loro ha la maglia della Juve. Hanno quella del Bari, quella del Parma, del Padova, della Reggina. La periferia del calcio in gita fuori porta.

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Vardy e Mahrez, dall’ombra alla gloria in una stagione

Si sono immedesimati in questa squadra di reietti. Si sono rivisti in un capocannoniere che viene dalle serie minori e che pochi anni fa giocava col braccialetto elettronico alla caviglia per una rissa nata per difendere un amico disabile. Italiani impazziti per un algerino pagato 400mila sterline due anni prima. Veniva dal Le Havre e doveva essere un rinforzo per puntare alla promozione in Premier League. Oggi vale 100 volte di più e i giocatori del campionato lo hanno incoronato “best player of the year”. Vardy e Mahrez, ma anche Drinkwater e Kante, Okazaki e Ulloa, Morgan e Huth. Alfieri, semidei, eroi. Ragazzi come tanti, speciali come nessuno prima.

 

Unknown-1Ma per smuovere una carovana simile dall’Italia (e tanti mezzi privati) ci voleva una “connection” speciale. “Ranieri, oh oh, Ranieri, oh oh oh. He came from Italy, to manage this city”, canta l’esercito tricolore dalle mille divise. Le note di Nel blu dipinto di blu per un’ode al condottiero che a 64 anni arriva in porto con un vascello di fortuna. Ha solcato mille mari e spesso è naufragato.2016-05-08T112537Z_105708337_MT1ACI14373294_RTRMADP_3_SOCCER-ENGLAND-LEI-EVE-218-kltD-U150543964530HPI-620x349@Gazzetta-Web_articolo Ha sempre trovato un altro timone e un nuovo equipaggio. In viaggio, fino alla terra promessa.

Always the bridesmaid, never the bride, dicevano di lui

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Vestiti da sposa a Leicester

in Inghilterra. Una damigella che osserva la festa nuziale. Ora Leicester lo ha sposato e Robert dice che da qualche settimana le famiglie locali hanno iniziato a chiamare i neonati “Claudio”. “What a beautiful name”, ribatto. Robert annuisce. La gente continua ad affluire nei dintorni dello stadio. E inizia a cantare, trascinata da un gruppo gospel che intona i cori dei tifosi invocando i propri dei. Il King Power Stadium è la loro chiesa. I fedeli tengono il ritmo e contano i minuti. Alla messa vera e propria mancano ancora quattro ore.

 

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Mauro Altieri e Assan El-Oualidi, il duo italiano della Peter pizzeria

C’è tempo per parlare e racconto a Rob che la sera prima sono stato a mangiare nel locale in cui Ranieri portò la squadra a festeggiare la prima partita senza subire reti. Era ottobre, Leicester dormiva senza sognare. L’allenatore voleva dimostrare due facce del suo italian style: non prenderle e non prendersi troppo sul serio. Il posto si chiama Peter pizzeria, la margherita preparata da Mauro Altieri da Nola è da Champions League. Al tavolo accanto al mio, c’è Paolo Benetti, il vice di Claudio Ranieri. È lì con amici. Non lo disturbo. Poi, visto che finiamo quasi in contemporanea, all’uscita mi avvicino. Il tifoso e il giornalista combattono su cosa dire. Vince il primo: “Grazie Paolo, grazie davvero, è da un anno che mi emoziono grazie a voi”. Lui ringrazia me e poi ci mettiamo a parlare, ma questo sarà argomento di un prossimo pezzo.

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Daniele Taverna e Antonio De Vecchi, la coppia piemontese del Gelato Village

A 300 metri da lì c’è anche una gelateria gestita da due piemontesi. L’hanno aperta nell’estate del 2014, un anno prima dell’arrivo di Ranieri. Si chiamano Daniele Taverna e Antonio De Vecchi, fanno coppia anche nella vita e hanno conquistato la città prima dell’allenatore romano. “Ranieri è una persona squisita, all’inizio veniva spesso, poi per lui è diventato più difficile camminare per Leicester. Ma sappiamo che si fa rifornire dai suoi collaboratori”, racconta Daniele, un perito elettrotecnico, ex dipendente Telecom che in Inghilterra ha lavorato anche come operaio di una nota ditta di patatine. “Okazaki è quello che viene più spesso, è innamorato del nostro gelato”. Non è il solo. Su Tripadvisor, “Gelato village” sta scalando tutte le classifiche. Venti mesi di vita e sesta migliore gelateria del Regno Unito.

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Senza commento

Robert non la conosce. Ma presto la proverà. Per il momento ci riempiamo lo stomaco con le samosas, una sorta di fagottino che un gruppo di indiani frigge e regala davanti allo stadio. Poi mi porge una lattina di Tyskie. Economica, polacca e leggera. All’inizio, perché col passare delle ore le Tyskie consumate si avvicineranno ai gol di Vardy in campionato. Accanto a me, in molti batteranno a fine serata il record di Nordahl: l’ospedale locale conterà infatti più del doppio dei ricoveri abituali. Quasi tutti per ubriachezza. Niente di grave. Peccato solo per i dottori che hanno dovuto preferire Ippocrate a Dioniso.

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Dopo un rapido saluto ai giocatori in arrivo, ci mettiamo alla ricerca dei tagliandi. Nei giorni precedenti circolavano cifre spaventose per l’accesso allo stadio. Migliaia di sterline. Non è così. La speranza di tutti è nell’arrivo dei tifosi dell’Everton. È una situazione surreale. La polizia finge di non vedere i capannelli che si formano all’arrivo dei mezzi da Liverpool. Il bagarinaggio è vietato, ma in Inghilterra i biglietti della squadra ospite non sono nominativi. Io e Robert riusciamo a farci “regalare” un biglietto a testa. Sta piovendo e mancano 45 minuti al fischio d’inizio. Sono felice, soprattutto per lui. Entriamo trafelati nel settore ospiti, ma dopo pochi sguardi circospetti ci rendiamo conto che il 70% delle persone intorno viene da Leicester. Se ne accorgono anche gli altri tifosi dell’Everton. Non ne sono stupiti. Applaudono Bocelli come il resto dello stadio e assistono alla festa senza alcuna animosità.

La partita è una passerella. Vince 3-1 il Leicester, con una doppietta di Vardy intervallata da un gol di Andy King. Nel finale i pochi sostenitori dell’Everton potranno esultare per la rete della bandiera di Mirallas. Robert ha cambiato posto, qualche gradino più sotto, per stare più vicino alla zona calda del pubblico di casa. Per noi sembra assurdo, ma in Inghilterra, i due settori sono praticamente confinanti. Accanto a me nel frattempo si è messo Matt. È un pubblicitario. A differenza di Robert, è di Leicester ma tifa per il Liverpool. Me lo dice piano, perché quelli dell’Everton sono tolleranti con gli avversari che vogliono far festa in casa loro, ma non certo con un rivale cittadino nella loro curva. Di vedere la partita non ne ha troppa voglia e si preoccupa più dei rifornimenti al bar. Ci beviamo un po’ di Singha, la birra thailandese che ha il monopolio della distribuzione negli impianti della Premier League. Matt vuole sfidarmi, convinto della superiorità britannica e della sua prominente pancia. Al terzo giro, lo vedo barcollare, fare una smorfia di stupore e porgere la mano: “Respect”, dice prima di sparire verso il bagno. Ne approfitto per riavvicinarmi a Robert, che mi aveva cercato al telefono invano. L’iphone si è spento prima  degli acuti di Bocelli e di Mahrez, mi sarebbe dispiaciuto non continuare la festa con lui.

images-8Dopo il triplice fischio, inizia un’altra partita, quella dei tifosi temerari che tentano la disperata corsa sul terreno di gioco. In fuga dagli steward, in cerca di dieci secondi di gridata libertà. A giudicare dal modo in cui vengono bloccati, i tre che ci riescono si pentiranno a lungo del loro coraggio. Sul campo è il momento della coppa alzata al cielo da Wes Morgan. Un trofeo disegnato proprio, scherzi di un anno incredibile proprio da un gioielliere di Leicester, il 52enne di Paul Marsden. Esplodono i fuochi d’artificio e schizzano le stelle filanti. Tutti gridano un improbabile “champeones, champeones, olè, olè”, una specie di neolingua che neanche Robert, cui mi rivolgo in veste di professore di Cambridge, sa spiegarmi. Perché cantano così non lo saprò mai, ma anch’io mi ritrovo a gridarlo al cielo di Leicester. Quando le divisioni linguistiche tornano ad avere una logica, gli altoparlanti diffondono un classico e intramontabile “We are the champions”. Da brividi, come sempre, molto più di sempre.

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La dirigenza thai (da Getty images)

Indimenticabile anche il giro d’onore del presidente thailandese della squadra Vichai Srivaddhanaprabha, l’uomo che vanta il numero più alto di copia e incolla nella storia del giornalismo per il cognome acquisito di cui si fregia. Diciassette lettere che significano “Luce di gloria progressiva”, un titolo onorifico attribuito alla famiglia Raksriaksorn (il cognome originale) dal leggendario re thailandese Rama IX, in carica dal 1946, sei anni in più rispetto alla regina Elisabetta. E proprio il monarca al settantesimo anno di regno è stato inatteso protagonista del giro trionfale, esposto in un quadro vagamente kitsch alle spalle di Vichai e del figlio, monopolisti dei duty-free dello scalo di Bangkok con la loro King Power.

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Robert e Steve Walsh

Poi lo stadio si svuota e le strade si riempiono. Rumori di clacson incessanti. Bandiere al vento. Cori spontanei abbracciati a sconosciuti. Robert dà un ultimo sguardo al prato dove fino al 2003 sorgeva il Filbert Stadium. Era a cento metri da quello che lo ha visto diventare campione. Lì dentro c’erano i ricordi della sua infanzia. C’era Steve Walsh, la bandiera che negli anni ’90 lo ha emozionato. Al mattino, quando l’ha incontrato, gli brillavano gli occhi. La gente di Leicester lo ha ribattezzato “Captain Fantastic”.

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Il prato dove sorgeva il vecchio stadio

La memoria e il cuore di un “longtime fan” è grande anche quando un presente così luminoso sembra travolgere tutto. Non ha un briciolo di malinconia negli occhi, ma solo la consapevolezza di sapere quanta strada ha fatto il Leicester, suo figlio, per arrivare a quei clacson, alla musica della Champions, ai fuochi d’artificio in campo. Robert si guarda intorno e soffia. “What a day, what a day”. Non piange, ma si trattiene. Dieci ore prima non lo conoscevo, ora so di conoscerlo un pochino.

IMG_8180Ci buttiamo in centro, fra macchinate ignoranti, striscioni in italiano, persone che camminano su taxi che strombazzano festosi e incuranti. È un delirio di popolo. E la notte continua così, fra nuove facce incontrate per strada, come Duncan e Ken, miei migliori amici per due ore nei club di Les-tah. Ormai non mi presento neanche più come giornalista. “Hi, I’m Claudio, I come from Italy and I’m just a fan”. Qui i miei ricordi sono un lungo piano sequenza di abbracci, cori, bandiere, italiani a caccia della bomberata in zona Cesarini e inglesi in cerca dell’ultima goccia. Robert l’ho perso. Ho il telefono spento e nessuna probabilità di ritrovarlo. Il giorno dopo scopriremo di essere ancora vivi per telefono. Mentre la gente comincia a defluire, un tifoso si arrampica sulla colonna dell’orologio nella piazza principale. Nessuno capisce cosa voglia fare. Credo, ma forse era l’alcool, che volesse fermare il tempo. Penso ancora che tutti abbiano sperato che ci riuscisse. E sicuramente vado a letto con la convinzione che l’abbia fatto. Apro gli occhi e sono a Earl Shilton. Sono le 14:35. Il volo per l’Italia era alle 15. Non so se mentre mi perdevo nella festa avevo già deciso di perderlo. Chi se ne frega. I voli si ricomprano. Le emozioni non tornano. Leicester, mia Disneyland, non ti dimenticherò mai.

Babbo Natale esiste. È Francesco Totti

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Bambino in attesa di un regalo

La vigilia di Natale è simile in tante case. C’è chi prepara la cena e c’è chi aspetta. Chi finge disinteresse e chi si emoziona. Ci sono i bambini che chiedono ai loro ex coetanei quando arriverà quel signore anziano vestito in rosso di cui tutti parlano. I bambini non ascoltano la ragione e camminano in spazi che non calpestiamo più. “Babbo Natale non esiste, piccolo, non arriverà mai”, è quello che andrebbe detto a quel nano che spera nell’arrivo di un vecchio portatore di gioia. Ma nessuno lo dice, perché in fondo tutti, in fondo al cuore, sognano un pochino che quella magia si realizzi.

Il Natale di Roma è il 21 aprile. È il giorno in cui è nata la sua eternità, nel 753 a.C. La  vigilia è il 20, il giorno di Roma-Torino. Non c’è un clima da festa in giro. Potrebbe essere il 2 novembre al massimo, a guardare gli spalti dell’Olimpico. Vuoti, come sempre da quando l’ordine costituito ha cercato di combattere a suo modo il disordine organizzato. Le barriere a dividere una curva, l’impossibile scissione di un atomo. La scienza contro la fede, come nel Medioevo, l’epoca in cui Roma aveva smarrito la sua grandezza. Non è l’era della peste e neanche quella dei finti nobili. Al massimo sembra il caos della Repubblica Romana, fra teste che cadono e legami che si interrompono. Non sembra Natale, nessuno si emoziona davvero.

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Il primo gol di Babbo Natale. Era entrato da 23 secondi.

Gli americani festeggiano il Natale, ma non lo attendono più di tanto. Halloween li entusiasma di più, anche se confina col giorno dei morti. La festa è in una zucca illuminata e in una proposta da prendere o lasciare fatta sulla porta. Una domanda secca per una risposta ovvia. A loro piace tanto, da queste parti se la sono fatta piacere. Questi americani però non possono riversare le loro ceneri sul Natale di Roma. E non hanno il diritto di dire a tutti i bambini di rassegnarsi. Non hanno l’autorità morale per dire a chi ci crede ancora, che Babbo Natale no, non lo vedranno. Anche se qualcuno dice di averlo già visto, loro rispondono che in ogni caso non tornerà più. Sbagliano questi americani, perché nella notte della vigilia del Natale di Roma, intorno alle 22:30, quel signore è arrivato.

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“Bambino” dopo il regalo

Non è partito da Rovaniemi, ma da Porta Metronia. Ha la barba fatta e il suo arrivo fa piangere chi ormai non credeva più a niente. Eccolo. Si presenta con un regalo enorme, nessuno sa da dove l’abbia tirato fuori. Poi corre verso quei bambini, che ora hanno 10, 20, 50, 80 anni. Una corsa liberatoria fra le braccia della fede, dando la schiena alla scienza e alla ragione. “Allora è vero, esiste davvero Babbo Natale”. Ma sono tanti questi bambini, sono aumentati da quando ha parcheggiato la slitta.

Non puoi deluderli, vecchio, ce l’avrai un altro dono per loro. Sì che ce l’hai, è lì, a undici metri. Devi stare calmo perché se lo fai cadere, gli americani penseranno di aver ragione loro sul concetto di festa. Dopo il dolcetto arriva sempre lo scherzetto. Spegnila quella zucca, Francesco, fagli vedere quant’è bello il Natale. Gol, doppietta, lacrime, abbracci, urla, Aristoteles, cinema, trionfo,”nuncecredononèpossibbile!!!!!!!”.

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Il momento del secondo gol. Niente sarà più come prima

Ecco, quell’istante in cui Totti ha mandato a puttane secoli di razionalità, nessuno può raccontarlo davvero. Resterà per chi l’ha visto uno di quei momenti che ricorderà per sempre, uno di quei “tu dov’eri-con chi eri, quando il Capitano ha ribaltato il mondo?”. Quei 161 secondi che separano Halloween dal Natale rimarranno eterni. Perché saranno quelli a cui penseremo quando la vita ci renderà cinici e realisti, quando ci illuderemo di essere ormai disillusi. Quando ci suggeriranno di non sognare e di non credere all’incredibile, ripenseremo a quel 20 aprile. Babbo Natale esiste, ha la maglia numero dieci e a settembre compie quarant’anni. Trent’anni prima, lo stesso giorno, la Roma perse con il Lecce in casa 3-2 buttando uno scudetto. Lui c’era già, ma aveva solo dieci anni. Troppo giovane per essere il padre di una festa. Forse una zucca a Boston ora s’illuminerà sul serio. A noi bambini chi lo spiega che l’anno prossimo quel vecchio non porta più regali e non si ferma più a giocare?

Buon Natale a tutti, tanto finché c’è lui, ogni momento può sempre esserlo.

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Storia di un tifoso del Leicester. Da Watford a Watford

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La disperazione dei tifosi del Leicester quel 12 maggio a Watford

“I can’t believe. We lost”. E poi resta fermo, senza altre parole. Frank non può credere ai suoi occhi. Il suo Leicester ha appena perso l’appuntamento con la storia. In un minuto, con la crudeltà che lo sport sa riservare.

È il 12 maggio del 2013. Frank è arrivato a Vicarage Road insieme ad altre centinaia di persone vestite come lui. Sciarpa e maglia biancoblù addosso, un esercito vociante che ha invaso lo stadio di Watford per spingere le “volpi” a Wembley. Sì perché quel Watford-Leicester, semifinale di ritorno della Championship, la serie B inglese, è il penultimo passo verso la gloria. E la gloria, se calci un pallone dove Dio è chiamato a salvare la regina, passa da Wembley, il teatro di tutte le finali.

Ma quella partita il Leicester non l’avrebbe mai giocata. E mentre migliaia di persone invadono il campo folli di gioia, Frank mette le mani a conca, coprendosi la bocca e il naso. Lascia scoperti gli occhi. Poi li chiude. Non vuole guardare la festa degli avversari. Rivede invece, senza volerlo, i flash di quell’ultimo, pazzo, minuto.

Vorrebbe cancellarlo per sempre, ma sa già che diventerà il ricordo che lo terrà sempre al guinzaglio. E allora lo ripercorre quel maledetto minuto. Il tempo è scaduto. Il Leicester perde 2-1, ma avendo vinto 1-0 all’andata, il verdetto sarebbe rimandato ai supplementari. I gol in trasferta non contano doppio in questi playoff. Siamo in parità, ma a pochi secondi dalla fine, l’arbitro Oliver concede un rigore alle Foxes. In quello spicchio di curva di Vicarage Road c’è chi si abbraccia, chi vede Wembley e chi non guarda. Frank fissa il campo. Si tira proprio lì, sotto ai suoi occhi.

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Andrew Knockhaert si dispera a fine partita

Va sul dischetto il francese Andrew Knockhaert. Se l’è procurato lui l’appuntamento con la storia. Il fallo l’ha commesso Marco Cassetti, l’ex terzino della Roma. Già Cassetti, l’uomo che nel 2009 decise un derby al ’77 con il 77 sulle spalle. Un numero e un nome a lungo sui muri della Capitale. Knockhaert tiene il pallone fra le mani. Ha la sfrontatezza dei suoi 22 anni e la voglia di spingere quella sfera in fondo alla rete. Immagina già la sua corsa in braccio a Frank e agli altri tifosi. Oliver fischia. Rincorsa breve. Andrew guarda il portiere fino alla fine. Sinistro rasoterra. Centrale. Troppo centrale. Almunia chiude la porta col piede. La sua e quella di Wembley. “He saved”, dice Frank senza muovere un muscolo. L’arbitro dovrebbe fischiare, ma l’azione è già ripartita.

 

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Il gol che porta il Watford alla finale di Wembley

Quel sogno così vicino ai suoi occhi, adesso è svanito. Resta il boato dei padroni di casa. Saltano tutti e nessuno capisce che ancora non è finita. In cinque secondi il Watford è già nell’altra metà campo. Oliver non fischia. C’è un cross lungo in area. Schmeichel junior, portiere del Leicester e figlio del leggendario Peter, esce come un saltimbanco. Non la prende. Colpo di testa verso il centro. Arriva Troy Deeney. Ha già segnato 19 gol nel corso della stagione. Venti, con questo. “I can’t believe, we lost”, sussurra Frank, mentre intorno a lui un popolo è in delirio. Non è il suo. Quindici giorni dopo il Watford allenato da Gianfranco Zola perderà la finale contro il Crystal Palace. Rete su rigore, nel supplementare, di Kevin Phillips, che l’anno dopo chiuderà la carriera ovviamente a Leicester, contribuendo a far tornare in Premier League le “volpi”.

 

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Jamie Vardy, 28 anni, leader del Leicester

E allora in un sabato di marzo, quasi tre anni dopo quel pazzo minuto, Frank è tornato a Vicarage Road. E come vanno le cose oggi, lo sapete: il Leicester di Claudio Ranieri primo in classifica, con un bomber, Jamie Vardy, passato in quattro anni dal lavoro in fabbrica a Sheffield alla vetta della classifica cannonieri. Da operaio sottopagato a possibile salvatore della Patria nei prossimi europei francesi. Nella terra di Andrew Knockheart, che oggi gioca col contagocce nella seconda serie inglese. Quel 12 maggio Jamie c’era a Vicarage Road, ma non entrò in campo. Sul terreno, oltre a Schmeichel, quel giorno piansero molti degli uomini che oggi sognano il titolo più incredibile del Dopoguerra. Piansero capitan Morgan, Dyer, Drinkwater e Schlupp.

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L’esultanza di Riyad Mahrez a Vicarage Road

Oggi, a nove giornate dalla fine, il Leicester ha cinque punti di vantaggio sul Tottenham e otto sull’Arsenal. È impossibile non tifare per loro e Frank, dentro Vicarage Road si guarda intorno e gli viene da ridere. Ha trascorso questo sabato nella curva opposta, perché stavolta hanno deciso di metterli là. Sotto i suoi occhi, l’algerino Mahrez ha segnato un gol incredibile. Quello della vittoria. L’ennesima di una stagione che in tanti vi hanno già raccontato.

 

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Kane ai tempi del Leicester

Forse c’è solo una persona che può interrompere questa favola. Lo chiamano il ciclone, di nome fa Harry e di cognome Kane. Il suo Tottenham è l’avversario più credibile di questo incredibile finale di stagione. Frank sorride beffardo. Perché lui ricorda tutto del Leicester, mica solo l’attualità patinata. E ripensa ancora a quel 12 maggio del 2013. “That fuckin’day Jamie should play, not Kane”. Cosa dici Frank? Ah sì, forse hai ragione.  Nel secondo tempo, l’allenatore Nigel Pearson aveva due punte in panchina da fare entrare: Vardy e Kane, che era arrivato in prestito dal Norwich.  Jamie restò seduto, Harry non incise. In primavera rivali e in estate compagni. Per ridare un titolo all’Inghilterra mezzo secolo dopo quel 1966.

 

When you’re smiling, the whole world smiles with you, recita l’inno del Leicester, un pezzo di Jersey Budd adottato da un’intera città. Ride Frank uscendo da Vicarage Road. Ed è proprio vero che tutto il mondo, sognando quella coppa al cielo di Leicester, ride con lui.

Specchiati Alessandria, è la tua favola. Dal fango a Marassi

Lacabòn è un dolce che tutti gli abitanti di Alessandria conoscono. Un bastoncino fatto di miele e zucchero nato lì, sulle rive di quel Tanaro che a metà anni ’90 squarciò in poche ore la pacatezza locale.

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Il Tanaro esonda il 6 novembre del 1994. Alessandria piangerà 14 suoi cittadini.

Era il 6 novembre del 1994,  la città stava per festeggiare San Baudolino, patrono locale. Sui banchetti, il lacabòn a contendersi morsi e attenzioni con i rabatòn, strepitose polpettine di ricotta, farina, erbette e spinaci. Mangia, prega, tifa. Per la maglia grigia dell’ Unione Sportiva Alessandria, naturalmente. Sì perché quel giorno allo stadio Moccagatta arriva il Bologna, altra nobile decaduta in serie C.

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Mario Curti, il portiere dello scandalo di Casale.

Briciole di orgoglio per una città che sul finire degli anni ’20 sfiorò lo scudetto, sfuggito per un’inspiegabile sconfitta a Casale Monferrato. Uno 0-5 nel derby che spense i sogni tricolori dei “grigi”. Un tracollo troppo brutto per essere vero. Era il primo luglio. Il giorno seguente Mario Curti, il portiere che quella domenica si chinò cinque volte nella rete, lasciò Alessandria. Dissero che aveva preso soldi dal Torino, la concorrente per il titolo. Nessuno seppe mai la verità. Ma Curti il 2 luglio salutò, chiudendo la porta alle sue spalle. Se il giorno prima avesse protetto quella di Casale, sarebbe stato un eroe.

Dalla gloria al fango in un giorno. Proprio come quel maledetto 6 novembre del ’94. Fuor di metafora, con molti più danni. Il Bologna non arrivò allo stadio e non ci arrivarono neanche i padroni di casa. Il Tanaro impazzito anticipò tutti. San Baudolino assisteva inerme all’ira della natura. Erano quasi tutti a tavola al momento dell’esondazione. Morirono in 14 ad Alessandria. In 70 in tutto il Piemonte. Lo stadio Moccagatta, inaugurato un anno dopo la grande delusione del ’29, fu devastato. Ma i piemontesi sono un popolo poco avvezzo al pianto e in due mesi sistemarono tutto.

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Il Moccagatta nel novembre del 1994.

Il 22 gennaio, il “Mocca” riaprì i cancelli per Alessandria-Spal. Lo scrittore piemontese Alessandro Baricco la descrisse così: “Un’alluvione finisce anche così, con ventidue giocatori in braghette corte che entrano in campo. E undici hanno la maglia grigia. E il campo si chiama Moccagatta. E quel che c’è intorno si chiama Alessandria”. Tutti in piedi ad applaudire. All’inizio e alla fine. I grigi la vinsero quella sfida: 3-1, in rimonta. Sul campo, come fuori.

Se la ricordano bene quella partita ad Alessandria, perché di gioie sportive da quel giorno ne hanno viste poche. Anzi. Una trafila di campionati anonimi, pochi bagliori, poi solo tenebre. Retrocessioni, fallimenti, buio. Si ricomincia dall’Eccellenza, con la “e” maiuscola e tutto il resto misero. Un passo alla volta i grigi tornano nella terza serie. Si chiama Lega Pro anziché serie C, ma la sostanza è la stessa di vent’anni prima.

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Angelo Gregucci, 51 anni, allenatore dell’Alessandria.

Però quest’anno l’Alessandria gioca un grande calcio e primeggia nel suo campionato. L’allena Angelo Gregucci, un “mister Grey” senza troppe sfumature e qualche bruciatura sul curriculum. Due rapidi esoneri in serie A a Lecce e a Bergamo: nove partite totali, un pareggio e otto sconfitte. Se fosse un pugile, la spugna sarebbe in mezzo al ring. Ma l’ex stopper della Lazio non è mai stato un personaggio arrendevole. E il calcio premia sempre chi sa rialzarsi. Da un’alluvione o dalle delusioni.

Martedì 15 dicembre i grigi hanno compiuto un’impresa storica, battendo 2-1 a Marassi il Genoa negli ottavi di Coppa Italia. Erano arrivati lì grazie a un altro miracolo sportivo, un clamoroso 2-3 a Palermo. Due squadre di serie A battute in poche settimane. Tante facce sconosciute, molti eroi romantici. Uno più di tutti: Gianmarco Vannucchi, l’erede in mezzo ai pali di Mario Curti. È nato il 30 luglio del 1995, quando il Moccagatta era già asciutto e il fango messo da parte. Almeno fisicamente. A Genova ha parato tutto. I 2500 tifosi arrivati dal Piemonte si sono aggrappati a lui e a San Baudolino. Martedì non sembrava che ci fosse molta differenza fra i due sul campo.

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Riccardo Bocalon corre dopo il gol dell’1-2. L’Alessandria ai quarti di Coppa Italia affronterà lo Spezia.

Il sogno di un trionfo cullato a lungo dopo il gol di Marras e improvvisamente messo a repentaglio dal gol del pareggio genoano al 92′. Supplementari che puzzano di agonia, ma che nascondono un sapore dolce, come quello di un lacabòn. O più semplicemente come il gol di Bocalon, che al 114′ manda l’Alessandria in una terra sconosciuta, fra le prime 8 d’Italia.

Mister Grey esulta. Corrono tutti ad abbracciarlo. Chissà se ha mai letto Hans Christian Andersen. Il brutto anatroccolo dalle piume grigie, escluso e respinto da tutti, che sopravvive a stento fino a scoprirsi cigno in mezzo ai cigni. Vale per lui, ma anche per una città che si specchia in uno stagno e non vede più la melma.

Zidane, unico profeta di Saint-Denis

Coupe du Monde 98

Zinedine Zidane, eroe della notte di Saint Denis.

Che bella quella notte a Saint-Denis. Era il 12 luglio del 1998, il momento che i francesi aspettavano da una vita. La finale della Coppa del mondo in casa. Migliaia di bandiere tricolori e 80 mila ugole orgogliose che cantano la Marsigliese, l’haka vocale di un popolo abituato a combattere.

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Zidane bacia la Coppa del mondo. È il 12 luglio 1998.

Quella notte la Francia vinse 3-0 contro il Brasile. Campioni del mondo per la prima volta. Capitan Deschamps che alza il trofeo in mezzo a milioni di coriandoli rossi, bianchi e blu. Laurent Blanc che bacia la pelata di Fabien Barthez, mentre 60 milioni di francesi accarezzano idealmente il capo fatato di Zinedine Zidane, autore dei due colpi di testa decisivi.

Due zuccate di un marsigliese, figlio di un pastore musulmano algerino. Suo padre, Smail, era arrivato in Francia dal nord dell’Algeria per cercare lavoro nel 1953. Nove anni passati a fare il muratore a Marsiglia, in un’epoca in cui i muri diventano strumenti politici e le colonie ottengono l’indipendenza. Succede anche in Algeria, nel 1962.

Smail Zidane vorrebbe tornare là, è già con un piede sulla nave quando uno sguardo lo inchioda a Marsiglia. E’ quello di Malika, francese e originaria, come lui, della Cabilia. L’Algeria può attendere. Smail e Malika ci mettono poco a diventare i coniugi Zidane. Fanno cinque figli: quattro maschi e una femmina, Lila. A Berlino in una finale, otto anni dopo, l’eroe dello Stade de France la difenderà con una testata più amara ma ugualmente decisiva.

Zinedine è l’ultimo a nascere, nel 1972, dieci anni dopo il rendez-vous marsigliese. Diventerà il figlio prediletto della Francia post coloniale, il simbolo di una nuova generazione che vede nel pallone lo strumento per emanciparsi. Il suo nome in arabo significa “la bellezza della religione”. Nella Parigi del 1998 è Napoleone, Re Sole e Marianne fusi in un solo corpo. E’ l’idolo di tutti, dalle banlieues a Versailles. La Francia è ai suoi piedi e grazie a loro una popolazione eterogenea riscopre la grandeur. 

Zizou aggira le barriere in campo e fuori. Traiettorie magiche sull’erba e carisma pacato di un ragazzo del popolo che ce l’ha fatta. In quell’estate del ’98 i sociologi parlano di “generazione Zidane”, di un Paese che scopre la sua nuova identità meticcia e ne prende vigore. La nazionale che sconfigge il Brasile è un mix di francesi di prima, seconda e terza generazione. C’è chi viene dal Senegal o da Capo Verde come Vieira e Karembeu. Ci sono gli armeni Boghossian e Djorkaeff. C’è il basco Lizarazu ma anche l’argentino Trezeguet. Desailly è nato in Ghana, mentre Thuram – eroe della semifinale con la Croazia – è della Guadalupe.

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La Francia campione del mondo 1998

Quel 12 luglio sono tutti in campo, accanto a Leboeuf, Deschamps, Guivarc’h. Chi se ne frega delle loro origini. Sono la Francia. La nuova Francia. Tutti al servizio di Zinedine. Un dio laico che non si fa mai pregare, né sotto porta, né quando c’è da regalare un sorriso ai ragazzi delle periferie. Gente come lui, che s’identifica nel suo numero 10 e nella sua scalata scalata.

Quell’estate “la bellezza della religione” fece esplodere di gioia lo Stade de France. Diciassette anni dopo, Bilal Hadfi, francese musulmano, avrebbe provato a fare la stessa cosa. Senza gioia però.

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Bilal Hadli, kamikaze francese che si è fatto esplodere nei pressi dello Stade de France

Senza il 10 sulle spalle e senza palla al piede. O forse sì, con quella di chi è destinato a essere prigioniero. Di paranoie pseudo-religiose. Dell’abbaglio di chi ha intravisto confusamente la luce in fondo al proprio tunnel. Aveva vent’anni. Voleva la strage, si è dovuto accontentare di un goffo suicidio senza ulteriori vittime. Morto per difendere l’onore del profeta Maometto nel luogo che riconosce un solo profeta: Zizou, la bellezza della religione. La sola che unirà sempre Saint-Denis.