Ciao Francesco,
come va senza di me? Ok, non fare quella faccia. È una domanda stupida, hai ragione. Lo so che ti manco. Domenica me l’hai scritto pure addosso con un pennarello, prima di calciarmi lontano, fra le braccia di chi ci ha amato più forte.
Mamma mia quanto piangevi Francé. Con me vicino, non ti avevo mai visto versare tutte quelle lacrime. Altre volte, in quello stadio, il tuo stadio, eri stato sul punto di crollare.

26 maggio 2013. Finale Coppa Italia. Lazio-Roma 1-0 (da ForzaRoma.info)
Il 26 maggio di quattro anni fa, per esempio. Il derby perso più doloroso, quello che valeva un trofeo. La Coppa Italia “alzata in faccia” dai laziali, mentre nascondevi la tua fra le mani. Non avevi niente di cui vergognarti. Eri stato l’unico a trattarmi con rispetto, fantasia e volontà. L’ultimo ad arrendersi.
Non ti avevo visto così neanche il 25 aprile del 2010, il giorno in cui Pazzini mi mise due volte alle spalle di Julio Sergio. Credimi, quella domenica avrei preferito sbattere su un palo che finire la mia corsa in rete, sotto la Nord. Ma io non posso decidere dove andare. Sono solo uno strumento fra i piedi degli altri. Roma-Sampdoria 1-2. Fine del sogno scudetto, dopo una rimonta incredibile all’Inter di Mourinho.
Una volta avevi pianto di brutto, me lo ricordo. Dopo Roma-Arsenal nel 2009, ottavi di Champions. Eliminati ai rigori. “Solo chi è romanista come me sa che si può anche piangere per questa maglia”, dicesti a fine partita. Io sono di tutti, ma sappi che l’ho capito comunque.
Mannaggia Francé, quante ne abbiamo passate insieme. Tu sempre con gli stessi colori, io sempre diversi. Ogni anno più sgargiante, più curato, ma alla fine sempre lo stesso. “Il tuo giocattolo preferito”, mi hai definito domenica, mentre passeggiavi per il campo. Senza sapere – per una volta – dove andare.

Prospero Gallinari
Nel ’77, quando ci siamo incontrati per la prima volta, la gente si sparava nelle strade di Roma. Più pallottole che palloni. Fascisti contro comunisti. Tu iniziavi a farmi rotolare, altri smettevano di farlo. Alcuni per sempre, anche se erano solo ragazzi. Erano anni difficili quelli. Il 24 settembre del 1979, due brigatisti, Mara Nanni e Prospero Gallinari, venivano rintracciati e arrestati a via Vetulonia. Sotto casa tua Francé, nella strada dove sei nato. Erano fra i responsabili del sequestro Moro. Tre giorni dopo avresti compiuto tre anni, che ne dovevi sapere delle Brigate Rosse… Le hai scoperte così, col rumore degli spari e le chiazze di sangue sul marciapiede, mentre mamma Fiorella ti tappava le orecchie.
Forse quei colpi ti hanno avvicinato ancora di più a me. E io ti ho aiutato a stare lontano da guai e cattive compagnie. Da grande, visitando Adriano Sofri nel carcere di Regina Coeli, gli hai confidato che forse saresti stato lì anche tu, se non ci fossi stato io. Ci credo poco. Timido com’eri, non ti saresti mai messo in certi giri. Papà Enzo non lo avrebbe mai permesso. Lui ci aveva provato tanto a coccolarmi. Da ragazzino sognava di avermi sempre tra i piedi con la maglia della Roma addosso. Ma il suo tocco non aveva niente a che fare col tuo. Anzi. Ogni volta che giocava a Piazza San Cosimato, a Trastevere, perdeva e pagava da bere a tutti. Poi sei arrivato tu.

Francesco a 11 anni
Negli anni ’80 eri sempre in mezzo a un campetto improvvisato. Quattro giacche o due cartelle a fare da pali e via. Eravamo sempre i più piccoli. Nessuno ti voleva in squadra. E alla fine rimanevamo sempre io e te, al momento dell’ultima scelta. “Palla o ragazzino?”. Poi diventavamo una cosa sola e volevano rifare tutto daccapo. Enzo sorrideva, a due passi da te. Come un uomo che guarda il suo bambino aprire il libro delle favole. Era appena iniziata, non poteva immaginare quanto sarebbe arrivata lontana. Restando cosi incredibilmente vicina.

Gli inizi a Trigoria
Nell’89 hai cominciato a prendermi a calci a Trigoria. Primi sogni realizzati. Per qualche anno mi hai raccolto a bordo campo all’Olimpico. All’intervallo ti mettevi a giocare e già incantavi, in attesa del tuo momento. Che sarebbe arrivato, poco tempo dopo. Era il 28 marzo del 1993, Brescia-Roma. Io ero tutto bianco, come usava una volta. Tu in rosso, con un po’ di giallo. Sulle spalle il numero 16. Ci siamo solo annusati quel giorno. Sei entrato tardi, a partita decisa, al posto di Rizzitelli.
Quello che è successo dopo lo sanno tutti. O magari lo sappiamo solo io e te. Trecentosette volte sono finito alle spalle di un portiere avversario. Di destro, di sinistro, di testa. Mi hai colpito in ogni modo. Il tuo piede ha saputo essere ferro, ma anche piuma. Quel cucchiaio magico era la tua carezza più dolce. Il tuo modo per dirmi quanto mi volevi bene. Ci sono cascati in Olanda, ancora se lo sognano a San Siro. Una volta, in un Roma-Juve di quattro anni fa mi hai scagliato a 113 chilometri all’ora. Buffon manco mi ha visto. Ed eri già mezzo vecchio Francé… Dai oh, scherzo, lo so che sei permaloso. Lo dice sempre Ilary, l’unica che hai amato più di me. Ah no, ci sono anche Chanel, Isabel e Christian. E questo ragazzino, con me tra i piedi, è sicuramente meglio di suo nonno.
Eravate belli domenica allo stadio. Io una famiglia non l’ho mai avuta, non so neanche dove sono nato e forse è meglio che non sappia chi sono i miei genitori. E soprattutto è meglio che non lo sappiano milioni di bambini.
Domenica però anch’io mi sono sentito tuo figlio. In un momento preciso. Eri entrato da poco al posto di Salah. A un certo punto un difensore del Genoa mi respinge verso la trequarti. Arrivo dall’alto, verso di te. Potresti appoggiarmi di testa, invece t’inarchi in avanti. Atterro docilmente sulla tua schiena e scivolo indietro verso un tuo compagno. Non so perché, ma non riesco a rimuoverlo. Un gesto da padre, di quelli che fate per divertire e per essere dolci. Mi hai stupito ancora una volta. E ho tifato per te. Per tutti i 40 minuti che sei stato in campo, ho sperato che mi buttassi in porta. Lì nella rete a guardarti correre sotto la Sud per l’ultima volta.
Qualcuno alla fine l’ha fatto per te e un’oretta dopo ci siamo salutati comunque là, davanti a chi ci ha seguito sempre. Non hai avuto il coraggio di guardarmi. Ti capisco. Neanch’io ce l’avevo. Sono finito in buone mani, quelle di un ragazzo che non mi venderebbe mai. A nessuna cifra. Solo perché sono io, solo perché mi ci hai spedito tu.
Un’ultima cosa, Francé. Io non te lo dico “mi mancherai”. Perché lontano dagli occhi della folla, lontano dalle telecamere, lontano dagli allenatori, dai presidenti, dall’Olimpico, da Trigoria, io e te non ci lasceremo mai. Abbiamo tutto il tempo per giocare. Come abbiamo sempre fatto. Benedetto tempo…
Grazie Francesco,
Il tuo giocattolo preferito.
[…] degli atleti. Che diventano professionisti sempre prima e come tali devono essere trattati. Le storie come quella di Francesco Totti ci fanno piangere perché sono uniche ed eccezionali, ma non sono necessariamente un modello. […]