La notte di Leo. Messi trascina l’Argentina al mondiale

082048547-9a0fdce8-a6c3-4f36-a810-5f3f724bfc02A volte la Storia si fissa senza motivo. Si ostina a chiedere prove della loro reale esistenza ai propri maggiori protagonisti. Pretende dimostrazioni anche da chi ha dimostrato di essere “altro” rispetto al mondo degli umani.

La Storia gode nel vedere i suoi figli più cari disposti vicino. Ama i paragoni e le classifiche. O forse, semplicemente, le sopporta. “Messi è grande ma non sarà mai Maradona“. Un teorema elevato a sentenza dalla mancanza di successi in maglia albiceleste dell’erede designato.

La Storia si diverte ad accostarli. Noi la prendiamo sul serio. Cercando un po’ di preservare l’unicità dei ricordi. Ignorando le statistiche di una carriera irripetibile, per soffermarci su singoli episodi. Quella coppa del mondo sfuggita nella notte di Rio, quel rigore calciato lontano a New York contro il Cile. L’addio. Il ritorno. La paura di un mondiale sul divano.

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Un popolo, da Buenos Aires alla Patagonia, chiedeva una “prova” vera al dio del calcio. E la pretendeva in un luogo vicino al cielo: Quito, stadio El Atahualpa, 2850 metri di altezza. Ecuador-Argentina doveva essere la notte di Leo Messi. È stata uno schiaffo in faccia agli scettici. Tre gol, la capacità di portare 40 milioni di persone dall’inferno al paradiso, la naturale semplicità nell’essere normalmente speciale. Messi trascina l’Argentina in Russia, scacciando le streghe della vigilia e svegliando da un incubo la squadra di Sampaoli, colpita dopo 38 secondi da Ibarra.

Neanche in quel momento Leo ha cambiato faccia. Ha stretto la fascia attorno al braccio e si è messo al lavoro. Capitano senza teatralità, trascinatore con l’esempio, extraterrestre col pallone fra i piedi. Ci ha messo venti minuti per ribaltare il mondo. Prima una triangolazione con Di Maria chiusa con un beffardo tocco di punta: uno scambio da “potrero”, direttamente dalle stradine di Rosario. Poi un pallone riconquistato con una rabbia ancestrale e scagliato violentemente alle spalle di Banguera. La luce, finalmente. L’esultanza genuina, più da ragazzino felice che da uomo dei record. La sessantesima gioia in nazionale, la più attesa. “Ha dimostrato una volta di più di essere il vero padrone di questo gioco. Non ci sono parole per lui”, ha detto a fine partita Mascherano, uno che ha visto da vicino gran parte dei 581 gol segnati in carriera da Leo.

L’ultimo, il 61esimo, il sigillo della qualificazione, è un gioiello difficile da raccontare attraverso traiettorie terrene. Pallonetto dal limite dell’area, in corsa, fuori equilibrio, contro ogni regola. Un capolavoro festeggiato da tutta la squadra, panchina compresa. Tutti in campo ad abbracciare l’uomo della Provvidenza. Era il minuto 62, ma di fatto è stato il fischio finale.

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“Sarebbe stata una follia rimanere fuori dal mondiale. Non solo per me, ma per tutta l’Argentina”, le sue prime parole nel dopo partita. “Tante cose mi sono passate davanti dopo il loro vantaggio, ma ci siamo subito ripresi. Meritavamo la qualificazione, ora cresceremo, in Russia saremo un’altra cosa”.

Quasi una dichiarazione di guerra. La sensazione di avere un cerchio da chiudere con la Storia, quella che odia la solitudine dei numeri 10. Forse per questo, ogni tanto, ne fa nascere uno che continua quell’emozione così irrazionale. E così impossibile da paragonare. Il calcio questa volta ha vinto. Messi è al mondiale. Ancora una volta di fronte avrà Cristiano Ronaldo, che ha staccato il pass poche ore prima. Con tutta probabilità, arriveranno in Russia a parità di palloni d’oro. Cinque a testa. Sarà forse l’ultimo duello lontano dai club. Sarà l’ennesimo assalto alla leggenda per Leo. Perché dopo la notte di Quito, c’è già chi aspetta una notte moscovita a metà luglio.

La Siria e quel sogno Mondiale ancora acceso

479771Deir ez zor, città della zona orientale della Siria. Terra di sangue e di conflitti. Fino a un mese fa, completamente in mano ai miliziani dell’Isis. L’esercito del dittatore Bashar al Assad è quasi riuscito a liberarla. Non del tutto ancora. Nelle notti scorse l’aviazione russa è giunta in soccorso, bombardando: 133 vittime, quasi tutti civili.

A quasi 7500 chilometri da lì, allo stadio Hang Jebat di Malacca in Malesia, la Siria gioca “in casa” contro l’Australia l’andata del doppio spareggio per la qualificazione alla Coppa del Mondo. Un figlio di Deir ez zor, Omar Al Somah, segna un calcio di rigore a 5 minuti dalla fine. È il gol del pareggio: 1-1. Verdetto rimandato a martedì prossimo, a Sidney.

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Omar, in Russia, sogna di volarci a giugno. Con i suoi compagni, in un mondiale a cui nessuno pensava e che oggi è ancora possibile.

Da anni segna valanghe di gol in Arabia Saudita nell’Al-Ahli. In nazionale è tornato solo da qualche settimana. Cinque anni fa era stato escluso per avere sventolato la bandiera dei ribelli anti Assad dopo una vittoria contro l’Iraq. Il regime lo ha perdonato, lui ha accettato. Per “tentare di regalare una gioia alla nostra gente”, ha detto. E in parte ci è già riuscito: un altro suo gol del pareggio – contro l’Iran a inizio settembre – ha mantenuto vivo il sogno qualificazione. Una rete festeggiata da migliaia di persone nelle strade di Damasco.

Omar al Somah, centravanti ed eroe nazionale in patria. Eppure non tutti lo vedono così. Molti esuli lo hanno considerato un traditore, al pari di Firas Al Khatib, fantasista ed ex simbolo della resistenza della città di Homs al regime. Per anni si è autoescluso dalla selezione. Poi nel febbraio scorso è tornato a vestire la maglia delle “aquile di Qasioun”, epiteto legato al monte che sovrasta Damasco. Una scelta che ancora oggi non lo fa dormire. Con Assad che combatte l’Isis o contro Assad che bombarda i civili siriani? Il numero 10 siriano ha scelto semplicemente di giocare, la cosa che gli è sempre riuscita meglio.

Una cosa che purtroppo non possono più fare tanti suoi ex compagni, caduti in battaglia o semplicemente spariti. Uno di questi, veniva da Homs, proprio come lui. Si chiamava Abdel Baset Sarout, classe 1992. Fino al 2011 era considerato il più forte portiere mai nato in Siria. Un fenomeno, tipo Donnarumma. Ma allo scoppiare della guerra civile, ha scelto di stare contro Assad, in prima linea. La parola “assedio” per lui ha assunto un significato del tutto diverso. Di lui non si hanno più notizie. Altri 37 calciatori importanti hanno fatto la stessa fine durante questi anni. Un tempo in cui gli stadi sono serviti soprattutto come basi militari. Luoghi di morte e non di gioia.

La guerra in Siria è ancora una realtà sempre più complessa. Neanche il calcio può fermarla. Eppure la favola della nazionale che sogna il mondiale può aiutare per qualche ora a dimenticare l’orrore. Le bombe, gli allarmi che suonano, il mezzo milione di morti in 6 anni. Sotto una sola maglia, la squadra allenata da Ayman Hakeem prova a riunire un popolo disperso, ferito, frammentato.

Contro l’Australia si è trovata in svantaggio e ha reagito con la rabbia di chi non accetta altri sogni spezzati. Nessuno dei giocatori in rosa gioca in Europa, in pochissimi guadagnano abbastanza per vivere bene col pallone. Chi gioca in patria, spesso non sa quanto tempo passerà fra una partita e l’altra. Eppure il mondiale adesso è lì, vicino, anche se non vicinissimo.

Non basterà superare l’Australia. Servirà, eventualmente, anche uno spareggio a novembre contro la quarta classificata dell’area Concacaf. L’area centrosettentrionale dell’America, per intendersi. Probabilmente fra Panama, Honduras o addirittura Stati Uniti.

Pensieri ancora lontani per un popolo abituato da tempo a vivere alla giornata. E da qualche settimana, nuovamente aggrappato ai gol di Omar al Somah. Il figliol prodigo, almeno per chi ha scelto di concentrarsi solo sul pallone e sulla sua magia.

Il “pioniere” Leonardo e una nuova tappa del suo viaggio: la Turchia

Leonardo_Nascimento_de_Araújo_2013-01-01Coraggio, cuore e curiosità. Tre “c” che riassumono le scelte della seconda vita nel calcio di Leonardo, nuovo allenatore dell’Antalyaspor.
Nuovo viaggio, sfida nuova di un uomo che ama essere esploratore e pioniere. A Milano, a Parigi e adesso in Turchia. Da sei anni non tornava in panchina: era il 29 maggio del 2011. A Roma, nella finale di Coppa Italia, la sua Inter batteva 3-1 il sorprendente Palermo di Delio Rossi. Doppietta decisiva di Samuel Eto’o, oggi stella dei turchi. Leonardo guarderà subito a lui per rialzare una squadra inchiodata al 13° posto, nonostante i milioni spesi daAli Şafak Öztürk, proprietario del club . Un presidente che non vuole perdere tempo: 33 anni, rampante petroliere con un fatturato annuo di 10 miliardi e zero voglia di galleggiare sui bassifondi della classifica.

La sua ambizione ha convinto il brasiliano, insieme alla curiosità per un campionato nuovo, la voglia di rimettersi in gioco, la possibilità di farlo con Nasri, Menez e il camerunense là davanti. Ricominciare dalla periferia del calcio. Dare un senso agli investimenti fatti. Quasi un déja vu per Leo, che nel 2011 ricevette dal nuovo PSG degli sceicchi la direzione sportiva del club. Manager lontano dal campo. Due anni a lavorare dietro le quinte per portare i parigini nel calcio che conta, ingaggiando Ancelotti, Ibrahimovic, Thiago Silva, Verratti e Cavani, prima di salutare a seguito di una discussa squalifica per uno scontro con l’arbitro Castro dopo un pareggio con il Valenciennes.

Zlatan_Ibrahimović_unveilingUn addio difficile, dopo aver messo il PSG sulla mappa del calcio europeo. Un congedo dalla squadra che, da giocatore, nel ’96 gli aveva dato la possibilità di mettersi in luce in Europa. Veniva dal campionato vinto con i Kashima Antlers in Giappone, paese cruciale per la sua carriera. A Tokio, infatti, nel ’93 il suo San Paolo sconfisse il Milan in coppa Intercontinentale. Nel frastuono delle trombette e nel dolore della sconfitta, i rossoneri fecero la sua conoscenza. Fu amore a prima vista, concretizzato nel ’97 e andato avanti per 13 anni. Prima in campo, poi come osservatore e infine come allenatore. Una scommessa durata un anno, finita dopo un campionato concluso al terzo posto e ricordato soprattutto per il modulo “4-2 e fantasia”. Ronaldinho, Pato e Borriello più Seedorf. Liberamente ispirato al Brasile di Telè Santana, croce e delizia di una stagione divertente ma non abbastanza vincente, secondo i vertici. “A un certo punto avevo pensato che il Milan fosse la mia eternità”, disse poco dopo l’addio. Sbagliava, ma da cittadino del mondo trovò il coraggio per rimettersi in viaggio. Spostandosi di una ventina di chilometri, la distanza che separa Milanello da Appiano Gentile. Il luogo più vicino e lontano che potesse scegliere. La panchina dell’Inter, al posto di Benitez, nell’anno dopo il triplete. La stima di Moratti, un secondo posto alle spalle proprio del Milan di Allegri, fino all’addio, dopo il citato trionfo in coppa Italia.

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Oggi a 48 anni Leonardo torna in campo. Di nuovo protagonista dopo l’esperienza da commentatore a Sky Sport. C’è un progetto da far crescere, un club che somiglia a una start up. Leonardo in gioventù voleva diventare ingegnere. Il calcio gli ha fatto prendere un’altra via. Un po’ come il suo illustre omonimo del Rinascimento, si è trovato a dipingere, affrescare, inventare, plasmare, restaurare.
Un artista a disposizione di un facoltoso mecenate. Avrà due anni per accontentarlo e fare dell’Antalyaspor una nuova Gioconda.

Il male in campo. Da Marco Pannella a Marco Russ

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Giacinto Marco Pannella, morto giovedì 19 maggio all’età di 86 anni

Alla fine Marco se n’è andato. Aveva 86 anni, vissuti da Pannella. Giacinto, il suo primo nome, quello che i genitori gli avevano attribuito all’alba degli anni ’30 a Teramo, non lo identificava più da decenni. Era il nome di uno zio, noto teologo e sacerdote. Da quell’eredità onomastica si era “smarcato” rumorosamente, facendo dell’anticlericalismo una delle sue tante bandiere. Dietro ai suoi vessilli si erano uniti peccatori erranti e borghesi in cerca di redenzione, tossici e pentiti di vario genere, dai reati, ai matrimoni, alle gravidanze. Aveva due tumori, uno ai polmoni e l’altro al fegato. Facevano a gara a chi l’avrebbe fatto fuori per primo. Uno dei due ha vinto e tutti hanno perso uno dei più grandi protagonisti del ‘900. Era normale che succedesse. Altan ha scritto che forse non è morto davvero, “ha solo iniziato uno sciopero della vita”.

Se n’è andato a 86 anni, fumando due pacchetti di Gauloises fino all’ultimo respiro. Se n’è andato così, dopo aver ricacciato nella palude migliaia di coccodrilli pronti da mesi. L’ultima resistenza serena di un’esistenza vorticosa. Pannella si era sempre battuto. Per quasi tutti contro quasi tutti. Per la libertà di sbagliare, di cambiare radicalmente lo scenario della propria vita senza doversi scusare con nessuno. Essere radicali, lontano dal radicalismo delle ideologie. Sempre nella stessa squadra, cambiando simboli e compagni di viaggio, ma rimanendo fragorosamente se stesso. Questa volta non ha lottato più di tanto. Il suo corpo, vilipeso e allo stesso tempo elevato a icona, si è arreso. È normale, a quell’età, dopo una vita straordinaria. Così è morto il difensore degli ultimi.

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Marco Russ, classe 1986, difensore dell’Eintracht Francoforte

Marco Russ invece non ha ancora trent’anni. Non fuma e non si batte per i diritti civili. È il difensore dei terz’ultimi della Bundesliga, l’Eintracht Francoforte. Ha sempre giocato lì, a parte una trascurabile e rapida esperienza al Wolfsburg. Non ha mai fatto uno sciopero della fame, nè un comizio. Anche lui fino a una settimana fa sapeva di dover lottare per salvarsi. Pensava che l’avversario fosse il Norimberga, terzo nella Zweite Liga, la serie B tedesca. In Germania, fanno così per stabilire l’ultimo posto in Bundesliga: terz’ultimi contro terzi, due categorie contro in un playoff. Andata e ritorno, Paradiso o Inferno.

Marco pensava che l’inferno fosse una retrocessione. Salvarsi dalla B. E lui è il capitano, l’uomo cui tutti guardano per uscire da un tunnel lungo 180 minuti, prima a Francoforte, poi a Norimberga. Ma pochi giorni prima della gara di andata, il difensore viene informato che c’è un’altra galleria ad aspettarlo. È stato trovato positivo all’antidoping il 30 aprile scorso dopo Darmstadt-Eintracht. Una gara vinta 2-1 in rimonta. Se lo ricorda quel giorno: era stanco, felice e tranquillo. Non aveva sostanze proibite da nascondere. E allora com’è possibile che sia positivo al doping? I risultati delle sue analisi danno valori folli. Un livello altissimo di Hcg, l’ormone della crescita. Troppo alto per essere doping. “Può essere qualcosa di peggio”, avvertono i medici. Le visite successive dicono che “quel qualcosa di peggio” è ciò che temevano. È un tumore ai testicoli. Marco Russ, capitano dell’Eintracht Francoforte, 29 anni e due figli, adesso sa da cosa deve salvarsi.

Dubito che il Marco di Francoforte abbia letto nelle scorse settimane una delle ultime interviste rilasciate dal Marco di Teramo. Il leader radicale sosteneva di continuare con la sua vita di sempre. “I tumori su di me non hanno effetto”, diceva Pannella a Emiliano Liuzzi. Un colpo al cuore avrebbe invece portato via, pochi giorni dopo, il suo intervistatore. Un giocatore come Russ sarebbe piaciuto al livornese Liuzzi: arcigno e tignoso come la gente della sua terra. Attaccato alla maglia e alla professione, nella buona e nella cattiva sorte. Non l’ha letta Russ quella pagina del Fatto Quotidiano, ma si comporta come se l’avesse fatto.

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Russ è capitano dell’Eintracht dal 2013

“I tumori su di me non hanno effetto”. Pannella raccontava una bugia, ma non del tutto. Il male, così invasivo e presente sul corpo, non doveva distoglierlo dagli obiettivi di una vita. Non doveva cambiare abitudini e attitudini. E fino alla fine ha giocato la sua partita. A Francoforte, mercoledì 18 maggio, un ragazzo più giovane di oltre mezzo secolo, col suo stesso nome e il suo identico avversario, decideva di non lasciarsi vincere. “Sto bene, posso giocare”, dice Russ a mister Nico Kovac, il suo allenatore. “Dobbiamo salvarci, voglio aiutare la squadra”. È quel “noi” che può salvarlo, in realtà. Quella voglia di continuare a mettersi il parastinchi, allacciarsi gli scarpini, fare uno scherzo al compagno accanto in spogliatoio. È il desiderio di non ricevere pacche sulle spalle e di non trovare volti commiserevoli. Marco vuole scendere in campo. La federazione, viste le straordinarie circostanze, non l’ha sospeso per la positività all’antidoping. All’Eintracht sono tutti d’accordo: il capitano gioca.

Unknown-1“I tumori su di me non hanno effetto”. Forse lo pensava davvero Marco Pannella nella sua casa di via della Panetteria, ma giovedì 19, alle 14:02, viene definitivamente smentito. Mancano sei ore alla partita della Commerzbank Arena di Francoforte. Russ è nella sua camera e pensa a che effetto gli farà entrare nel suo stadio per quella che potrebbe essere…no, questo non vuole pensarlo. Ma ci pensa, perché sarà anche un duro ma è pur sempre un uomo. Tutta la sicurezza che ha mostrato e trasmesso ai suoi compagni è lo scudo dietro al quale si nasconde. Quello che gli passa per la testa deve avere le sembianze di guerre stellari. Ma questo gli altri non possono né devono vederlo. Lo aspettano 50 mila tifosi là fuori. Hanno preparato uno striscione. C’è scritto: “Marco, lottare e vincere”. Sbrigativi, concisi. Tedeschi. Lo spread con il lirismo mediterraneo è evidente, ma quando il capitano sbuca dal tunnel, il boato è assordante. Sognano di vincere con un suo gol. Il romanticismo, anche se a volte non ce lo ricordiamo, l’hanno inventato loro.

Sarebbe una bella favola se la rete salvezza arrivasse proprio dall’uomo che dovrà salvarsi, ma Disney non passava da Francoforte quella sera. Anzi. Minuto 43 del primo tempo: un cross dalla trequarti di Sebastian Kerk, mancino del Norimberga, attraversa l’area dell’Eintracht. Vanno tutti a vuoto. Tutti tranne Marco Russ, che di destro infila il portiere. Il suo. Autogol. Le telecamere indugiano sul capitano dei padroni di casa. Chissà se vede e sente quello che succede intorno a lui. Fa per portarsi le mani sul volto, ma non finisce il gesto. Lo fanno i compagni accanto a lui, increduli, scioccati, sani. Marco ha sbagliato e lo sanno tutti. Lo sa anche lui. Nessuno lo rimprovera. È stato un eccesso di generosità, un autogol “radicale”. Intento lodevole, risultato da dimenticare. Il suo omonimo da lassù potrebbe raccontargliene di esperienze simili, di autoreti elettorali e di scelte sbagliate.

                                       Le azioni salienti della gara di andata Eintracht-Norimberga

Russ è frastornato, ma rientra in campo nella ripresa. Vorrebbe spaccare il mondo. Accelera, ma ha i freni rotti. Al 56′ cerca l’azione personale. Caparbia e sgangherata: un ritratto della sua vita da 48 ore. Perde palla e commette un duro fallo su Hanno Behrens, mediano avversario. Tutto troppo veloce per chi ha troppe cose a cui pensare. Chissà se si ricorda che era diffidato mentre l’arbitro gli sventola il cartellino giallo. Chissà cosa grida quando va a un centimetro dal naso del signor Daniel Siebert, 32 anni, professione studente. Lunedì 23 maggio, Russ non potrà giocare a Norimberga la gara di ritorno. Forse non avrebbe potuto farlo lo stesso. I medici avevano deciso di posticipare l’operazione al massimo a martedì 24. Magari li avrebbe convinti a spostarla ancora un paio di giorni. O forse aveva già deciso che non era più tempo per inseguire il pallone. Da guerriero è andato in battaglia, ma un padre di famiglia non può perdere la guerra.

Marco Russ

Marco Russ a fine partita con i due figli

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L’abbraccio tra Russ e Gacinovic

Alla fine comunque non perde neanche l’Eintracht. Il pareggio lo sigla Mijat Gacinovic. È il suo primo gol con la maglia dei rossoneri di Francoforte. L’ha indossata per 400 minuti in tutta la sua vita. Russ per oltre 21 mila. Quando l’arbitra fischia la fine, Marco non sa se ci saranno altri secondi per lui con quella divisa addosso. Non piange. Difficile che lo faccia un tedesco. Condivide e  sorride, perché una serena resistenza al male passa anche per la condivisione di attimi con le persone amate. Matteo Angioli e Laura Hurt sono stati gli angeli custodi di Pannella nei momenti di sofferenza più intima. Quelli di Marco Russ sono piccoli, inconsapevoli e biondissimi. I suoi figli, che lo accompagnano in uno struggente cammino verso gli spogliatoi. Ci saranno anche martedì fuori dalla sala operatoria, quando loro padre non avrà intorno 50 mila tifosi. E forse sarà retrocesso o doppiamente salvo.

Ma lotterà per tornare a “calpestare nuove aiuole”. Come il signor Hood, il Marco di Teramo, che lassù starà già combinando qualche casino.

                   Signor Hood di Francesco de Gregori. Dedicata a Marco Pannella. Era il 1975.

Zidane, unico profeta di Saint-Denis

Coupe du Monde 98

Zinedine Zidane, eroe della notte di Saint Denis.

Che bella quella notte a Saint-Denis. Era il 12 luglio del 1998, il momento che i francesi aspettavano da una vita. La finale della Coppa del mondo in casa. Migliaia di bandiere tricolori e 80 mila ugole orgogliose che cantano la Marsigliese, l’haka vocale di un popolo abituato a combattere.

Fußball-WM: Zinedine Zidane küßt den Weltcup

Zidane bacia la Coppa del mondo. È il 12 luglio 1998.

Quella notte la Francia vinse 3-0 contro il Brasile. Campioni del mondo per la prima volta. Capitan Deschamps che alza il trofeo in mezzo a milioni di coriandoli rossi, bianchi e blu. Laurent Blanc che bacia la pelata di Fabien Barthez, mentre 60 milioni di francesi accarezzano idealmente il capo fatato di Zinedine Zidane, autore dei due colpi di testa decisivi.

Due zuccate di un marsigliese, figlio di un pastore musulmano algerino. Suo padre, Smail, era arrivato in Francia dal nord dell’Algeria per cercare lavoro nel 1953. Nove anni passati a fare il muratore a Marsiglia, in un’epoca in cui i muri diventano strumenti politici e le colonie ottengono l’indipendenza. Succede anche in Algeria, nel 1962.

Smail Zidane vorrebbe tornare là, è già con un piede sulla nave quando uno sguardo lo inchioda a Marsiglia. E’ quello di Malika, francese e originaria, come lui, della Cabilia. L’Algeria può attendere. Smail e Malika ci mettono poco a diventare i coniugi Zidane. Fanno cinque figli: quattro maschi e una femmina, Lila. A Berlino in una finale, otto anni dopo, l’eroe dello Stade de France la difenderà con una testata più amara ma ugualmente decisiva.

Zinedine è l’ultimo a nascere, nel 1972, dieci anni dopo il rendez-vous marsigliese. Diventerà il figlio prediletto della Francia post coloniale, il simbolo di una nuova generazione che vede nel pallone lo strumento per emanciparsi. Il suo nome in arabo significa “la bellezza della religione”. Nella Parigi del 1998 è Napoleone, Re Sole e Marianne fusi in un solo corpo. E’ l’idolo di tutti, dalle banlieues a Versailles. La Francia è ai suoi piedi e grazie a loro una popolazione eterogenea riscopre la grandeur. 

Zizou aggira le barriere in campo e fuori. Traiettorie magiche sull’erba e carisma pacato di un ragazzo del popolo che ce l’ha fatta. In quell’estate del ’98 i sociologi parlano di “generazione Zidane”, di un Paese che scopre la sua nuova identità meticcia e ne prende vigore. La nazionale che sconfigge il Brasile è un mix di francesi di prima, seconda e terza generazione. C’è chi viene dal Senegal o da Capo Verde come Vieira e Karembeu. Ci sono gli armeni Boghossian e Djorkaeff. C’è il basco Lizarazu ma anche l’argentino Trezeguet. Desailly è nato in Ghana, mentre Thuram – eroe della semifinale con la Croazia – è della Guadalupe.

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La Francia campione del mondo 1998

Quel 12 luglio sono tutti in campo, accanto a Leboeuf, Deschamps, Guivarc’h. Chi se ne frega delle loro origini. Sono la Francia. La nuova Francia. Tutti al servizio di Zinedine. Un dio laico che non si fa mai pregare, né sotto porta, né quando c’è da regalare un sorriso ai ragazzi delle periferie. Gente come lui, che s’identifica nel suo numero 10 e nella sua scalata scalata.

Quell’estate “la bellezza della religione” fece esplodere di gioia lo Stade de France. Diciassette anni dopo, Bilal Hadfi, francese musulmano, avrebbe provato a fare la stessa cosa. Senza gioia però.

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Bilal Hadli, kamikaze francese che si è fatto esplodere nei pressi dello Stade de France

Senza il 10 sulle spalle e senza palla al piede. O forse sì, con quella di chi è destinato a essere prigioniero. Di paranoie pseudo-religiose. Dell’abbaglio di chi ha intravisto confusamente la luce in fondo al proprio tunnel. Aveva vent’anni. Voleva la strage, si è dovuto accontentare di un goffo suicidio senza ulteriori vittime. Morto per difendere l’onore del profeta Maometto nel luogo che riconosce un solo profeta: Zizou, la bellezza della religione. La sola che unirà sempre Saint-Denis.

Sabato iniziano i playoff Nba 2015. Tutto quello che dovete sapere

Momenti della finale 2014, LeBron contro Duncan, Miami contro San Antonio

Momenti della finale 2014, LeBron contro Duncan, Miami contro San Antonio

Adesso si fa sul serio. La stagione regolare dell’Nba chiude i battenti e lascia spazio ai playoff. Sei mesi e ottantadue partite dopo la prima palla a due, datata 4 ottobre, sedici franchigie sono ora pronte a sfidarsi nella corsa al titolo di campione del mondo del basket professionistico. Così gli americani definiscono il proprio campionato, con una limpida supponenza nei confronti del resto del globo. Al di là della tracotanza, non si può dire che abbiano torto. Basti pensare alla superiorità dimostrata dalla nazionale a stelle e strisce nei mondiali spagnoli del settembre scorso.

Da sabato a fine giugno si gioca per assegnare il trofeo. Quattordici posti prenotati, due che si decideranno all’ultima giornata. Brooklyn o Indiana a Est, Oklahoma o New Orleans a Ovest. Poi il grande ballo potrà cominciare. Due mesi per stabilire se i San Antonio Spurs saranno in grado di confermarsi o se le sfidanti sapranno superarla. La vincente dovrà vincere quattro serie al meglio delle 7 partite: quarti di finale, semifinale, finale di conference e finalissima contro chi sarà riuscita a fare lo stesso sull’altra costa. Est contro Ovest. Cleveland e LeBron James da una parte, San Antonio o Golden State dall’altra, almeno nei pronostici di partenza. Fatti, ovviamente, per essere smentiti.

IL TROFEO

Tim Duncan mostra il Larry O’Brien Trophy. Ne ha vinti cinque in carriera

Tim Duncan mostra il Larry O’Brien Trophy. Ne ha vinti cinque in carriera

Sono in tante a sognare di alzare il Larry O’Brien Trophy, la coppa che il commissioner della lega più ricca del mondo assegna alla squadra vincitrice. Un trofeo alto 60 centimetri intitolato all’ex politico democratico che guidò l’Nba a cavallo fra anni ’70 e ’80. L’epoca di Magic contro Bird, degli epici scontri Lakers contro Celtics, ma soprattutto dell’esplosione della pallacanestro americana come fenomeno globale. Se oggi le 30 squadre del campionato valgono in media mezzo miliardo di dollari ciascuna, molto è dovuto alle scelte della dirigenza di quel periodo.

L’ANELLO

I 13 anelli vinti in carriera da Phil Jackson

I 13 anelli vinti in carriera da Phil Jackson

I giocatori della squadra campione ricevono invece un anello di diamanti con il logo del loro team. Un’usanza mutuata dal baseball. I primi anelli furono infatti consegnati nella Major League del 1922 agli uomini dei New York Giants, vincenti nel derby della Grande Mela contro gli Yankees. Dagli anni ’30 la pratica si estese anche agli altri sport americani, prima all’Nfl e poi all’Nba. L’uomo ad averne vinti di più è Phil Jackson. Non gli bastano le mani per indossarli tutti. Gli servirebbe infatti tredici dita. Due ottenuti da giocatore, undici da allenatore. Prima coi Bulls di Jordan e Pippen, poi coi Lakers di Shaq e Kobe Bryant. Ora è presidente dei New York Knicks, la squadra del suo primo alloro da cestista. Quest’anno è arrivato ultimo, al termine di un’annata maledetta. Succede anche ai migliori.

LA FAVORITA

Stephen Curry, stella dei Golden State Warriors

Stephen Curry, stella dei Golden State Warriors

Chi vorrà vincere l’anello 2015, dovrà passare sul corpo, ma soprattutto sul campo dei Golden State Warriors. Sono loro la testa di serie numero 1 alla fine della regular season. Il team californiano ha il record migliore, con 66 partite vinte e 15 perse. Hanno dominato la Western Conference e avranno il vantaggio del fattore campo per tutti i playoff. E vincere a Oakland sarà dura per tutti, visto che in casa hanno perso solo due volte su quaranta. Trascinati dalle prodezze balistiche di Stephen Curry e Klay Thompson, i gialloblù di coach Steve Kerr, indimenticabile ex tiratore scelto dei Chicago Bulls, Golden State ha stupito tutti con un gioco dinamico e aggressivo. Una squadra a trazione anteriore, sempre disposta a correre. Una virtù nata dalla necessità di mascherare una certa leggerezza dentro l’area, ma anche un potenziale problema con l’arrivo delle partite che contano, quelle più fisiche. Perché come diceva Vince Lombardi, storico allenatore del football americano che fu, “l’attacco vende i biglietti, ma la difesa vince i campionati”.

I CAMPIONI IN CARICA

I San Antonio Spurs intorno a coach Popovich. Saranno nuovamente l’avversario da battere

I San Antonio Spurs intorno a coach Popovich. Saranno nuovamente l’avversario da battere

La prova di questa frase sono i detentori del trofeo. I San Antonio Spurs di Gregg Popovich hanno sonnecchiato a lungo nella prima metà della stagione, ma dopo la sosta per l’All Star Game si sono svegliati. Hanno una striscia positiva di undici partite aperta, frutto di una salute psicofisica arrivata nel momento migliore. A ovest sono i più accreditati rivali di Golden State, Chris Paul e Clippers permettendo. Hanno il grande vantaggio di non dipendere da giocate individuali, ma da un sistema oliato alla perfezione. In più hanno la forza mentale di chi sa già come vincere le battaglie decisive. Esperienza, fame, fisicità, tecnica, fiducia. I texani hanno tutto per fare la doppietta. Sarà con tutta probabilità l’ultimo playoff del loro capitano. Tim Duncan, cinque anelli vinti fra il 1999 e l’anno scorso. Nel primo trionfo formava una coppia insuperabile con David Robinson. Li chiamavano le “Twin Towers”. Quelle vere a New York erano ancora in piedi. Di quelle quattro torri alla fine ne è rimasta solo una. E abbatterla sarà un’impresa, a giudicare dalla determinazione con cui sta affrontando la parte finale della stagione.

 

La classifica della Western Conference prima dell'ultima giornata

La classifica della Western Conference prima dell’ultima giornata

 

IL SOGNO DI CLEVELAND

LeBron James cerca il terzo titolo Nba in carriera dopo i due anelli vinti a Miami

LeBron James cerca il terzo titolo Nba in carriera dopo i due anelli vinti a Miami

Se a ovest dovrebbe essere una lotta a due, con i Los Angeles Clippers di Chris Paul e Blake Griffin pronti a fare da guastafeste, sull’altra costa gli occhi sono tutti sui rinati Cleveland Cavaliers. Nell’estate scorsa la franchigia dell’Ohio è tornata a essere competitiva per il titolo. Merito del ritorno di LeBron James, il figliol prodigo tornato a Cleveland dopo quattro stagioni a Miami. Un quadriennio che ha fruttato due anelli e due finali perse. L’anno scorso “The King” dovette inchinarsi agli Spurs, adesso sogna di dare un titolo sportivo alla città di Cleveland, cosa che manca dagli anni ’60 quando i locali Browns trionfarono nella NFL. Può contare sull’aiuto di Kyrie Irving e Kevin Love, due stelle assolute ancora prive di argenteria alle mani. Dopo qualche intoppo iniziale, la squadra ha serrato le fila nella seconda parte della stagione. Una crescita che non è bastata però ad assicurarsi la prima fila della griglia playoff a est. Un po’ a sorpresa, c’è qualcuno che parte davanti rispetto a LeBron e compagni.

La classifica della Eastern Conference prima dell'ultima giornata

La classifica della Eastern Conference prima dell’ultima giornata

GLI ATLANTA HAWKS

Mike Budenholzer, coach degli Atlanta Hawks

Mike Budenholzer, coach degli Atlanta Hawks

Sessanta partite vinte, solo ventuno perse. In nessuna di queste, un giocatore ha realizzato trenta punti. Basta questo dato per far capire chi sono gli Atlanta Hawks, primi classificati a est. Una squadra in cui tutti sono importanti e nessuno è indispensabile. Privi di stelle, più frizzanti della Coca Cola, loro vicina di casa. Giocano un basket molto organizzato, un po’ come i San Antonio Spurs. E non è un caso. L’allenatore Mike Budenholzer è stato assistente di Gregg Popovich in Texas dal ’96 al 2013. Ne ha assorbito i valori, trasmettendoli ai suoi ragazzi in Georgia. Quella filosofia conosciuta a San Antonio come “pounding the rock”. Un’espressione traducibile nell’italico “martellare” e che secondo la “dottrina Popovich” viene così declinata.

“Non può essere la singola martellata, per quanto violenta, ad abbattere la roccia. Ci vorranno tante martellate, piccole e  continue date da tutti per buttare giù l’ostacolo”.

Concetti che gli Hawks hanno fatto propri, macinando risultati e gioco. Arrivano ai playoff da primi della classe ma allo stesso tempo senza troppe aspettative.La frattura del perone di Thabo Sefolosha, riportata durante il discusso arresto lampo a New York, priva Budenholzer di uno dei suoi leader difensivi. Se ne farà una ragione, conscio di poter contare su un Paul Millsap mai visto a questi livelli di rendimento e su un gruppo di underdogs che ha voglia di dare scacco a LeBron, re della costa est nelle ultime quattro stagioni.

GLI ACCOPPIAMENTI PROBABILI

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Se dovesse finire oggi, questi sarebbero gli accoppiamenti. A Est resta da stabilire chi andrà a sfidare gli Hawks al primo turno. Si giocano un posto Indiana e Brookyn. Il match point è sulla racchetta dei Pacers a cui basterà un successo a Memphis, già qualificata ma vogliosa di evitare gli Spurs al primo turno. Non dovessero farcela dovrebbero sperare in un’improbabile sconfitta dei Nets in casa contro Orlando. Gli Spurs a loro volta saranno arbitri della corsa all’ultimo posto in ballo nel tabellone ovest. Una trasferta a New Orleans contro i Pelicans di Anthony Davis, appaiati all’ottavo posto con gli Oklahoma City Thunders di Russell Westbrook. Una vittoria dei Pelicans chiuderebbe i conti, estromettendo l’MVP dell’ultimo All Star Game dalla postseason. Gli orfani di Kevin Durant chiudono la stagione a Minnesota, fanalino di coda della conference occidentale. Solo una vittoria, unita alla voglia di Duncan e soci di arrivare secondi, potrà regalare ai Thunders il duello con Golden State. Il resto della compagnia aspetta alla finestra.

GLI ITALIANI

Marco Belinelli mostra l'anello vinto nella scorsa edizione

Marco Belinelli mostra l’anello vinto nella scorsa edizione

Due su quattro. La metà dei nostri connazionali nell’Nba parteciperà ai playoff. Ci sarà, da campione in carica, Marco Belinelli. L’anno scorso fu preziosissimo nell’assalto ai Miami Heat di Wade e James, questa volta sarà probabilmente chiamato ad arginare le folli corse degli Warriors. Senza dimenticarsi di colpire dall’arco con la consueta regolarità. A sfidare LeBron ci penserà Gigi Datome, arrivato in febbraio a Boston a puntellare il reparto ali. Dopo un anno e mezzo di scarso utilizzo a Detroit, il sardo ha finalmente cominciato a vedere il campo, risultando decisivo in un paio di occasioni. Non ci sarà invece l’incredibile Danilo Gallinari, capace di realizzare 47 punti in una partita singola, ma poco aiutato dai suoi Denver Nuggets, solo dodicesimi a ovest. Assente anche Andrea Bargnani, coinvolto nella pessima stagione dei Knicks a New York e sempre alle prese con una condizione fisica altalenante. Averli tutti e quattro in buone condizioni all’Europeo di settembre è il sogno di coach Pianigiani e dei tifosi del basket italiano.

Ci penseremo da giugno. Fino a quel momento, godiamoci i playoff Nba. Quella che si può definire “una dolce attesa”.

Il promo dei playoff Nba 2015 realizzato dalla Tnt

 

Mayweather vs Pacquiao, pugni da 400 milioni di dollari

Pacquiao e Mayweather si sfideranno a Las Vegas per la corona dei pesi welter

Pacquiao e Mayweather si sfideranno a Las Vegas per la corona dei pesi welter

La sfida del secolo. L’ennesima, diranno gli scettici. Ma quella fra Mayweather e Pacquiao, il prossimo 2 maggio a Las Vegas, probabilmente lo è per davvero. Ci sono 400 milioni di motivi per pensarlo. Tanti quanti ne vale, in dollari, lo scontro che assegna il titolo di campione del mondo dei pesi welter. Per chi non fosse pratico di boxe, si tratta della categoria che racchiude i pugili che pesano fra i 63,5 e i 67 chili. Niente a che vedere con i pesi massimi alla Mike Tyson, per intendersi.

I pesi welter sono piccoli di statura e asciutti fisicamente. Rapidi, intensi, entusiasmanti. Gente come Jake la Motta, il pugile celebrato da Robert De Niro in “Toro scatenato”, o come Sugar Ray Robinson, campione degli anni ’50, ballerino di professione e boxeur a tempo perso. Libellule scolpite nel marmo, piedi veloci, pugni che inceneriscono. Floyd Mayweather Jr. e Manny Pacquaio sono da un decennio il meglio della boxe mondiale. Hanno collezionato titoli e cinture diverse in varie categorie di peso: cinque per Mayweather, otto per Pacquiao. [Read more…]

Un campionato di Formula 1 solo per donne. Genialità o idiozia? L’opinione di Giovanna Amati, ultima pilota donna in F1

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Bernie Ecclestone, 85 anni a ottobre

“Donna al volante, pericolo costante”, recita un vecchio adagio. Un detto che presto potrebbe essere riletto in “donna al volante, business eccitante”. Un campionato di Formula 1 solo femminile. È questa l’idea di Bernie Ecclestone, discusso padre-padrone del circus da oltre 30 anni. Classe 1930, il magnate inglese è abituato a far parlare di sé per idee originali, bizzarrie e stravaganze.

Un uomo certamente attento al pianeta femminile, sotto tutte le sfaccettature. Due divorzi alle spalle e la terza moglie sposata un paio d’anni fa: Fabiana Flosi, modella brasiliana conosciuta durante il gran premio del Brasile del 2009. Un matrimonio a 82 anni, quando era già bisnonno, con una ragazza di 46 anni più giovane. Una differenza che si attenua molto, guardando alla vitalità del vulcanico Bernie. [Read more…]

Calcio, il ritorno di Antonio Conte allo Juventus Stadium

Antonio Conte, per la prima volta allo Juventus Stadium dopo l'addio alla Juve

Antonio Conte, per la prima volta allo Juventus Stadium dopo l’addio alla Juve

Tornare a casa. Come il figliol prodigo. Eppure sentirsi sopportato. Se non peggio. Strano destino quello di Antonio Conte, ct della Nazionale, che stasera torna per la prima volta allo Juventus Stadium, l’arena dei suoi trionfi in bianconero. Tre anni di scudetti vinti in carrozza, tre stagioni da uomo solo al comando, fino all’inatteso addio, a luglio dello scorso anno, a preparazione appena iniziata. Il contrasto con la società per divergenze sul mercato. La voglia di provare una nuova esperienza. La pazza idea di risanare una nazionale a pezzi dopo il mondiale brasiliano. Del resto, con la Juve ci era riuscito, ricostruendo dalle ceneri su fondamenta in cui nessuno credeva più. Un po’ come quello stadio, lo Juventus Stadium, nato laddove c’era il Delle Alpi. La felicità al posto della tristezza. Gli scudetti sul campo che fanno dimenticare quelli persi in tribunale. [Read more…]

Calcio italiano: in che stadio siamo?

Schermata 2015-03-12 alle 12.50.46Vecchi, svuotati e ci hanno già fatto perdere un Europeo. No, non parliamo dei calciatori azzurri ma degli stadi della nostra serie A. Hanno un’età media di 64 anni, incassano cinque volte di meno rispetto alla Premier League, e un terzo rispetto a Liga e Bundesliga. E ogni domenica restano vuoti per metà.

Ma cosa stanno facendo le società per uscire dallo stallo? Poco, ve lo diciamo subito. Tanti progetti, poca concretezza. I soldi sono quelli che sono e un investimento del genere deve essere forzatamente sostenuto da molte mani. Certo, l’esempio dello Juventus Stadium fa gola a tutti ma il rischio di fare il passo più lungo della gamba frena spesso gli entusiasmi iniziali.

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