La notte di Leo. Messi trascina l’Argentina al mondiale

082048547-9a0fdce8-a6c3-4f36-a810-5f3f724bfc02A volte la Storia si fissa senza motivo. Si ostina a chiedere prove della loro reale esistenza ai propri maggiori protagonisti. Pretende dimostrazioni anche da chi ha dimostrato di essere “altro” rispetto al mondo degli umani.

La Storia gode nel vedere i suoi figli più cari disposti vicino. Ama i paragoni e le classifiche. O forse, semplicemente, le sopporta. “Messi è grande ma non sarà mai Maradona“. Un teorema elevato a sentenza dalla mancanza di successi in maglia albiceleste dell’erede designato.

La Storia si diverte ad accostarli. Noi la prendiamo sul serio. Cercando un po’ di preservare l’unicità dei ricordi. Ignorando le statistiche di una carriera irripetibile, per soffermarci su singoli episodi. Quella coppa del mondo sfuggita nella notte di Rio, quel rigore calciato lontano a New York contro il Cile. L’addio. Il ritorno. La paura di un mondiale sul divano.

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Un popolo, da Buenos Aires alla Patagonia, chiedeva una “prova” vera al dio del calcio. E la pretendeva in un luogo vicino al cielo: Quito, stadio El Atahualpa, 2850 metri di altezza. Ecuador-Argentina doveva essere la notte di Leo Messi. È stata uno schiaffo in faccia agli scettici. Tre gol, la capacità di portare 40 milioni di persone dall’inferno al paradiso, la naturale semplicità nell’essere normalmente speciale. Messi trascina l’Argentina in Russia, scacciando le streghe della vigilia e svegliando da un incubo la squadra di Sampaoli, colpita dopo 38 secondi da Ibarra.

Neanche in quel momento Leo ha cambiato faccia. Ha stretto la fascia attorno al braccio e si è messo al lavoro. Capitano senza teatralità, trascinatore con l’esempio, extraterrestre col pallone fra i piedi. Ci ha messo venti minuti per ribaltare il mondo. Prima una triangolazione con Di Maria chiusa con un beffardo tocco di punta: uno scambio da “potrero”, direttamente dalle stradine di Rosario. Poi un pallone riconquistato con una rabbia ancestrale e scagliato violentemente alle spalle di Banguera. La luce, finalmente. L’esultanza genuina, più da ragazzino felice che da uomo dei record. La sessantesima gioia in nazionale, la più attesa. “Ha dimostrato una volta di più di essere il vero padrone di questo gioco. Non ci sono parole per lui”, ha detto a fine partita Mascherano, uno che ha visto da vicino gran parte dei 581 gol segnati in carriera da Leo.

L’ultimo, il 61esimo, il sigillo della qualificazione, è un gioiello difficile da raccontare attraverso traiettorie terrene. Pallonetto dal limite dell’area, in corsa, fuori equilibrio, contro ogni regola. Un capolavoro festeggiato da tutta la squadra, panchina compresa. Tutti in campo ad abbracciare l’uomo della Provvidenza. Era il minuto 62, ma di fatto è stato il fischio finale.

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“Sarebbe stata una follia rimanere fuori dal mondiale. Non solo per me, ma per tutta l’Argentina”, le sue prime parole nel dopo partita. “Tante cose mi sono passate davanti dopo il loro vantaggio, ma ci siamo subito ripresi. Meritavamo la qualificazione, ora cresceremo, in Russia saremo un’altra cosa”.

Quasi una dichiarazione di guerra. La sensazione di avere un cerchio da chiudere con la Storia, quella che odia la solitudine dei numeri 10. Forse per questo, ogni tanto, ne fa nascere uno che continua quell’emozione così irrazionale. E così impossibile da paragonare. Il calcio questa volta ha vinto. Messi è al mondiale. Ancora una volta di fronte avrà Cristiano Ronaldo, che ha staccato il pass poche ore prima. Con tutta probabilità, arriveranno in Russia a parità di palloni d’oro. Cinque a testa. Sarà forse l’ultimo duello lontano dai club. Sarà l’ennesimo assalto alla leggenda per Leo. Perché dopo la notte di Quito, c’è già chi aspetta una notte moscovita a metà luglio.

La Siria e quel sogno Mondiale ancora acceso

479771Deir ez zor, città della zona orientale della Siria. Terra di sangue e di conflitti. Fino a un mese fa, completamente in mano ai miliziani dell’Isis. L’esercito del dittatore Bashar al Assad è quasi riuscito a liberarla. Non del tutto ancora. Nelle notti scorse l’aviazione russa è giunta in soccorso, bombardando: 133 vittime, quasi tutti civili.

A quasi 7500 chilometri da lì, allo stadio Hang Jebat di Malacca in Malesia, la Siria gioca “in casa” contro l’Australia l’andata del doppio spareggio per la qualificazione alla Coppa del Mondo. Un figlio di Deir ez zor, Omar Al Somah, segna un calcio di rigore a 5 minuti dalla fine. È il gol del pareggio: 1-1. Verdetto rimandato a martedì prossimo, a Sidney.

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Omar, in Russia, sogna di volarci a giugno. Con i suoi compagni, in un mondiale a cui nessuno pensava e che oggi è ancora possibile.

Da anni segna valanghe di gol in Arabia Saudita nell’Al-Ahli. In nazionale è tornato solo da qualche settimana. Cinque anni fa era stato escluso per avere sventolato la bandiera dei ribelli anti Assad dopo una vittoria contro l’Iraq. Il regime lo ha perdonato, lui ha accettato. Per “tentare di regalare una gioia alla nostra gente”, ha detto. E in parte ci è già riuscito: un altro suo gol del pareggio – contro l’Iran a inizio settembre – ha mantenuto vivo il sogno qualificazione. Una rete festeggiata da migliaia di persone nelle strade di Damasco.

Omar al Somah, centravanti ed eroe nazionale in patria. Eppure non tutti lo vedono così. Molti esuli lo hanno considerato un traditore, al pari di Firas Al Khatib, fantasista ed ex simbolo della resistenza della città di Homs al regime. Per anni si è autoescluso dalla selezione. Poi nel febbraio scorso è tornato a vestire la maglia delle “aquile di Qasioun”, epiteto legato al monte che sovrasta Damasco. Una scelta che ancora oggi non lo fa dormire. Con Assad che combatte l’Isis o contro Assad che bombarda i civili siriani? Il numero 10 siriano ha scelto semplicemente di giocare, la cosa che gli è sempre riuscita meglio.

Una cosa che purtroppo non possono più fare tanti suoi ex compagni, caduti in battaglia o semplicemente spariti. Uno di questi, veniva da Homs, proprio come lui. Si chiamava Abdel Baset Sarout, classe 1992. Fino al 2011 era considerato il più forte portiere mai nato in Siria. Un fenomeno, tipo Donnarumma. Ma allo scoppiare della guerra civile, ha scelto di stare contro Assad, in prima linea. La parola “assedio” per lui ha assunto un significato del tutto diverso. Di lui non si hanno più notizie. Altri 37 calciatori importanti hanno fatto la stessa fine durante questi anni. Un tempo in cui gli stadi sono serviti soprattutto come basi militari. Luoghi di morte e non di gioia.

La guerra in Siria è ancora una realtà sempre più complessa. Neanche il calcio può fermarla. Eppure la favola della nazionale che sogna il mondiale può aiutare per qualche ora a dimenticare l’orrore. Le bombe, gli allarmi che suonano, il mezzo milione di morti in 6 anni. Sotto una sola maglia, la squadra allenata da Ayman Hakeem prova a riunire un popolo disperso, ferito, frammentato.

Contro l’Australia si è trovata in svantaggio e ha reagito con la rabbia di chi non accetta altri sogni spezzati. Nessuno dei giocatori in rosa gioca in Europa, in pochissimi guadagnano abbastanza per vivere bene col pallone. Chi gioca in patria, spesso non sa quanto tempo passerà fra una partita e l’altra. Eppure il mondiale adesso è lì, vicino, anche se non vicinissimo.

Non basterà superare l’Australia. Servirà, eventualmente, anche uno spareggio a novembre contro la quarta classificata dell’area Concacaf. L’area centrosettentrionale dell’America, per intendersi. Probabilmente fra Panama, Honduras o addirittura Stati Uniti.

Pensieri ancora lontani per un popolo abituato da tempo a vivere alla giornata. E da qualche settimana, nuovamente aggrappato ai gol di Omar al Somah. Il figliol prodigo, almeno per chi ha scelto di concentrarsi solo sul pallone e sulla sua magia.

Il “pioniere” Leonardo e una nuova tappa del suo viaggio: la Turchia

Leonardo_Nascimento_de_Araújo_2013-01-01Coraggio, cuore e curiosità. Tre “c” che riassumono le scelte della seconda vita nel calcio di Leonardo, nuovo allenatore dell’Antalyaspor.
Nuovo viaggio, sfida nuova di un uomo che ama essere esploratore e pioniere. A Milano, a Parigi e adesso in Turchia. Da sei anni non tornava in panchina: era il 29 maggio del 2011. A Roma, nella finale di Coppa Italia, la sua Inter batteva 3-1 il sorprendente Palermo di Delio Rossi. Doppietta decisiva di Samuel Eto’o, oggi stella dei turchi. Leonardo guarderà subito a lui per rialzare una squadra inchiodata al 13° posto, nonostante i milioni spesi daAli Şafak Öztürk, proprietario del club . Un presidente che non vuole perdere tempo: 33 anni, rampante petroliere con un fatturato annuo di 10 miliardi e zero voglia di galleggiare sui bassifondi della classifica.

La sua ambizione ha convinto il brasiliano, insieme alla curiosità per un campionato nuovo, la voglia di rimettersi in gioco, la possibilità di farlo con Nasri, Menez e il camerunense là davanti. Ricominciare dalla periferia del calcio. Dare un senso agli investimenti fatti. Quasi un déja vu per Leo, che nel 2011 ricevette dal nuovo PSG degli sceicchi la direzione sportiva del club. Manager lontano dal campo. Due anni a lavorare dietro le quinte per portare i parigini nel calcio che conta, ingaggiando Ancelotti, Ibrahimovic, Thiago Silva, Verratti e Cavani, prima di salutare a seguito di una discussa squalifica per uno scontro con l’arbitro Castro dopo un pareggio con il Valenciennes.

Zlatan_Ibrahimović_unveilingUn addio difficile, dopo aver messo il PSG sulla mappa del calcio europeo. Un congedo dalla squadra che, da giocatore, nel ’96 gli aveva dato la possibilità di mettersi in luce in Europa. Veniva dal campionato vinto con i Kashima Antlers in Giappone, paese cruciale per la sua carriera. A Tokio, infatti, nel ’93 il suo San Paolo sconfisse il Milan in coppa Intercontinentale. Nel frastuono delle trombette e nel dolore della sconfitta, i rossoneri fecero la sua conoscenza. Fu amore a prima vista, concretizzato nel ’97 e andato avanti per 13 anni. Prima in campo, poi come osservatore e infine come allenatore. Una scommessa durata un anno, finita dopo un campionato concluso al terzo posto e ricordato soprattutto per il modulo “4-2 e fantasia”. Ronaldinho, Pato e Borriello più Seedorf. Liberamente ispirato al Brasile di Telè Santana, croce e delizia di una stagione divertente ma non abbastanza vincente, secondo i vertici. “A un certo punto avevo pensato che il Milan fosse la mia eternità”, disse poco dopo l’addio. Sbagliava, ma da cittadino del mondo trovò il coraggio per rimettersi in viaggio. Spostandosi di una ventina di chilometri, la distanza che separa Milanello da Appiano Gentile. Il luogo più vicino e lontano che potesse scegliere. La panchina dell’Inter, al posto di Benitez, nell’anno dopo il triplete. La stima di Moratti, un secondo posto alle spalle proprio del Milan di Allegri, fino all’addio, dopo il citato trionfo in coppa Italia.

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Oggi a 48 anni Leonardo torna in campo. Di nuovo protagonista dopo l’esperienza da commentatore a Sky Sport. C’è un progetto da far crescere, un club che somiglia a una start up. Leonardo in gioventù voleva diventare ingegnere. Il calcio gli ha fatto prendere un’altra via. Un po’ come il suo illustre omonimo del Rinascimento, si è trovato a dipingere, affrescare, inventare, plasmare, restaurare.
Un artista a disposizione di un facoltoso mecenate. Avrà due anni per accontentarlo e fare dell’Antalyaspor una nuova Gioconda.

Totti e il compleanno lontano dalla ‘sua’ Roma: 41 anni festeggiati da… Francesco

7141706683_8e4d51b954_bFesteggiare in famiglia, a Roma, lontano dalla “sua” Roma, in trasferta in Azerbaijian. Francesco Totti ha deciso di spegnere le 41 candeline a casa. Avrebbe dovuto seguire la squadra a Baku, stadio “Tofiq Bahramov”. Lì gioca il Qarabag, avversaria di Champions dei giallorossi. Lontanissima Trigoria, distante 4500 chilometri. Ancora vicino il suo ritiro, neanche 4 mesi fa. Quel giorno c’erano Ilary, Cristian, Chanel e Isabel accanto a lui. Saranno loro a scaldare questo inedito 27 settembre, il suo primo compleanno senza pallone fra i piedi.

Trenini e palloni. I regali che amava di più da bambino. Con i primi ha smesso presto, con gli altri non avrebbe mai voluto farlo. Ha passato più di 40 anni ad accarezzarli o a colpirli con violenza. L’ultimo, nel suo stadio, lo ha guardato a lungo. L’ha firmato con un pennarello e calciato in curva, fra le braccia di chi l’ha amato più forte. Era il 28 maggio. La festa per celebrare la fine del suo primo tempo. Quello della vita di tanti tifosi che quel giorno hanno pianto, ripensando agli anni passati con lui. Una fine, il passo obbligato prima di un nuovo inizio.

Francesco_Totti_Chelsea_vs_AS-Roma_10AUG2013È strano questo compleanno. Non ci sono i cucchiai, gli assist millimetrici, i tiri al volo. Niente di quello che c’è sempre stato. Né celebrazioni speciali, né polemiche sul suo utilizzo. C’è altro. Una celebrazione intima, familiare, al posto di un rito collettivo. La possibilità di concedersi quelle pause che gli impegni in carriera non hanno mai permesso. Fare il padre, il marito. E il dirigente, certo. Un mestiere nuovo da imparare. Il primo lavoro dopo una vita passata a giocare. La giacca e la cravatta hanno costretto all’armadio la maglia numero 10, armatura e tatuaggio insieme. Il calore dello spogliatoio è stato sostituito dal tepore degli uffici. Le pacche sulla spalla e i sorrisi al posto degli scherzi e delle risate.

Sì, è tutto diverso. “Ma a un certo punto della vita si diventa grandi. Così mi hanno detto e così il tempo ha deciso. Maledetto tempo”, diceva in quel giorno di maggio. La voce emozionata, l’abito di sempre, per l’ultima volta, dopo 785 partite. Poi l’uscita dal campo, sapendo di doversi cambiare. La divisa e un po’ anche l’anima.

Erano giorni di tormenti. La paura del domani, la malinconia da prendere a calci per fare spazio a un presente sereno. In pace, forse, dopo anni di battaglie. Contro chi vedeva le lancette scorrere più veloci. Contro se stesso, per superarsi. E contro il tempo, il difensore che, dopo essere stato ripetutamente beffato, è riuscito a fermarlo.

“A 41 anni, uno come Francesco Totti a Roma è molto più utile adesso piuttosto che quando giocava tre minuti in Roma-Carpi”. Parola di Daniele De Rossi, compagno di sempre, capitan successore.

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Percorso difficile da accettare all’inizio, quanto affascinante da scoprire strada facendo. In campo Totti ha provato tanti ruoli, fuori ha appena iniziato a scoprirli. Apprendista dirigente al fianco di Monchi, consigliere di Eusebio Di Francesco, studente allenatore a caccia del patentino di base per iniziare dalle squadre giovanili. Forse il primo passo di una nuova carriera o magari solo una porta da tenere aperta se il richiamo dell’erba del campo, prima o poi, diventasse impossibile da ignorare. E c’è da scommetterci visto che già questo venerdì, smaltito il festeggiamento, viaggerà fino a Tiblisi, capitale della Georgia per giocare una partita di beneficenza organizzata da Kakha Kaladze. Un regalo che si concederà prima di rimettersi “a disposizione a 360 gradi, dal presidente alle giovanili”, come ha dichiarato fin da metà luglio, inizio della sua nuova carriera. La stessa curiosità del ragazzino che a Porta Metronia chiamavano lo “Gnomo”, l’esperienza dell’uomo, cresciuto e diventato simbolo eterno. “La vera vittoria della battaglia è passare 25 anni con la stessa maglia”, recitava uno striscione all’Olimpico nel suo ultimo giorno da calciatore.

Chissà quanti ne passeranno ancora. Sempre dalla stessa parte, semplicemente con una veste diversa. Auguri Francesco Totti, campione senza tempo, romanista senza etichette.

La traiettoria di Ciro Immobile, dai fallimenti all’estero a capopopolo laziale

Ciro_Immobile_2014Controllo nello stretto. Accelerazione. Dribbling di esterno e diagonale fulmineo. Tutto in pochi metri, tutto col destro. Una meraviglia firmata Ciro Immobile, la fotografia di un inizio di stagione da dominatore. Dodicesima rete in dieci partite, otto in campionato. Stesse cifre di Messi e Dybala. Numeri incredibili che dicono tanto, ma non tutto. “Non ci sono più aggettivi per Ciro”, ha detto Simone Inzaghi dopo la vittoria di Verona. Una frase che racchiude il valore che ha l’attaccante per la Lazio. Statistiche da sogno, ma soprattutto un atteggiamento da leader. Finalizzatore e trascinatore. Il primo a rincorrere, l’ultimo a mollare. Era stato così anche contro il Napoli. Una sconfitta dolorosa, nel risultato e negli infortuni. Squadra decimata, la necessità di rialzarsi subito.

Nessun problema, ci pensa Ciro. Due gol e un assist per Marusic. Il terzo dall’inizio del campionato. I numeri non dicono tutto, ok, ma sulle 13 reti segnate dalla Lazio nelle prime 6 partite, c’è lo zampino di Immobile in 11 occasioni. Impressionante. A settembre. La conferma dopo un’ottima stagione, una consacrazione definitiva a 27 anni, l’età della maturità. Una scommessa vinta dalla Lazio che due estati fa, dopo il tempestoso dietrofront di Bielsa, lo aveva scelto per sostituire Miro Klose, in campo e nel cuore dei tifosi. Ciro ci è riuscito a suon di reti gonfiate e magliette sudate. Ci è riuscito creando un legame speciale con l’allenatore arrivato in extremis al posto del Loco. Simone Inzaghi ha responsabilizzato da subito Immobile. Ciro non aspettava altro. Veniva dai fallimenti all’estero, prima a Dortmund, poi a Siviglia, e da una mezza stagione in chiaroscuro a Torino. Aveva bisogno di sentirsi importante e in poco più di un anno è diventato un capopopolo.

Con la partita di Verona ha raggiunto le 49 presenze con la Lazio. Una in più rispetto a quelle col Torino. È la sua maglia più indossata in carriera, quella con cui vuole diventare un top player e, forse, una bandiera. Ne ha fatta di strada dai tempi di Torre Annunziata, da quando i dirigenti del Sorrento gli pagavano la Circumvesuviana per averlo con loro. Era un bambino e ancora non s’immaginava come Ciro il Grande. Nel suo viaggio ha fatto soste brevi in ogni tappa. Adesso Roma è casa sua. E magari non pensa più a tornare nei luoghi dov’è cresciuto. Nella “sua” Napoli, nella squadra che gli ha sempre fatto battere il cuore e che ora vola a punteggio pieno. Mercoledì scorso non è riuscito neanche lui a fermarne la corsa.

Ci ha provato ma non ce l’ha fatta neanche la SPAL di Schiattarella, nativo di Mugnano di Napoli, al primo gol in serie A. Gli ha risposto subito Insigne, vanificando tutto. Napoletani in gol, come il caivanese D’Ambrosio per l’Inter. O come Mandragora, ragazzo di Scampia. Un’altra prima volta, bellissima, in Crotone-Benevento. Scugnizzi più o meno abituati a queste gioie. Ciro li guarda tutti dall’alto. Alfiere del gol napoletano nella Capitale. Ne ha già fatti 37 da quando è arrivato. Il biancoceleste è il suo azzurro. Senza dimenticare l’altra maglia azzurra. Quella che Ventura gli metterà addosso. A Torino lo ha lanciato lui, ora chiede in cambio un biglietto per la Russia. Convinto anche lui che con un Immobile così, i playoff fanno meno paura.

Silvio Baldini, ritorno gratis alla felicità. A Carrara un’avventura controcorrente

IMG_4700Che cos’è la felicità? Silvio Baldini se lo è chiesto spesso negli ultimi anni. Precisamente dal 5 ottobre del 2011, il giorno del suo ultimo esonero a Vicenza. Sconfitta casalinga contro il Varese di Rolando Maran, l’amico di una vita.

Da quel giorno ha cercato la felicità lontano dagli stadi. La famiglia, la casa a Marina di Massa, le battute di caccia con i suoi cani, le passeggiate sulle Alpi Apuane. Tanti silenzi, poche risposte. Diverse proposte per tornare in panchina neanche prese in considerazione.

“Non provavo più gioia nel fare il lavoro che avevo sempre fatto. Non potevo barare a me stesso”.

 Meglio restare a casa. E aspettare. Fino a scoprire che quella felicità smarrita è lontana solo sei chilometri. La distanza che separa casa sua dallo stadio di Carrara, il teatro della sua nuova avventura da allenatore. Lo stesso da cui era partita la sua scalata verso la serie A.

Silvio Baldini, 59 anni a settembre, ricomincia dalla Carrarese in serie C. E sceglie di farlo a modo suo: gratis.

“Era l’unico modo per dimostrare ai dirigenti che mi hanno chiamato che ci tenevo veramente a fare qualcosa per loro. Il presidente Oppicelli quasi non ci credeva. Dovranno solo pagarmi una penale da 500mila euro se mi cacciano. Oppure un blocco di marmo se dovessi vincere il campionato. Poi se qualche dirigente prova a dirmi chi devo mettere in campo, prendo la macchina e vado via”, racconta Baldini con un sorriso. “I soldi non m’interessano adesso. Complicano sempre tutto nel calcio. Prendi un gioiello di questa terra come Bernardeschi. Finiranno per rovinarlo. Perderà la voglia di giocare a pallone pensando a quelle cifre che gli girano intorno. Troppo business.  Guarda là, questa è la mia ricchezza”.

Baldini dice questa frase indicando le Apuane, mentre passeggiamo all’interno di una cava di marmo dismessa. Monte Pasquilio, oltre 800 metri di altezza. Un rifugio dell’anima da sempre per l’allenatore massese.

Il luogo in cui ha maturato una scelta in controtendenza rispetto al calcio milionario di oggi.

IMG_4703“Per me era fondamentale ritrovare la passione che avevo quando allenavo i dilettanti. La pura passione per il gioco. La voglia di prendere un gruppo e farlo diventare una squadra. Per questo porterò la squadra in ritiro in una caserma militare. Camerate da otto, niente televisione in camera, bagno in comune. Chi non si adatta, verrà messo subito da parte. Per me il gruppo viene prima di tutto. Nel mio calcio è il più forte che deve mettersi a disposizione del più debole. Dentro e fuori dal campo. Se i miei ragazzi capiranno questo, ci toglieremo tante soddisfazioni”.

Baldini ha la luce negli occhi mentre pensa alla sua prossima Carrarese. Se la immagina come un’oasi in uno sport che non riconosce più. Un mondo guidato da logiche per lui inaccettabili.

“C’è troppa ipocrisia, troppa falsità. Ormai comandano direttori sportivi e procuratori. Si mettono d’accordo per fare affari, senza pensare agli interessi dei calciatori. Mi ricordano quei giocatori di carte che barano. Sono in cinque al tavolo e quattro sono d’accordo, per spartirsi la torta. È un sistema che si autosostiene così, puntando sempre di più all’interesse dei dirigenti e sempre meno a quello del gioco”. 

Scuote la testa, poi riattacca: “È normale che siano venuti a mancare i valori basilari: la lealtà, la semplicità, l’amicizia. Cose che non mancheranno nella mia squadra”.

Silvio Baldini guarda sempre avanti. Non ha rimpianti per una carriera che gli ha riservato spesso delusioni. Inutile chiedergli di tornare sul calcio rifilato al collega Domenico Di Carlo durante Parma-Catania. Sono passati quasi dieci anni da quella giornata di agosto. Un gesto che probabilmente gli ha chiuso tante porte in faccia e che preferisce dimenticare. Era l’alba dell’ultima stagione in serie A, un anno che non riuscì a chiudere sulla panchina siciliana nonostante il raggiungimento di una storica semifinale di Coppa Italia.

Meglio ricordare gli anni d’oro, quelli di Empoli. Soprattutto quel 2002/2003, primo anno nel massimo campionato, dopo una cavalcata trionfale in B.

“La vittoria in trasferta a Como all’esordio è il ricordo più bello della mia carriera. Iniziammo la stagione vincendone quattro consecutive fuori casa. Un record per una neopromossa”.

In porta c’era Gianluca Berti, ieri capitano e oggi nuovo direttore sportivo della Carrarese di Baldini. Uomo di fiducia del mister. Così come Totò Di Natale che esplose in quella stagione, segnando 13 gol. Uno più speciale degli altri: 19 aprile 2003. L’Empoli batte in trasferta un Milan che sarebbe diventato campione d’Europa poche settimane dopo. Il passo decisivo verso la salvezza. Luci a San Siro. Roberto Vecchioni del resto è il cantante preferito di Baldini.

“Antonio lo sento ancora. Probabilmente è il calciatore più forte che ho allenato ma di lui ho soprattutto un grande ricordo umano. Quello che ho anche per Daniele Adani. Con lui non parliamo con l’anima, abbiamo un rapporto che va oltre il calcio. È una di quelle persone che porto sempre nel cuore”.

IMG_4722 Scendiamo a valle. Una sosta in un negozio di alimentari per assaggiare “la focaccia con la mortadella più buona del mondo”. Un bicchiere di cedrata e rotta verso casa. Lungo la strada i compaesani salutano l’allenatore con affetto. Non lo considerano una celebrità, ma un amico di osterie e un compagno di caccia alle beccacce.

È questa semplicità che Baldini non cambierebbe con nessun altro luogo. “Se mi offrissero tanti soldi per allenare in Cina, non ci andrei. La vita è corta, allungare il conto in banca non ti fa essere più felice. Io sto bene qui. Con la mia famiglia, i miei cani, in mezzo alla mia gente”.

Da Cor Coster a Mino Raiola. Un gioco in procura

Juventus - NapoliDue barricate divise da un apostrofo. L’agente da una parte, la gente dall’altra. Una minima differenza a livello lessicale, due mondi inconciliabili nell’approccio al calcio. Il procuratore e il tifoso, destinati per definizione a non andare d’accordo. Clausole, scadenze e interessi in conflitto con chi vorrebbe maglie tatuate sulla pelle di idoli presenti e futuri.

Chi non è stato sulla luna nell’ultima settimana, avrà sentito parlare del caso Donnarumma. Per gli altri , basti sapere che il portiere del Milan, classe ’99, ha rifiutato il rinnovo del contratto – in scadenza a giugno 2018 – con i rossoneri e adesso rischia di passare una stagione da separato in casa.

In tanti si sono fatti un’idea. La maggioranza si è rumorosamente schierata contro il giocatore, reo di aver tradito la fiducia della società che lo ha lanciato. Sui social, l’immagine più rilanciata è stata quella dell’ormai celebre bacio alla maglia rossonera dopo la sconfitta contro la Juventus a Torino. Donnarumma come Giuda, ma anche come Higuain, Pjanic o Ibrahimovic. Mercenari, secondo il popolo. Professionisti, secondo i custodi delle loro gesta. Ossia i procuratori.

Tra questi svetta Mino Raiola, l’agente di Gigio Donnarumma. La sua parabola è quella dell’uomo che si è fatto da solo. Da cameriere in una pizzeria di famiglia ad Haarlem, sobborgo di Amsterdam, a principe degli intermediari calcistici. Ha cominciato all’inizio degli anni ’90 portando l’olandese Brian Roy al Foggia e in un quarto di secolo ha costruito un impero. Si calcola che abbia incassato 500 milioni di euro di commissioni. La scorsa estate ha portato Pogba al Manchester United. Un trasferimento costato agli inglesi 105 milioni di euro. Tutti soldi nelle casse della Juve? Neanche per sogno. Raiola ha avuto la sua parte, sia dalla Juve, sia dal Manchester, sia dal giocatore.

I bianconeri, in virtù di un accordo siglato con l’agente poche settimane prima che Pogba lasciasse Torino, hanno girato a Raiola 27 milioni di euro. Il Manchester ha dovuto aggiungere alla spesa altri 19 milioni, pagabili in 5 scomode rate entro settembre 2020. E infine la stella francese ha versato a Mino circa 2 milioni e mezzo, una percentuale fra il 10 e il 15% del suo ingaggio.

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Cruijff e Coster insieme

Ora però basta cifre. Chiediamoci quando è iniziato tutto questo e perché. Il primo procuratore che il calcio ricordi è Cor Coster. Vi dice niente il suo nome? Non credo. Quello del suo assistito invece lo sapete di sicuro: Johann Cruijff. È il 1968. L’asso dell’Ajax sta discutendo il suo contratto con la dirigenza. Più che un calciatore, Johann è un artista. Difficile che abbia dimestichezza anche con gli affari venali. Meglio farsi aiutare allora da qualcuno che per lavoro commercia pietre preziose. Uno che qualche anno dopo sarebbe diventato anche suo suocero. Un uomo che, come Raiola, ha iniziato dal niente, vendendo orologi importati dalla Svizzera nel mercato delle pulci di Amsterdam. Coster, contro il volere dei dirigenti olandesi, tratta al posto del calciatore. Nell’anno delle rivoluzioni più o meno realizzate, nasce così un nuovo mestiere.

L’Italia resiste ancora un decennio, prima di scoprire questa figura nel ’77, altro anno caldo nelle strade. Curiosamente, il primo calciatore italiano ad affidarsi a un procuratore è uno di quelli che verranno sempre ricordati con una maglia incollata alla pelle: Giancarlo Antognoni. Il suo agente si chiama Antonio Caliendo e di lavoro fa l’editore di manuali sportivi. Qualche anno dopo gestirà il trasferimento alla Juve dell’erede di Antognoni a Firenze: Roberto Baggio. Ma il divin codino non è certo il suo unico gioiello. Mentre Raiola si divide ancora fra pizzeria e campi di periferia, Caliendo ha già il mondo del calcio ai suoi piedi. Nella finale di Coppa del Mondo di Italia ’90, gestisce 12 dei 22 calciatori in campo. Oggi ha 73 anni e nei giorni scorsi, il suo nome è tornato d’attualità per una curiosa vicenda legata al Modena calcio. Ma di questo parleremo un’altra volta.

donnarumma.milan.mano.sul.cuore.2016.2017.1080x648La domanda di oggi è perché Donnarumma ascolta solo Mino Raiola? E perché chiude la porta al club tifato da bambino e che gli offre un contratto da 5 milioni all’anno? La risposta è nella mente del portiere ma forse è la risposta data da tanti altri calciatori. È la risposta alla domanda “chi ha creduto prima in me”. Perché ammesso e non concesso che si voglia ricondurre la scelta di Donnarumma a questioni etiche, bisogna anche considerare questo aspetto. Da Castellamare di Stabia a San Siro, la strada è lunga. E se il punto di partenza era immutabile, la destinazione poteva essere un’altra qualsiasi. Tante società si erano interessate a quel giovane portiere del Club Napoli. Gli osservatori avevano scritto tanto su quel ragazzone che faceva ancora le medie e oscurava già lo specchio della porta. Gente competente ma disarmata. Prestigiosi e velleitari come ministri senza portafoglio. Per lasciare la propria casa, la famiglia di un quattordicenne ha bisogno di garanzie maggiori. E in questo contesto, i procuratori arrivano sempre prima e con maggiore efficacia rispetto ai club.

Quando Donnarumma firma nell’agosto del 2013 il primo contratto col Milan, non è solo un bimbo di 14 anni. È già un prodotto della scuderia Raiola. Vincenzo, il cugino di Mino, ha già ottenuto la fiducia del signor Alfonso, falegname e padre di Gigio. Affidarsi a loro, finora, ha dato i frutti sperati. Quattro anni dopo, al momento di doversi fidare di qualcuno, i Donnarumma hanno scelto i Raiola. Perché il Milan di oggi non è lo stesso che lo ha scelto. Solo il tempo dirà se migliore o peggiore, ma gli interlocutori di sicuro non sono più gli stessi. E quelli di adesso non hanno la fiducia di Vincenzo e Mino. Che invece sono sempre i due che hanno bussato alla loro porta.  Girare loro le spalle, è difficile se non impossibile.

È questo che la gente fatica a capire dell’agente. Il giocatore, soprattutto se è un potenziale campione, viene cresciuto più dal procuratore che dalla società. Come un Tamagotchi. L’agente rivendica la sua paternità sportiva. Finché il sistema non cambierà, un diciottenne, se proprio deve avere un debito di riconoscenza con qualcuno, ce l’avrà con chi lo ha tirato fuori dal nulla. Per il tifoso è sempre la società, ma il calciatore sa che il più delle volte è il procuratore. E questi è così potente nel calcio di oggi, perché le società sono sempre più impotenti. Soprattutto nella scoperta e nella gestione degli atleti. Perché il cartellino vale meno di una scadenza sul contratto. I giovani diventano professionisti sempre prima e come tali devono essere trattati. Escludendo i sentimenti e pensando ai risultati. Le storie come quella di Francesco Totti ci fanno piangere perché sono uniche ed eccezionali, ma non sono necessariamente un modello. 

La scelta di Donnarumma sembra incomprensibile agli occhi della gente. La squadra della tua infanzia e la possibilità di diventare una bandiera. Infanzia e possibilità. Sogni e romanticismo. È quello che piace alla gente. Ma di sicuro non è quello che cerca l’agente. Che è stato il primo – ricordiamolo – a rendere reale il sogno di quel bambino. E se oggi quella persona dice che bisogna spostare il sogno su una dimensione ancora più grande, forse il bambino di ieri si convince che è ora di cambiare prospettiva. Magari pentendosi di un bacio dato troppo in fretta. Di un gesto che ora ferisce chi lo ha ritenuto il preludio di un’ eterna monogamia. Ma a 18 anni è normale fare cose senza pensare. Anche quando si ha la fortuna di essere predestinati. Poi certo, la ragazza del primo bacio non verrà mai dimenticata. È stato  un amore puro, ingenuo e disinteressato. Ma se non sei Francesco Totti, quel bacio è destinato a finire nei ricordi. E anche la ragazza troverà qualcuno che, almeno per un po’, la farà sentire di nuovo irresistibile. Con l’illusione di una nuova monogamia.

Donnarumma non ha tradito il suo sogno. Non ha tradito Raiola, che lo ha guidato fin dall’inizio convincendolo di poter vincere il Pallone d’oro. Ha tradito l’idea collettiva che potesse essere il nuovo Francesco Totti. Non lo sarà. Ma forse non ha mai voluto esserlo. E non può essergliene fatta una colpa.  Di amori come quello di Totti e la Roma non ne vivremo più probabilmente. Per questo piangevano tutti quel giorno. Per questo alcuni di loro oggi insultano Donnarumma, simbolo – a loro dire – d’ingratitudine e superficialità. Un giorno forse si renderanno conto che la vera illusione è stata pretendere una fedeltà simile da uno studente fuori sede. Uno che sogna di vincere e di guadagnare. Proprio come fanno tutti i lavoratori. Liberi di non amarlo e anche di contestarlo. Ma senza eccedere. In fondo un professionista è normale che sia, almeno un po’, un mercenario. 

Società, calciatori, procuratori. Ognuno fa il suo gioco. L’importante è che ci sia un arbitro all’altezza. Qualcuno che riscriva alcune regole, innalzando i premi di formazione. Uno che non tolleri in alcun modo entrate assassine sui vivai., il bene supremo da tutelare. Il mondo di mezzo in cui si trovano tutti e da cui tutto inizia. 

Lettera di un pallone a Francesco Totti

totti-da-facebook-champions-leagueCiao Francesco,

come va senza di me? Ok, non fare quella faccia. È una domanda stupida, hai ragione. Lo so che ti manco. Domenica me l’hai scritto pure addosso con un pennarello, prima di calciarmi lontano, fra le braccia di chi ci ha amato più forte.

Mamma mia quanto piangevi Francé. Con me vicino, non ti avevo mai visto versare tutte quelle lacrime. Altre volte, in quello stadio, il tuo stadio, eri stato sul punto di crollare.

CALCIO: LAZIO PAZZA GIOIA COPPA ITALIA,ROMA ANNO NERO

26 maggio 2013. Finale Coppa Italia. Lazio-Roma 1-0 (da ForzaRoma.info)

Il 26 maggio di quattro anni fa, per esempio. Il derby perso più doloroso, quello che valeva un trofeo. La Coppa Italia “alzata in faccia” dai laziali, mentre nascondevi la tua fra le mani. Non avevi niente di cui vergognarti. Eri stato l’unico a trattarmi con rispetto, fantasia e volontà. L’ultimo ad arrendersi.

Non ti avevo visto così neanche il 25 aprile del 2010, il giorno in cui Pazzini mi mise due volte alle spalle di Julio Sergio. Credimi, quella domenica avrei preferito sbattere su un palo che finire la mia corsa in rete, sotto la Nord. Ma io non posso decidere dove andare. Sono solo uno strumento fra i piedi degli altri. Roma-Sampdoria 1-2. Fine del sogno scudetto, dopo una rimonta incredibile all’Inter di Mourinho.

Una volta avevi pianto di brutto, me lo ricordo. Dopo Roma-Arsenal nel 2009, ottavi di Champions. Eliminati ai rigori. “Solo chi è romanista come me sa che si può anche piangere per questa maglia”, dicesti a fine partita. Io sono di tutti, ma sappi che l’ho capito comunque.

Mannaggia Francé, quante ne abbiamo passate insieme. Tu sempre con gli stessi colori, io sempre diversi. Ogni anno più sgargiante, più curato, ma alla fine sempre lo stesso. “Il tuo giocattolo preferito”, mi hai definito domenica, mentre passeggiavi per il campo. Senza sapere – per una volta – dove andare.

Gallinari

Prospero Gallinari

Nel ’77, quando ci siamo incontrati per la prima volta, la gente si sparava nelle strade di Roma. Più pallottole che palloni. Fascisti contro comunisti. Tu iniziavi a farmi rotolare, altri smettevano di farlo. Alcuni per sempre, anche se erano solo ragazzi. Erano anni difficili quelli. Il 24 settembre del 1979, due brigatisti, Mara Nanni e Prospero Gallinari, venivano rintracciati e arrestati a via Vetulonia. Sotto casa tua Francé, nella strada dove sei nato. Erano fra i responsabili del sequestro Moro. Tre giorni dopo avresti compiuto tre anni, che ne dovevi sapere delle Brigate Rosse… Le hai scoperte così, col rumore degli spari e le chiazze di sangue sul marciapiede, mentre mamma Fiorella ti tappava le orecchie.

Forse quei colpi ti hanno avvicinato ancora di più a me. E io ti ho aiutato a stare lontano da guai e cattive compagnie. Da grande, visitando Adriano Sofri nel carcere di Regina Coeli, gli hai confidato che forse saresti stato lì anche tu, se non ci fossi stato io. Ci credo poco. Timido com’eri, non ti saresti mai messo in certi giri. Papà Enzo non lo avrebbe mai permesso. Lui ci aveva provato tanto a coccolarmi. Da ragazzino sognava di avermi sempre tra i piedi con la maglia della Roma addosso. Ma il suo tocco non aveva niente a che fare col tuo. Anzi. Ogni volta che giocava a Piazza San Cosimato, a Trastevere,  perdeva e pagava da bere a tutti. Poi sei arrivato tu.

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Francesco a 11 anni

Negli anni ’80 eri sempre in mezzo a un campetto improvvisato. Quattro giacche o due cartelle a fare da pali e via. Eravamo sempre i più piccoli. Nessuno ti voleva in squadra. E alla fine rimanevamo sempre io e te, al momento dell’ultima scelta. “Palla o ragazzino?”. Poi diventavamo una cosa sola e volevano rifare tutto daccapo. Enzo sorrideva, a due passi da te. Come un uomo che guarda il suo bambino aprire il libro delle favole. Era appena iniziata, non poteva immaginare quanto sarebbe arrivata lontana. Restando cosi incredibilmente vicina.

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Gli inizi a Trigoria

Nell’89 hai cominciato a prendermi a calci a Trigoria. Primi sogni realizzati. Per qualche anno mi hai raccolto a bordo campo all’Olimpico. All’intervallo ti mettevi a giocare e già incantavi, in attesa del tuo momento. Che sarebbe arrivato, poco tempo dopo. Era il 28 marzo del 1993, Brescia-Roma. Io ero tutto bianco, come usava una volta. Tu in rosso, con un po’ di giallo. Sulle spalle il numero 16. Ci siamo solo annusati quel giorno. Sei entrato tardi, a partita decisa, al posto di Rizzitelli.

Quello che è successo dopo lo sanno tutti. O magari lo sappiamo solo io e te. Trecentosette volte sono finito alle spalle di un portiere avversario. Di destro, di sinistro, di testa. Mi hai colpito in ogni modo. Il tuo piede ha saputo essere ferro, ma anche piuma.  Quel cucchiaio magico era la tua carezza più dolce. Il tuo modo per dirmi quanto mi volevi bene. Ci sono cascati in Olanda, ancora se lo sognano a San Siro. Una volta, in un Roma-Juve di quattro anni fa mi hai scagliato a 113 chilometri all’ora. Buffon manco mi ha visto. Ed eri già mezzo vecchio Francé… Dai oh, scherzo, lo so che sei permaloso. Lo dice sempre Ilary, l’unica che hai amato più di me. Ah no, ci sono anche Chanel, Isabel e Christian. E questo ragazzino, con me tra i piedi, è sicuramente meglio di suo nonno.

gettyimages-689446666Eravate belli domenica allo stadio. Io una famiglia non l’ho mai avuta, non so neanche dove sono nato e forse è meglio che non sappia chi sono i miei genitori. E soprattutto è meglio che non lo sappiano milioni di bambini.

Domenica però anch’io mi sono sentito tuo figlio. In un momento preciso. Eri entrato da poco al posto di Salah. A un certo punto un difensore del Genoa mi respinge verso la trequarti. Arrivo dall’alto, verso di te. Potresti appoggiarmi di testa, invece t’inarchi in avanti. Atterro docilmente sulla tua schiena e scivolo indietro verso un tuo compagno. Non so perché, ma non riesco a rimuoverlo. Un gesto da padre, di quelli che fate per divertire e per essere dolci. Mi hai stupito ancora una volta. E ho tifato per te. Per tutti i 40 minuti che sei stato in campo, ho sperato che mi buttassi in porta. Lì nella rete a guardarti correre sotto la Sud per l’ultima volta.

totti.roma.2016.palleggio.750x450Qualcuno alla fine l’ha fatto per te e un’oretta dopo ci siamo salutati comunque là, davanti a chi ci ha seguito sempre. Non hai avuto il coraggio di guardarmi. Ti capisco. Neanch’io ce l’avevo. Sono finito in buone mani, quelle di un ragazzo che non mi venderebbe mai. A nessuna cifra. Solo perché sono io, solo perché mi ci hai spedito tu.

Un’ultima cosa, Francé. Io non te lo dico “mi mancherai”. Perché lontano dagli occhi della folla, lontano dalle telecamere, lontano dagli allenatori, dai presidenti, dall’Olimpico, da Trigoria, io e te non ci lasceremo mai. Abbiamo tutto il tempo per giocare. Come abbiamo sempre fatto. Benedetto tempo…

Grazie Francesco,

Il tuo giocattolo preferito.

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Francia-Romania: dalla poesia di Cioran a Les Ulis

euro-2016-sorteggiFinalmente si comincia. Per un mese tanti rapporti andranno in crisi. Molte donne troveranno amanti disinteressati al pallone. I divani diventeranno discariche e sui pavimenti di tutt’Europa il più esagitato o maldestro della compagnia rovescerà bevande. Diventeranno colla, perché “vabbè dai-lascia stare-tanto tra poco c’è l’intervallo”. 15 minuti in cui difficilmente qualcuno pulirà, a meno che il prematuro ingresso di una donna di casa non obblighi gli spettatori a una repentina verticalità. Voleranno stracci, ma il tempo asciuga le cose.

Cinquantuno partite, dal 10 giugno al 10 luglio. Da Francia-Romania alla finale. Si parte e si finisce a Parigi.  Ventiquattro squadre, semi-sconosciuti che in una manciata di minuti possono cambiare vita e carriera. Forse l’Europa non sarà mai davvero unita. Di sicuro l’Europeo unirà nuovamente i suoi singoli frammenti. Tutti contro tutti. Nella migliore tradizione del Vecchio Continente.

Ogni occasione sarà buona per scoprire qualcosa o qualcuno. A partire dalla gara inaugurale. Ecco allora qualche pillola su Francia-Romania. Divertitevi. E usate bicchieri di carta; l’uomo che cammina su pezzi di vetro avrà anche due anime come dice De Gregori, ma la vostra donna non esiterà a distruggerle entrambe

IL COLLEGAMENTO 

La Romania, dopo il 1945, venne inglobata nel blocco comunista. Vita dura per gli intellettuali. In molti scelsero di fuggire all’estero. Due su tutti: Emil Cioran e Mircea Eliade. Entrambi trovarono riparo a Parigi, dove ritroveranno Eugene Ionesco, vecchio amico dei tempi universitari. Per tutta la vita parleranno in rumeno tra loro, pur scrivendo memorabili pagine in francese. Un poeta, uno storico e un drammaturgo. Cioran è stato uno degli autori più scettici e pessimisti del XX secolo. Umori condivisi dal suo popolo originario in vista della sfida ai padroni di casa.

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Da sinistra Cioran, Ionesco, Eliade

IL PERSONAGGIO

A guidare i rumeni ci sarà Angel Iordanescu, l’allenatore più vincente della storia della Romania, condottiero della squadra che a Usa ’94 arrivò a un rigore dalle semifinali dopo aver battuto l’Argentina agli ottavi. La Svezia di Brolin infranse quel sogno. Nel 2007  i socialdemocratici rumeni decidono di candidare Iordanescu in senato. Viene eletto, ma a metà legislatura  contribuisce alla scissione del partito insieme a un gruppetto di senatori. Nasce “l’unione nazionale per il progresso della Romania”. Lui però si stanca presto dei banchi parlamentari. E nel 2014 torna sulla panchina della nazionale. Oggi affida i suoi sogni di gloria a Stanciu e Stancu.

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Iordanescu nel 2008 poco dopo essere stato eletto nel partito socialdemocratico

DA TENERE D’OCCHIO

Ci sono 120 milioni di motivi per dire Paul Pogba. Tanti quanti i soldi che il Real sembra essere pronto a versare alla Juventus per portarlo a Madrid. E allora diciamone un altro: Nicolae Stanciu, classe 1993, stellina dello Steaua Bucarest. Il (poco) talento della Romania passa dalle sue giocate. Su di lui c’è stato un vago interesse del Milan nei mesi scorsi. Aveva ancora il ciuccio in bocca quando ai mondiali americani Gheorge Hagi trascinava la Romania. Classe, fantasia e sfrontatezza ne fanno il primo erede credibile. Un numero 10 vero.

ORIGINI GIOCATORI

Sarà un Europeo multietnico e ovviamente la Francia è una delle squadre più dotate in questo senso. Nel ’98 vinse il mondiale con tanti figli delle colonie, oggi punta tutto su un centrocampo che parte dal Mali e dalla Guinea, origine delle famiglie Kanté e Pogba. La Romania invece è l’unica squadra di tutto l’Europeo ad avere una formazione strettamente autoctona, senza naturalizzati né seconde generazioni. Un terzo dei giocatori della nazionale francese provengono dall’Ile de France. Quasi metà dell’undici titolare di stasera è infatti cresciuto nell’area della capitale. Tutto il centrocampo, con Matuidi, Pogba e Kanté e due esterni di sinistra, uno difensivo (Evra) e l’altro offensivo (Martial). Curiosamente Martial ed Evra provengono dalla stessa banlieu, Les Ulis, poco più di ventimila abitanti a sud-ovest di Parigi. La stessa che ha visto nascere e crescere un certo Thierry Henry, campione del mondo nel ’98 a due passi da casa.

 

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I palazzoni di Les Ulis, terra di campioni e disagio

IL DATO

Poco talento ma tanta solidità. Nelle dieci partite di qualificazione alla fase finale, la Romania di Iordanescu ha subito solo due reti. Il fiorentino Tatarusanu in porta e il napoletano Chiriches al centro dells difesa danno ottime garanzie, tutte però da testare contro i vari Griezmann, Martial e Giroud, fischiatissimo dal pubblico francese nelle precedenti amichevoli.

FUORI DAL CAMPO

Il fantasma del terrorismo volteggia sull’Europeo. È inevitabile dopo i fatti del 13 novembre. Stesso teatro, misure di sicurezza impressionanti. A dirigerle sarà un uomo di 46 anni, Ziad Khoury, già ribattezzato Monsieu securitè. È l’unico che merita il tifo di tutti in quest’Europeo. Potrà contare su una rosa illimitata e avrà il dovere di non ostentarla troppo per far sì che sembri sempre una grande festa. La difesa di Deschamps, viste le assenze di Varane e Koscielny, non sarà perfetta. Quella di Khoury non potrà correre questo rischio.

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Ziad Khoury

Il male in campo. Da Marco Pannella a Marco Russ

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Giacinto Marco Pannella, morto giovedì 19 maggio all’età di 86 anni

Alla fine Marco se n’è andato. Aveva 86 anni, vissuti da Pannella. Giacinto, il suo primo nome, quello che i genitori gli avevano attribuito all’alba degli anni ’30 a Teramo, non lo identificava più da decenni. Era il nome di uno zio, noto teologo e sacerdote. Da quell’eredità onomastica si era “smarcato” rumorosamente, facendo dell’anticlericalismo una delle sue tante bandiere. Dietro ai suoi vessilli si erano uniti peccatori erranti e borghesi in cerca di redenzione, tossici e pentiti di vario genere, dai reati, ai matrimoni, alle gravidanze. Aveva due tumori, uno ai polmoni e l’altro al fegato. Facevano a gara a chi l’avrebbe fatto fuori per primo. Uno dei due ha vinto e tutti hanno perso uno dei più grandi protagonisti del ‘900. Era normale che succedesse. Altan ha scritto che forse non è morto davvero, “ha solo iniziato uno sciopero della vita”.

Se n’è andato a 86 anni, fumando due pacchetti di Gauloises fino all’ultimo respiro. Se n’è andato così, dopo aver ricacciato nella palude migliaia di coccodrilli pronti da mesi. L’ultima resistenza serena di un’esistenza vorticosa. Pannella si era sempre battuto. Per quasi tutti contro quasi tutti. Per la libertà di sbagliare, di cambiare radicalmente lo scenario della propria vita senza doversi scusare con nessuno. Essere radicali, lontano dal radicalismo delle ideologie. Sempre nella stessa squadra, cambiando simboli e compagni di viaggio, ma rimanendo fragorosamente se stesso. Questa volta non ha lottato più di tanto. Il suo corpo, vilipeso e allo stesso tempo elevato a icona, si è arreso. È normale, a quell’età, dopo una vita straordinaria. Così è morto il difensore degli ultimi.

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Marco Russ, classe 1986, difensore dell’Eintracht Francoforte

Marco Russ invece non ha ancora trent’anni. Non fuma e non si batte per i diritti civili. È il difensore dei terz’ultimi della Bundesliga, l’Eintracht Francoforte. Ha sempre giocato lì, a parte una trascurabile e rapida esperienza al Wolfsburg. Non ha mai fatto uno sciopero della fame, nè un comizio. Anche lui fino a una settimana fa sapeva di dover lottare per salvarsi. Pensava che l’avversario fosse il Norimberga, terzo nella Zweite Liga, la serie B tedesca. In Germania, fanno così per stabilire l’ultimo posto in Bundesliga: terz’ultimi contro terzi, due categorie contro in un playoff. Andata e ritorno, Paradiso o Inferno.

Marco pensava che l’inferno fosse una retrocessione. Salvarsi dalla B. E lui è il capitano, l’uomo cui tutti guardano per uscire da un tunnel lungo 180 minuti, prima a Francoforte, poi a Norimberga. Ma pochi giorni prima della gara di andata, il difensore viene informato che c’è un’altra galleria ad aspettarlo. È stato trovato positivo all’antidoping il 30 aprile scorso dopo Darmstadt-Eintracht. Una gara vinta 2-1 in rimonta. Se lo ricorda quel giorno: era stanco, felice e tranquillo. Non aveva sostanze proibite da nascondere. E allora com’è possibile che sia positivo al doping? I risultati delle sue analisi danno valori folli. Un livello altissimo di Hcg, l’ormone della crescita. Troppo alto per essere doping. “Può essere qualcosa di peggio”, avvertono i medici. Le visite successive dicono che “quel qualcosa di peggio” è ciò che temevano. È un tumore ai testicoli. Marco Russ, capitano dell’Eintracht Francoforte, 29 anni e due figli, adesso sa da cosa deve salvarsi.

Dubito che il Marco di Francoforte abbia letto nelle scorse settimane una delle ultime interviste rilasciate dal Marco di Teramo. Il leader radicale sosteneva di continuare con la sua vita di sempre. “I tumori su di me non hanno effetto”, diceva Pannella a Emiliano Liuzzi. Un colpo al cuore avrebbe invece portato via, pochi giorni dopo, il suo intervistatore. Un giocatore come Russ sarebbe piaciuto al livornese Liuzzi: arcigno e tignoso come la gente della sua terra. Attaccato alla maglia e alla professione, nella buona e nella cattiva sorte. Non l’ha letta Russ quella pagina del Fatto Quotidiano, ma si comporta come se l’avesse fatto.

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Russ è capitano dell’Eintracht dal 2013

“I tumori su di me non hanno effetto”. Pannella raccontava una bugia, ma non del tutto. Il male, così invasivo e presente sul corpo, non doveva distoglierlo dagli obiettivi di una vita. Non doveva cambiare abitudini e attitudini. E fino alla fine ha giocato la sua partita. A Francoforte, mercoledì 18 maggio, un ragazzo più giovane di oltre mezzo secolo, col suo stesso nome e il suo identico avversario, decideva di non lasciarsi vincere. “Sto bene, posso giocare”, dice Russ a mister Nico Kovac, il suo allenatore. “Dobbiamo salvarci, voglio aiutare la squadra”. È quel “noi” che può salvarlo, in realtà. Quella voglia di continuare a mettersi il parastinchi, allacciarsi gli scarpini, fare uno scherzo al compagno accanto in spogliatoio. È il desiderio di non ricevere pacche sulle spalle e di non trovare volti commiserevoli. Marco vuole scendere in campo. La federazione, viste le straordinarie circostanze, non l’ha sospeso per la positività all’antidoping. All’Eintracht sono tutti d’accordo: il capitano gioca.

Unknown-1“I tumori su di me non hanno effetto”. Forse lo pensava davvero Marco Pannella nella sua casa di via della Panetteria, ma giovedì 19, alle 14:02, viene definitivamente smentito. Mancano sei ore alla partita della Commerzbank Arena di Francoforte. Russ è nella sua camera e pensa a che effetto gli farà entrare nel suo stadio per quella che potrebbe essere…no, questo non vuole pensarlo. Ma ci pensa, perché sarà anche un duro ma è pur sempre un uomo. Tutta la sicurezza che ha mostrato e trasmesso ai suoi compagni è lo scudo dietro al quale si nasconde. Quello che gli passa per la testa deve avere le sembianze di guerre stellari. Ma questo gli altri non possono né devono vederlo. Lo aspettano 50 mila tifosi là fuori. Hanno preparato uno striscione. C’è scritto: “Marco, lottare e vincere”. Sbrigativi, concisi. Tedeschi. Lo spread con il lirismo mediterraneo è evidente, ma quando il capitano sbuca dal tunnel, il boato è assordante. Sognano di vincere con un suo gol. Il romanticismo, anche se a volte non ce lo ricordiamo, l’hanno inventato loro.

Sarebbe una bella favola se la rete salvezza arrivasse proprio dall’uomo che dovrà salvarsi, ma Disney non passava da Francoforte quella sera. Anzi. Minuto 43 del primo tempo: un cross dalla trequarti di Sebastian Kerk, mancino del Norimberga, attraversa l’area dell’Eintracht. Vanno tutti a vuoto. Tutti tranne Marco Russ, che di destro infila il portiere. Il suo. Autogol. Le telecamere indugiano sul capitano dei padroni di casa. Chissà se vede e sente quello che succede intorno a lui. Fa per portarsi le mani sul volto, ma non finisce il gesto. Lo fanno i compagni accanto a lui, increduli, scioccati, sani. Marco ha sbagliato e lo sanno tutti. Lo sa anche lui. Nessuno lo rimprovera. È stato un eccesso di generosità, un autogol “radicale”. Intento lodevole, risultato da dimenticare. Il suo omonimo da lassù potrebbe raccontargliene di esperienze simili, di autoreti elettorali e di scelte sbagliate.

                                       Le azioni salienti della gara di andata Eintracht-Norimberga

Russ è frastornato, ma rientra in campo nella ripresa. Vorrebbe spaccare il mondo. Accelera, ma ha i freni rotti. Al 56′ cerca l’azione personale. Caparbia e sgangherata: un ritratto della sua vita da 48 ore. Perde palla e commette un duro fallo su Hanno Behrens, mediano avversario. Tutto troppo veloce per chi ha troppe cose a cui pensare. Chissà se si ricorda che era diffidato mentre l’arbitro gli sventola il cartellino giallo. Chissà cosa grida quando va a un centimetro dal naso del signor Daniel Siebert, 32 anni, professione studente. Lunedì 23 maggio, Russ non potrà giocare a Norimberga la gara di ritorno. Forse non avrebbe potuto farlo lo stesso. I medici avevano deciso di posticipare l’operazione al massimo a martedì 24. Magari li avrebbe convinti a spostarla ancora un paio di giorni. O forse aveva già deciso che non era più tempo per inseguire il pallone. Da guerriero è andato in battaglia, ma un padre di famiglia non può perdere la guerra.

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Marco Russ a fine partita con i due figli

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L’abbraccio tra Russ e Gacinovic

Alla fine comunque non perde neanche l’Eintracht. Il pareggio lo sigla Mijat Gacinovic. È il suo primo gol con la maglia dei rossoneri di Francoforte. L’ha indossata per 400 minuti in tutta la sua vita. Russ per oltre 21 mila. Quando l’arbitra fischia la fine, Marco non sa se ci saranno altri secondi per lui con quella divisa addosso. Non piange. Difficile che lo faccia un tedesco. Condivide e  sorride, perché una serena resistenza al male passa anche per la condivisione di attimi con le persone amate. Matteo Angioli e Laura Hurt sono stati gli angeli custodi di Pannella nei momenti di sofferenza più intima. Quelli di Marco Russ sono piccoli, inconsapevoli e biondissimi. I suoi figli, che lo accompagnano in uno struggente cammino verso gli spogliatoi. Ci saranno anche martedì fuori dalla sala operatoria, quando loro padre non avrà intorno 50 mila tifosi. E forse sarà retrocesso o doppiamente salvo.

Ma lotterà per tornare a “calpestare nuove aiuole”. Come il signor Hood, il Marco di Teramo, che lassù starà già combinando qualche casino.

                   Signor Hood di Francesco de Gregori. Dedicata a Marco Pannella. Era il 1975.