Due barricate divise da un apostrofo. L’agente da una parte, la gente dall’altra. Una minima differenza a livello lessicale, due mondi inconciliabili nell’approccio al calcio. Il procuratore e il tifoso, destinati per definizione a non andare d’accordo. Clausole, scadenze e interessi in conflitto con chi vorrebbe maglie tatuate sulla pelle di idoli presenti e futuri.
Chi non è stato sulla luna nell’ultima settimana, avrà sentito parlare del caso Donnarumma. Per gli altri , basti sapere che il portiere del Milan, classe ’99, ha rifiutato il rinnovo del contratto – in scadenza a giugno 2018 – con i rossoneri e adesso rischia di passare una stagione da separato in casa.
In tanti si sono fatti un’idea. La maggioranza si è rumorosamente schierata contro il giocatore, reo di aver tradito la fiducia della società che lo ha lanciato. Sui social, l’immagine più rilanciata è stata quella dell’ormai celebre bacio alla maglia rossonera dopo la sconfitta contro la Juventus a Torino. Donnarumma come Giuda, ma anche come Higuain, Pjanic o Ibrahimovic. Mercenari, secondo il popolo. Professionisti, secondo i custodi delle loro gesta. Ossia i procuratori.
Tra questi svetta Mino Raiola, l’agente di Gigio Donnarumma. La sua parabola è quella dell’uomo che si è fatto da solo. Da cameriere in una pizzeria di famiglia ad Haarlem, sobborgo di Amsterdam, a principe degli intermediari calcistici. Ha cominciato all’inizio degli anni ’90 portando l’olandese Brian Roy al Foggia e in un quarto di secolo ha costruito un impero. Si calcola che abbia incassato 500 milioni di euro di commissioni. La scorsa estate ha portato Pogba al Manchester United. Un trasferimento costato agli inglesi 105 milioni di euro. Tutti soldi nelle casse della Juve? Neanche per sogno. Raiola ha avuto la sua parte, sia dalla Juve, sia dal Manchester, sia dal giocatore.
I bianconeri, in virtù di un accordo siglato con l’agente poche settimane prima che Pogba lasciasse Torino, hanno girato a Raiola 27 milioni di euro. Il Manchester ha dovuto aggiungere alla spesa altri 19 milioni, pagabili in 5 scomode rate entro settembre 2020. E infine la stella francese ha versato a Mino circa 2 milioni e mezzo, una percentuale fra il 10 e il 15% del suo ingaggio.

Cruijff e Coster insieme
Ora però basta cifre. Chiediamoci quando è iniziato tutto questo e perché. Il primo procuratore che il calcio ricordi è Cor Coster. Vi dice niente il suo nome? Non credo. Quello del suo assistito invece lo sapete di sicuro: Johann Cruijff. È il 1968. L’asso dell’Ajax sta discutendo il suo contratto con la dirigenza. Più che un calciatore, Johann è un artista. Difficile che abbia dimestichezza anche con gli affari venali. Meglio farsi aiutare allora da qualcuno che per lavoro commercia pietre preziose. Uno che qualche anno dopo sarebbe diventato anche suo suocero. Un uomo che, come Raiola, ha iniziato dal niente, vendendo orologi importati dalla Svizzera nel mercato delle pulci di Amsterdam. Coster, contro il volere dei dirigenti olandesi, tratta al posto del calciatore. Nell’anno delle rivoluzioni più o meno realizzate, nasce così un nuovo mestiere.
L’Italia resiste ancora un decennio, prima di scoprire questa figura nel ’77, altro anno caldo nelle strade. Curiosamente, il primo calciatore italiano ad affidarsi a un procuratore è uno di quelli che verranno sempre ricordati con una maglia incollata alla pelle: Giancarlo Antognoni. Il suo agente si chiama Antonio Caliendo e di lavoro fa l’editore di manuali sportivi. Qualche anno dopo gestirà il trasferimento alla Juve dell’erede di Antognoni a Firenze: Roberto Baggio. Ma il divin codino non è certo il suo unico gioiello. Mentre Raiola si divide ancora fra pizzeria e campi di periferia, Caliendo ha già il mondo del calcio ai suoi piedi. Nella finale di Coppa del Mondo di Italia ’90, gestisce 12 dei 22 calciatori in campo. Oggi ha 73 anni e nei giorni scorsi, il suo nome è tornato d’attualità per una curiosa vicenda legata al Modena calcio. Ma di questo parleremo un’altra volta.
La domanda di oggi è perché Donnarumma ascolta solo Mino Raiola? E perché chiude la porta al club tifato da bambino e che gli offre un contratto da 5 milioni all’anno? La risposta è nella mente del portiere ma forse è la risposta data da tanti altri calciatori. È la risposta alla domanda “chi ha creduto prima in me”. Perché ammesso e non concesso che si voglia ricondurre la scelta di Donnarumma a questioni etiche, bisogna anche considerare questo aspetto. Da Castellamare di Stabia a San Siro, la strada è lunga. E se il punto di partenza era immutabile, la destinazione poteva essere un’altra qualsiasi. Tante società si erano interessate a quel giovane portiere del Club Napoli. Gli osservatori avevano scritto tanto su quel ragazzone che faceva ancora le medie e oscurava già lo specchio della porta. Gente competente ma disarmata. Prestigiosi e velleitari come ministri senza portafoglio. Per lasciare la propria casa, la famiglia di un quattordicenne ha bisogno di garanzie maggiori. E in questo contesto, i procuratori arrivano sempre prima e con maggiore efficacia rispetto ai club.
Quando Donnarumma firma nell’agosto del 2013 il primo contratto col Milan, non è solo un bimbo di 14 anni. È già un prodotto della scuderia Raiola. Vincenzo, il cugino di Mino, ha già ottenuto la fiducia del signor Alfonso, falegname e padre di Gigio. Affidarsi a loro, finora, ha dato i frutti sperati. Quattro anni dopo, al momento di doversi fidare di qualcuno, i Donnarumma hanno scelto i Raiola. Perché il Milan di oggi non è lo stesso che lo ha scelto. Solo il tempo dirà se migliore o peggiore, ma gli interlocutori di sicuro non sono più gli stessi. E quelli di adesso non hanno la fiducia di Vincenzo e Mino. Che invece sono sempre i due che hanno bussato alla loro porta. Girare loro le spalle, è difficile se non impossibile.
È questo che la gente fatica a capire dell’agente. Il giocatore, soprattutto se è un potenziale campione, viene cresciuto più dal procuratore che dalla società. Come un Tamagotchi. L’agente rivendica la sua paternità sportiva. Finché il sistema non cambierà, un diciottenne, se proprio deve avere un debito di riconoscenza con qualcuno, ce l’avrà con chi lo ha tirato fuori dal nulla. Per il tifoso è sempre la società, ma il calciatore sa che il più delle volte è il procuratore. E questi è così potente nel calcio di oggi, perché le società sono sempre più impotenti. Soprattutto nella scoperta e nella gestione degli atleti. Perché il cartellino vale meno di una scadenza sul contratto. I giovani diventano professionisti sempre prima e come tali devono essere trattati. Escludendo i sentimenti e pensando ai risultati. Le storie come quella di Francesco Totti ci fanno piangere perché sono uniche ed eccezionali, ma non sono necessariamente un modello.
La scelta di Donnarumma sembra incomprensibile agli occhi della gente. La squadra della tua infanzia e la possibilità di diventare una bandiera. Infanzia e possibilità. Sogni e romanticismo. È quello che piace alla gente. Ma di sicuro non è quello che cerca l’agente. Che è stato il primo – ricordiamolo – a rendere reale il sogno di quel bambino. E se oggi quella persona dice che bisogna spostare il sogno su una dimensione ancora più grande, forse il bambino di ieri si convince che è ora di cambiare prospettiva. Magari pentendosi di un bacio dato troppo in fretta. Di un gesto che ora ferisce chi lo ha ritenuto il preludio di un’ eterna monogamia. Ma a 18 anni è normale fare cose senza pensare. Anche quando si ha la fortuna di essere predestinati. Poi certo, la ragazza del primo bacio non verrà mai dimenticata. È stato un amore puro, ingenuo e disinteressato. Ma se non sei Francesco Totti, quel bacio è destinato a finire nei ricordi. E anche la ragazza troverà qualcuno che, almeno per un po’, la farà sentire di nuovo irresistibile. Con l’illusione di una nuova monogamia.
Donnarumma non ha tradito il suo sogno. Non ha tradito Raiola, che lo ha guidato fin dall’inizio convincendolo di poter vincere il Pallone d’oro. Ha tradito l’idea collettiva che potesse essere il nuovo Francesco Totti. Non lo sarà. Ma forse non ha mai voluto esserlo. E non può essergliene fatta una colpa. Di amori come quello di Totti e la Roma non ne vivremo più probabilmente. Per questo piangevano tutti quel giorno. Per questo alcuni di loro oggi insultano Donnarumma, simbolo – a loro dire – d’ingratitudine e superficialità. Un giorno forse si renderanno conto che la vera illusione è stata pretendere una fedeltà simile da uno studente fuori sede. Uno che sogna di vincere e di guadagnare. Proprio come fanno tutti i lavoratori. Liberi di non amarlo e anche di contestarlo. Ma senza eccedere. In fondo un professionista è normale che sia, almeno un po’, un mercenario.
Società, calciatori, procuratori. Ognuno fa il suo gioco. L’importante è che ci sia un arbitro all’altezza. Qualcuno che riscriva alcune regole, innalzando i premi di formazione. Uno che non tolleri in alcun modo entrate assassine sui vivai., il bene supremo da tutelare. Il mondo di mezzo in cui si trovano tutti e da cui tutto inizia.

Ciao Francesco,



Eravate belli domenica allo stadio. Io una famiglia non l’ho mai avuta, non so neanche dove sono nato e forse è meglio che non sappia chi sono i miei genitori. E soprattutto è meglio che non lo sappiano milioni di bambini.
Qualcuno alla fine l’ha fatto per te e un’oretta dopo ci siamo salutati comunque là, davanti a chi ci ha seguito sempre. Non hai avuto il coraggio di guardarmi. Ti capisco. Neanch’io ce l’avevo. Sono finito in buone mani, quelle di un ragazzo che non mi venderebbe mai. A nessuna cifra. Solo perché sono io, solo perché mi ci hai spedito tu.
Finalmente si comincia. Per un mese tanti rapporti andranno in crisi. Molte donne troveranno amanti disinteressati al pallone. I divani diventeranno discariche e sui pavimenti di tutt’Europa il più esagitato o maldestro della compagnia rovescerà bevande. Diventeranno colla, perché “vabbè dai-lascia stare-tanto tra poco c’è l’intervallo”. 15 minuti in cui difficilmente qualcuno pulirà, a meno che il prematuro ingresso di una donna di casa non obblighi gli spettatori a una repentina verticalità. Voleranno stracci, ma il tempo asciuga le cose.






“I tumori su di me non hanno effetto”. Forse lo pensava davvero Marco Pannella nella sua casa di via della Panetteria, ma giovedì 19, alle 14:02, viene definitivamente smentito. Mancano sei ore alla partita della Commerzbank Arena di Francoforte. Russ è nella sua camera e pensa a che effetto gli farà entrare nel suo stadio per quella che potrebbe essere…no, questo non vuole pensarlo. Ma ci pensa, perché sarà anche un duro ma è pur sempre un uomo. Tutta la sicurezza che ha mostrato e trasmesso ai suoi compagni è lo scudo dietro al quale si nasconde. Quello che gli passa per la testa deve avere le sembianze di guerre stellari. Ma questo gli altri non possono né devono vederlo. Lo aspettano 50 mila tifosi là fuori. Hanno preparato uno striscione. C’è scritto: “Marco, lottare e vincere”. Sbrigativi, concisi. Tedeschi. Lo spread con il lirismo mediterraneo è evidente, ma quando il capitano sbuca dal tunnel, il boato è assordante. Sognano di vincere con un suo gol. Il romanticismo, anche se a volte non ce lo ricordiamo, l’hanno inventato loro.


















Ma per smuovere una carovana simile dall’Italia (e tanti mezzi privati) ci voleva una “connection” speciale. “Ranieri, oh oh, Ranieri, oh oh oh. He came from Italy, to manage this city”, canta l’esercito tricolore dalle mille divise. Le note di Nel blu dipinto di blu per un’ode al condottiero che a 64 anni arriva in porto con un vascello di fortuna. Ha solcato mille mari e spesso è naufragato.
Ha sempre trovato un altro timone e un nuovo equipaggio. In viaggio, fino alla terra promessa.



Dopo il triplice fischio, inizia un’altra partita, quella dei tifosi temerari che tentano la disperata corsa sul terreno di gioco. In fuga dagli steward, in cerca di dieci secondi di gridata libertà. A giudicare dal modo in cui vengono bloccati, i tre che ci riescono si pentiranno a lungo del loro coraggio. Sul campo è il momento della coppa alzata al cielo da Wes Morgan. Un trofeo disegnato proprio, scherzi di un anno incredibile proprio da un gioielliere di Leicester, il 52enne di Paul Marsden. Esplodono i fuochi d’artificio e schizzano le stelle filanti. Tutti gridano un improbabile “champeones, champeones, olè, olè”, una specie di neolingua che neanche Robert, cui mi rivolgo in veste di professore di Cambridge, sa spiegarmi. Perché cantano così non lo saprò mai, ma anch’io mi ritrovo a gridarlo al cielo di Leicester. Quando le divisioni linguistiche tornano ad avere una logica, gli altoparlanti diffondono un classico e intramontabile “We are the champions”. Da brividi, come sempre, molto più di sempre.


Ci buttiamo in centro, fra macchinate ignoranti, striscioni in italiano, persone che camminano su taxi che strombazzano festosi e incuranti. È un delirio di popolo. E la notte continua così, fra nuove facce incontrate per strada, come Duncan e Ken, miei migliori amici per due ore nei club di Les-tah. Ormai non mi presento neanche più come giornalista. “Hi, I’m Claudio, I come from Italy and I’m just a fan”. Qui i miei ricordi sono un lungo piano sequenza di abbracci, cori, bandiere, italiani a caccia della bomberata in zona Cesarini e inglesi in cerca dell’ultima goccia. Robert l’ho perso. Ho il telefono spento e nessuna probabilità di ritrovarlo. Il giorno dopo scopriremo di essere ancora vivi per telefono. Mentre la gente comincia a defluire, un tifoso si arrampica sulla colonna dell’orologio nella piazza principale. Nessuno capisce cosa voglia fare. Credo, ma forse era l’alcool, che volesse fermare il tempo. Penso ancora che tutti abbiano sperato che ci riuscisse. E sicuramente vado a letto con la convinzione che l’abbia fatto. Apro gli occhi e sono a Earl Shilton. Sono le 14:35. Il volo per l’Italia era alle 15. Non so se mentre mi perdevo nella festa avevo già deciso di perderlo. Chi se ne frega. I voli si ricomprano. Le emozioni non tornano. Leicester, mia Disneyland, non ti dimenticherò mai.


















