Trieste, una città che torna a sognare. Dal fallimento alla rinascita. Il Ds Milanese: “Pian pianino torneremo grandi”

Più che un club. A Barcellona lo hanno scritto sui seggiolini del Camp Nou. A Trieste, la squadra della città ce l’hanno tatuata nell’anima.

Da sempre. Perché la Triestina è un’icona che va oltre il campo. Negli anni 30 Umberto Saba, uno dei più grandi poeti del ‘900, le dedicava versi indimenticabili: “Trepido seguo il vostro gioco. Ignari esprimete con quello antiche cose meravigliose sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari soli d’inverno”. Squadra paesana. Così si chiamava la poesia di Saba, spettatore e cantore degli alabardati dagli spalti. Un impianto conosciuto oggi come “Grezar”, mediano del Grande Torino morto a Superga.

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Mauro Milanese, una carriera di battaglie nel massimo campionato e un presente da amministratore unico del club che lo ha lanciato. Adesso è lui a guidare la rinascita della Trieste del pallone. Oggi in serie C, domani chissà. “Quando sono arrivato non avevamo neanche un pallone”, racconta Milanese a gianlucadimarzio.com“La squadra era terzultima in serie D, a un passo dall’Eccellenza e a due dalla scomparsa. Io e mio cugino abbiamo deciso che una storia così gloriosa non poteva finire in quel modo”.

Mario Biasin, nato dove soffia la bora ed emigrato in Australia in giovane età. Dall’altra parte del mondo ha fatto fortune nel settore immobiliare. Là vende 5500 ville all’anno, ma non ha mai dimenticato la sua “casa”. E quando si è presentata l’occasione, ha teso la mano alla città. “Parla inglese e il dialetto giuliano. Quando giocavo qui, veniva sempre a vedere le partite. Ricordava i 20mila del “Nereo Rocco” in C1”. Erano gli anni ’90. La Triestina negli anni successivi avrebbe riassaggiato la B, per poi cadere in un vortice, tra retrocessioni e fallimenti. “Qualche anno fa, Mario è tornato e ha trovato il vuoto. Ci siamo parlati, mi ha chiesto quanto sarebbe costato. In Australia aveva preso il Melbourne Victory. L’aveva portato da 100 abbonati a 28 mila. Voleva fare lo stesso, nella sua città. L’aveva lasciata portando tutto quello che aveva in un baule. Un viaggio per mare di 42 giorni con i suoi genitori. Lui sa cosa vuol dire partire dal niente…”.

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E così sono partiti. Un’asta vinta in tribunale, una salvezza immediata e una promozione ai playoff nell’anno successivo. “Abbiamo festeggiato due volte sul campo. Rimanere nei professionisti era fondamentale, per dare seguito al nostro progetto. Appena presa la società – aprile 2016 – dissi che sarei voluto arrivare in B in cinque anni. Direi che siamo perfettamente in linea con gli obiettivi iniziali”. Oggi la squadra è sesta nel girone B, in piena zona playoff. Niente male per un gruppo completamente ricostruito in estate. “Abbiamo l’attacco migliore del girone. La nostra punta centrale Arma e l’esterno Mensah stanno dando un contributo importante ma anche Petrella, pur giocando meno, ha già saputo essere decisivo”. L’ultima volta nello scorso weekend: una sua doppietta ha steso il FeralpiSalò. “Viene da Teramo, è giovane e ha grandi qualità nello stretto. Specialmente contro le squadre che si chiudono, il suo talento è fondamentale per scardinare le difese avversarie”.

Una squadra che ha fatto tornare l’entusiasmo sulle tribune di un “Nereo Rocco” che ha una media di 5mila spettatori. Triestini che tornano ad affollare il loro stadio, anche per tifare un loro concittadino che sulla fascia sinistra sta facendo un ottimo campionato. “Abbiamo avuto diversi infortuni in difesa e questo ci ha consentito di lanciare Luca Pizzul, ragazzo triestino del ’99. E’ partito quasi sempre titolare e sta dimostrando tutto il suo valore. L’allenatore crede molto in lui”.

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E che allenatore. Forse il vero top player della squadra giuliana: Giuseppe Sannino. Ultimo allenatore di Milanese a Varese e punto centrale della rinascita del club. “Con lui ho un rapporto speciale. È un amico e con lui non litigherò mai per faccende calcistiche. È stata una scelta mirata, perché spero sempre in un percorso umano parallelo a quello sportivo. Sta dando una grande organizzazione alla squadra, giochiamo un calcio aggressivo e la gente si diverte. Vedere tornare la gente allo stadio con la nostra divisa è qualcosa che mi riempie il cuore”.

Una società risanata, un amore rinato. E una favola da iniziare a tramandare ai più piccoli. Abbiamo ricostruito il settore giovanile. Quando sono arrivato facevamo fatica a mettere in piedi una squadra. Oggi ne abbiamo 19. Con l’aiuto dell’amministrazione, vogliamo costruire un centro sportivo nostro per lasciare una traccia eternamente tangibile del nostro passaggio. Cominciando dal vivaio. Io sono partito da lì, ho giocato sia al Grezar che al Rocco. Un ragazzo triestino deve crescere sentendo sua questa maglia”.

Portare quella divisa sulle spalle significa portarsi dietro un secolo di storia. Sì, perché il 2018 sarà l’anno del centenario. Cento anni di Unione Sportiva Triestina da celebrare a dovere. “Abbiamo previsto molte iniziative. Alcuni writers stanno raffigurando sui muri dello stadio le icone della nostra storia.

Inizieremo il 18 dicembre e andremo avanti per un anno”. E chissà dove sarà a quel punto la sua squadra. “Ci proveremo già quest’anno. Abbiamo vinto a Vicenza e Pordenone, dimostrando di potercela giocare con tutti. L’obiettivo è arrivare ai playoff. Al mercato di gennaio proveremo a sistemare piccoli dettagli. Soprattutto in difesa, dove si sono concentrati gli infortuni. Mori doveva essere il nostro leader difensivo e non lo abbiamo mai avuto, Grillo ha avuto diversi acciacchi. Ma non faremo rivoluzioni o passi più lunghi della gamba. Pian pianin ma sempre diritto, questo è il nostro motto”.

Trieste vuole tornare grande. E riempire di nuovo il suo stadio, che nel giugno 2019 ospiterà alcune gare dell’Europeo under 21“Un’ulteriore dimostrazione di forza della nostra società e della buona collaborazione con le istituzioni locali. Sarà l’occasione per rifare il look a un impianto già bellissimo e che vogliamo rivedere pieno”.

Come una volta. Un lungo percorso iniziato da venti mesi. Saba era il poeta delle Scorciatoie, brevi componimenti capaci di giungere a conclusioni lontane e sorprendenti. Come una promozione in B partendo dal niente. Se dovesse succedere, da lassù sarebbe fiero della sua “squadra paesana”.

Cesidio Oddi, il portiere che segnò due volte: “Quel giorno che feci doppietta contro il Cagliari…”

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I tifosi di Benevento non dimenticheranno mai quella sequenza. Quei pochi secondi che separano rassegnazione e speranza, incredulità e gioia. Testimoni della storia e della favola di Alberto Brignoli. Un aneddoto da tramandare. Perché tra trent’anni, di questo gol, forse si parlerà ancora. Momenti destinati a restare, come quel 6 marzo 1988 a Nocera: il giorno in cui Cesidio Oddi, portiere dei padroni di casa, firmò addirittura una doppietta. Nessuno in Italia lo ha mai eguagliato.

“Mi ricordo bene quella partita, come potrei dimenticarla?”, racconta Oddi al microfono di gianlucadimarzio.com. “Giocavamo contro il Cagliari, campionato di C1 girone B. Ed era una partita fondamentale”. Sesta giornata di ritorno, Nocerina in piena zona retrocessione, vittima soprattutto dei problemi societari che l’anno successivo l’avrebbero condannata al fallimento. Il portiere, classe 1956, era uno degli elementi più esperti. “Ci giocavamo la salvezza. La situazione economica era difficile, c’era molta tensione. La gente ci apprezzava, ma non era semplice mantenersi freddi”.

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Il sostegno del pubblico andava oltre il tifo allo stadio: gli abitanti della città si erano tassati per consentire l’iscrizione della società, messa in mora d’estate. Commoventi. Il giorno della gara contro il Cagliari, erano in 5mila allo stadio “San Francesco”, spettatori di un evento unico. “A metà primo tempo ci assegnarono un rigore. Da qualche settimana, il nostro allenatore aveva deciso che sarei stato il rigorista della squadra. Si fidava della mia freddezza”. Un errore dal dischetto di Gaetano Musella, stella di quella Nocerina e assente contro i sardi, aveva determinato una sconfitta a Frosinone nelle settimane precedenti. La tecnica doveva lasciare il posto alla personalità e Oddi era la persona giusta, come ricorda per noi l’uomo che prese quella decisione, Vincenzo Montefusco. “Era bravissimo a tirarli. Un bel destro e nessuna paura. In settimana si allenava anche da giocatore di movimento. Era difficile a quei tempi vedere un portiere bravo con i piedi. Lui lo era, ma scelsi di far tirare lui per la testa. Sui rigori, come
nelle scelte di un allenatore, serve decisione. Quando giocavo nel Napoli con Altafini, sul dischetto andava Improta, meno tecnico ma sempre affidabile. Oddi aveva quelle doti, quindi toccava a lui”.

Restava solo da attraversare il campo. “Percorrevo quei metri sicuro di me – ricorda il portiere – ma per un attimo pensai a cosa sarebbe successo se lo avesse parato. Giusto un momento, perché mi ero allenato per quella situazione e mi sentivo pronto”. A undici metri da lui, Mario Ielpo difendeva la porta del Cagliari. Ha fatto le giovanili alla Lazio. Per Oddi, cresciuto nella Roma, è un deja vu. “Il mio primo rigore da portiere l’avevo tirato a 13 anni in un derby della categoria Allievi. Segnandolo”. In area insieme a loro c’è l’arbitro Trinchieri, romano. Cerchio che si chiude, fischio, gol. “Tirai una botta secca da una parte, perché vidi un suo movimento anticipato. Facile. Il secondo invece un po’ meno…”.

Nella ripresa infatti, a pochi minuti dal termine, il destino bussò di nuovo alla porta di Oddi. Secondo rigore. Un altro campo da attraversare, questa volta per chiudere i conti. “Eravamo in vantaggio 2-1. Il Cagliari ci aveva messo alle strette. Tornai sul dischetto. Ielpo non faceva una piega, fermo sulla riga. Intuì la direzione, la sfiorò, ma per fortuna non la prese”. Finì con la gente di Nocera a portarlo in trionfo e con una dedica speciale al suo alano Bambulè, fedele compagno durante gli allenamenti. Ielpo invece si sarebbe consolato col tempo, laureandosi, sei anni dopo, campione d’Europa con il Milan. La Nocerina non ebbe più rigori a favore in quella stagione e retrocesse in uno spareggio a Cosenza contro il Catania e poche settimane dopo fu dichiarato il fallimento. Oddi se ne andò a Ravenna, stessa categoria. “Anche lì segnai un rigore. Contro la Virescit a Bergamo. E nella stessa partita ne parai anche un altro…”.

Poi chiuse la carriera a Cerveteri, nel modo più ironico e crudele: errore all’ultimo penalty dello spareggio contro la Juve Stabia per la permanenza in C2. “Resta un po’ il dispiacere ma purtroppo in questo sport qualche rimpianto c’è sempre. Come quello di aver giocato la maggior parte della carriera su una gamba sola. Quando giocavo nel Palermo, mi distrussi la sinistra a Bari in uno scontro con Aldo Serena. Sono stato fermo un anno, fosse stata l’altra gamba sarebbe stato peggio”. Gli resta magari un po’ di rammarico per non aver mai trovato un gol su azione, come Brignoli. “Sono andato qualche volta a saltare sui corner ma non è mai arrivata la palla buona. Peccato, sarebbe stata una bella emozione”.

Oggi ha 61 anni e allena sul litorale romano tutti i portieri del Ladispoli, dalla prima squadra ai giovanissimi. “Ma non ho mai scelto rigoristi tra di loro, forse sono più tradizionalista di Montefusco. Per me è importante che parino, basta quello”. Parola di Cesidio Oddi, il numero 1 che, un giorno a Nocera, segnò una doppietta.

 

La favola del portiere goleador: Brignoli ma non solo. Quando l’irrazionale speranza vince sulla ragione

brignoli_golQuella maglia diversa da tutte le altre nel mezzo di un territorio sconosciuto. Lo spirito dell’avventuriero e l’inadeguatezza dell’aspirante eroe per caso. Il cross, la speranza, l’impatto. Gol del portiere, pazzesco. L’ incantesimo del Benevento si chiude con una storia da favola. Il primo punto di un torneo stregato arriva così, all’ultimo minuto, nel modo più incredibile. Alberto Brignoli. È lui il protagonista della fiaba del giorno. Otto presenze in questa stagione, 18 palloni raccolti in fondo alla rete. Fino al 95’ di Benevento-Milan, il gol per lui ha sempre avuto il sapore della sconfitta. È stato sempre così, fino al colpo di testa che ridà speranze a una città e sancisce il trionfo dell’irrazionalità sulla ragione.

Il portiere che segna. Un ossimoro, il gesto disperato e ribelle contro il calcio degli schemi e della preparazione meticolosa. Perché vedere quell’uomo che rompe la sua solitudine e va a mischiarsi in cerca di gloria fa sempre sobbalzare. Mossa estrema, inchino al fato e che Dio la mandi buona. Quasi sempre non accoglie la preghiera, ma quando lo fa è una rivoluzione. Il sussulto di speranza che diventa gioia primordiale. Braccia larghe e corsa urlante. Ha esultato così Brignoli, inseguito dai compagni impazziti e liberati da un incubo. Quasi sempre i portieri gioiscono così. In modo sfrenato e infantile, perché sono impreparati a quel tipo di felicità. Non hanno mitraglie o dita da roteare vicino all’orecchio. Hanno solo quel flash: il pallone che finisce oltre la riga, il merito inusuale di esserne stati i protagonisti. Non hanno pose per i fotografi o gesti in mente. Vivono quella gioia urlandola, increduli, come si fa di fronte a eventi difficilmente ripetibili.

IL GOL DI RAMPULLA

Ne abbiamo già visti, ogni tanto, nel nostro campionato. Il primo a segnare su azione è stato Michelangelo Rampulla in un derby: Atalanta-Cremonese, 23 febbraio 1992.

Bergamaschi in vantaggio con un rigore di Bianchezi a fine primo tempo. I grigiorossi attaccano per tutta la ripresa a caccia del pareggio che non arriva. Poi nei minuti di recupero, l’ultima occasione. Punizione dal lato destro. Una sorta di corner corto. Lo batte Chiorri. Dall’altra parte del campo piomba in area Rampulla. Un’ora prima in quella porta ha raccolto il pallone del rigore subito, questa volta è lui con un tuffo a costringere il collega Ferron alla raccolta. Entrambi nella storia. Sarà proprio Rampulla il primo a consolare il portiere avversario a fine partita. Col tempo rimarrà sempre “l’uomo di quel gol” e un po’ lo maledirà, perché quella rete ha in parte oscurato una carriera passata a non prenderli. Nei dieci anni successivi ha vinto tutto con la Juventus, ma il suo nome evocherà sempre quel ribaltamento di ruoli. Il primo su azione, ma non il primo del calcio italiano del dopoguerra.

LUCIDIO SENTIMENTI, PRIMO PORTIERE RIGORISTA

Il caso vuole che lo stadio fosse sempre lo stesso. E sempre l’Atalanta la vittima. Era il 4 novembre del 1945. Al Mario Brumana, nome con cui si chiamava all’epoca l’impianto che oggi conosciamo come Atleti Azzurri d’Italia, la Juventus ottiene il pareggio in extremis con un rigore battuto da Lucidio Sentimenti. Il portiere bianconero andò a calciare perché Silvio Piola non si sentiva in condizione di tirare.

Gol, ma Sentimenti lo aveva già fatto un’altra volta, prima che il conflitto mondiale fermasse vite e palloni. Stagione 1941/42, Napoli-Modena al San Paolo. Lucidio difende la porta degli emiliani, il fratello Arnaldo è invece il portiere della squadra di casa. È conosciuto come pararigori. Ne ha già presi sei in campionato. Un Handanovic ante litteram. Nessuno vuole confrontarsi contro di lui. Ha già ipnotizzato gente come Bernardini e Piola. Il Modena, sotto 2-0, guadagna un rigore. Nessuno vuole prendersi la responsabilità. Nessuno, a parte il fratello minore che lo conosce da sempre. Sentimenti II contro Sentimenti IV. Parenti serpenti. “Che sei venuto a fare tanto te lo paro”, dice Arnaldo. “Non metterci le mani, tiro forte”, risponde Lucidio. E alla fine ha ragione lui. Rete e insulti familiari. Alla fine però, quella partita la vince comunque il Napoli.

Lucidio Sentimenti chiuderà la sua carriera con 5 reti realizzate, tutte dal dischetto. Uno talmente bravo con i piedi che la Juve lo utilizzò anche come ala destra in un anno in cui aveva le dita della mano destra fratturate. Il portiere più prolifico del nostro campionato, meglio di Antonio Rigamonti, che negli anni ’70 andò a segno tre volte dal dischetto. Con la maglia del Como, per volontà di mister Marchioro. Lontanissimo dai goleador dell’epoca moderna visti in altri tornei: Rogerio Ceni, leggendario portiere brasiliano del San Paolo, fra punizioni e rigori è andato a segno 120 volte. Quasi il doppio del paraguaiano Chilavert, autore di 62 reti e perfino di un’ineguagliata tripletta nel ’99 con la maglia del Velez

DA TAIBI AD AMELIA

Ma il portiere che calcia da fermo non ha lo stesso fascino del gol disperato su corner. In settimana Milinkovic Savic, estremo difensore del Torino aveva colpito una traversa su punizione nei minuti di recupero contro il Carpi. Forse era il segnale che qualcosa di magico stava per accadere di nuovo. L’ultima rete di un portiere in serie A l’aveva segnata Massimo Taibi, aprile 2001, in un Reggina-Udinese. Corner all’ 87’, calabresi in svantaggio, il portiere reggino si avventa in area e di testa trafigge Turci. Gol del pareggio, come quasi sempre succede, perché nessuno osa mandare in avanti l’ultimo baluardo quando c’è ancora un risultato da difendere. Ci ha provato Buffon in quell’Italia-Svezia che vorremmo non aver mai vissuto ma sarebbe stata comunque una vittoria parziale prima dei supplementari.

Una volta però qualcuno ci è riuscito. Fabio Coltorti, svizzero di Locarno, numero 1 del Lipsia nel 2015. Lontani dai fasti attuali, i tedeschi si trovavano nella Zweite Bundesliga a caccia della promozione. In uno scontro diretto contro il Darmstadt serviva solo vincere. Per questo sull’1-1 nei secondi finale anche Coltorti si butta nella mischia. E segna clamorosamente con una girata di destro, dopo un pregevole quanto casuale controllo mancino. Vittoria del Lipsia, che quell’anno non riesce a salire, ma negli anni successivi inizierà la scalata al calcio europeo.

Momenti eccezionali, come il colpo di tacco con cui il danese Martin Hansen dell’ADO Den Haag aggancia il PSV Eindhoven in una gara di Eredivisie. Forse la rete più bella mai segnata da un portiere, al pari della rovesciata del sudafricano Oscarine Masuluke, portiere del Baroka Fc contro gli Orlando Pirates.

Storie di gol lontani ed eroici. L’ultimo di un portiere italiano fu messo a segno invece in una competizione europea. Era il novembre del 2006, fase a gironi di Europa League, Partizan Belgrado-Livorno. A quattro minuti dalla fine i toscani si trovano sotto. Punizione dal lato sinistro, Marco Amelia, contro il volere di mister Arrigoni, si precipita in area. Il Livorno ha bisogno di un punto per tenere vive le speranze di qualificarsi ai sedicesimi di finale. Lo ottiene proprio così, con un’incornata del suo portiere, che esulta come forse non aveva fatto neanche a Berlino pochi mesi prima.

Gioie uniche, momenti di follia che aiutano a non crescere. Pazzie che a volte si “ereditano” in famiglia. Come successo agli Schmeichel, Petar e Kasper, padre e figlio a segno con le maglie del Manchester United e Leicester. Magie di un momento destinate a restare per sempre.

Perché, si sa, la speranza è sempre l’ultima a morire. E nel calcio, quella speranza, spesso la riconosci facilmente: ha una maglia diversa da tutte le altre e si trova in mezzo a tante divise uguali tra loro. E ogni gol segnato da lei è una piccola favola che non muore mai.

L’incredibile storia di Marco Negri, eroe dell’Umbria e di Glasgow. “Un giorno Sean Connery mi disse…”

Dalla retrocessione col Perugia a Dio di Glasgow

Vent’anni fa, di questi tempi, un calciatore italiano faceva impazzire mezza Glasgow. Quella dipinta di blu, tifosa dei Rangers. Un ragazzo che non parlava mai con la stampa ma di cui tutti parlavano. Uno capace di segnare 23 reti nelle prime 10 partite. Veniva dal Perugia e il suo nome era Negri. Marco Negri. Dirlo così, alla James Bond, non è casuale. E presto capirete perché.

È stato un momento incredibile”, ricorda oggi al microfono digianlucadimarzio.com“Arrivavo da stagioni prolifiche in Italia e la fiducia nei propri mezzi, per un attaccante, è la componente più importante”. È la stagione ‘97/98. I Rangers cercano un’alternativa al leggendario cannoniere Ally McCoist, miglior marcatore di tutti i tempi col club ma giunto ormai a fine corsa. E la individuano in Marco Negri, reduce da una stagione in serie A con il Perugia, chiusa con 15 reti e una retrocessione che fa ancora male. “Retrocedere è una di quelle cose che ti segna la vita. Eravamo una buona squadra ma il livello del campionato era altissimo. Andò male e così decisi di tentare un’esperienza all’estero”.

I Rangers avevano appena messo sotto contratto un altro calciatore del Perugia, il giovanissimo Gennaro Gattuso. Un caso internazionale, con la fuga di Ringhio dal ritiro del club umbro e l’ira di Gaucci. Anche per cercare di calmare le acque, gli scozzesi acquistano Negri. Ed è subito magia. Ricordo la prima partita ad Ibrox, subito in gol davanti a 50mila persone. E poi i 5 gol contro il Dundee, la rete al Celtic Park nell’Old Firm contro i rivali di sempre. Emozioni indelebili”.

Fra agosto e Natale del ‘97 segna 29 reti. Un re Mida che trasforma in gol tutto ciò che creano i compagni. E che compagni. “Arrivava sempre una palla buona. Alle mie spalle avevo Laudrup e Gascoigne. Che genio Gazza, il compagno migliore mai avuto. Un genio, in tutto. Una volta andammo a fare una caccia col falco. L’addestratore era distratto e Gazza iniziò a dare da mangiare agli uccelli qualsiasi cosa. Quel giorno nessuno riuscì più a farli volare…”. Nell’anno che porta al mondiale di Francia, c’è una candidatura in più al centro dell’attacco dell’Italia di Cesare Maldini. Poi quella magia, com’era arrivata, in un attimo svanì.

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Dalle stelle alle stalle. Maledetto squash

Un mercoledì di inizio gennaio, Marco va a giocare a squash con il compagno di squadra Sergio Porrini. È la seconda volta che impugna una racchetta. Non sa che bisogna indossare occhiali protettivi. Lo scoprirà dopo, quando sarà troppo tardi: una pallina scagliata con foga da Porrini lo colpisce all’occhio destro. La luce si spegne di colpo. Corrono in ospedale: Negri ha un distacco parziale della retina. È l’inizio della fine. Riesce a rientrare dopo un paio di mesi, poi si blocca di nuovo per un’ernia. Da lì a fine stagione segna solo 4 volte. L’incantesimo si è rotto.

Ho iniziato a giocare col contagocce. Improvvisamente era cambiato tutto. Appena mi rialzavo, succedeva qualcosa che mi ributtava giù. Mi resterà sempre il dubbio di sapere come sarebbe finita quella stagione. Non ho mai giocato in Nazionale, forse poteva essere davvero l’anno buono”.

La voce di Marco rivela ancora l’emozione di quei giorni. Quell’incredibile altalena che lo ha portato prima in alto e poi in basso in poche settimane. Una ruota panoramica, come l’ha definita lui in “Moody Blue”, una meravigliosa autobiografia, finalista, lo scorso anno, di un prestigioso premio letterario britannico. Un modo per ricordare una carriera rapsodica e piena di aneddoti indimenticabili. Come l’incontro con un tifoso speciale dei Rangers: Sean Connery. O se preferite, James Bond.

Mi stavo fasciando una caviglia sul lettino prima di un’amichevole. Ero da poco rientrato in campo dopo il fattaccio. Lui era venuto a salutare il presidente, suo amico di vecchia data. Me lo presentarono e lui s’illuminò. Mi chiese che fine avessi fatto, che cosa fosse successo dopo quell’inizio incredibile. Missione impossibile da spiegare, anche al re degli 007…”. Negri resta fino al 2000 in Scozia, chiudendo la sua esperienza con 37 gol in 40 partite. Poi il ritorno in Italia: Vicenza, Bologna, Cagliari, Livorno e Perugia. Un cerchio che si chiude in Umbria, dove tutto era cominciato.

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Il re dell’Umbria. Da Terni a Perugia

Già, l’Umbria. La prima terra in cui Negri approda dopo aver fatto le giovanili all’Udinese. La Ternana, stagione 91/92, lo ingaggia a gennaio per cercare la promozione in serie B. E con lui al centro dell’attacco, la promozione arriva. “Un ricordo meraviglioso. Clagluna allenatore di un gruppo granitico. Segnavamo pochissimo: vincemmo il campionato facendo 21 gol. Io ne feci 5 e compresi subito cosa volesse dire giocare con la pressione addosso, In un campionato lontano dalle tv, calcio vero”. E calci, tanti. Non solo sul terreno di gioco. “Ad Acireale nel sottopassaggio successe di tutto. Capitavano spesso queste cose nel girone sud. Ma era comunque bellissimo. Quella promozione mi diede una consapevolezza incredibile”.

Poi dopo due positive esperienze a Bologna e Cosenza, l’attaccante risponde alla chiamata del Perugia di Gaucci. Obiettivo un’altra promozione, questa volta in serie A. “All’inizio fu dura. Gaucci esonerò Novellino. Arrivò Galeone e le cose iniziarono a girare bene”. Un anno tormentato fra sconfitte, rimonte e sfuriate epiche del presidente. “Gaucci aveva i suoi metodi per motivare i giocatori Quando arrivai ero spesso infortunato e non rendevo al meglio. Una volta mi prese sottobraccio e davanti alla squadra disse: sa Negri, io l’ho acquistata per fare la differenza. Ma per noi, non per gli altri!”.

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E alla fine la differenza Negri la fece per davvero: 18 reti, due decisive per la promozione nell’ultima partita col Verona al Renato Curi“Era tutto apparecchiato. Lo stadio pieno, loro già promossi, ma in campo fu durissima. Andammo sotto, poi la riacciuffammo. E fu una gioia pazzesca. Io e Materazzi uscimmo dallo stadio e andammo a festeggiare per le vie della città col suo motorino. Senza casco, coi capelli dipinti di blu, in mezzo alla gente. Altro che pullman scoperto, quella sì che fu una festa vera”.

Ternana e Perugia. Due pezzi di cuore per Marco Negri. Due promozioni, un solo derby giocato (e vinto in serie C con la maglia della Ternana. “È una partita speciale perché sono due tifoserie speciali. In questo calcio ultramoderno avere sprazzi in cui il tifoso è il vero protagonista fa sempre piacere. Io ho giocato anche il derby di Glasgow ma quello fra Ternana e Perugia lo porto sempre nel cuore. Le squadre sono alla ricerca di equilibri, io farò il tifo per l’Umbria”.

Marco Negri oggi: “Vorrei allenare gli attaccanti”

Oggi Marco ha 47 anni e vive a Casalecchio di Reno, provincia di Bologna. Gira il mondo con i camp organizzati dai Glasgow Rangers e spesso torna in Scozia a commentare le partite del suo vecchio club. “Anche la settimana scorsa. Purtroppo per una sconfitta in casa contro l’Hamilton. Una partitaccia”.Con sua moglie Monica osservano la crescita del loro figlio Christian, 13 anni“Fa nuoto a livello agonistico. Il calcio gli interessa poco, ma in acqua è uno squalo vero”.

E allora guardandosi indietro, cosa resta? “La sensazione di aver vissuto tutto al 100%. Senza aver mai barato, cercando di essere sempre prima di tutto un uomo dei tifosi. Perché i loro giudizi sono sempre stati puri”.

E adesso però resta ancora un ultimo progetto. Ambizioso e originale.“Vorrei allenare gli attaccanti. Ho il patentino per andare in panchina, ma il mio progetto è diventare un allenatore di reparto, insegnando i movimenti. Esiste per i portieri, perché non dobbiamo avere una figura simile per chi è chiamato a fare gol? Io ho imparato a stare in campo guardando Abel Balbo ai tempi dell’Udinese, ma mi sarebbe piaciuto avere una guida specifica. Ne ho parlato con tante persone. C’è interesse ma ancora niente di concreto”.

Sarebbe l’ennesimo capitolo della vita di Marco Negri. Uno da ruota panoramica o da montagne russe. Uno che ha fatto emozionare anche il re degli 007.

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Alla scoperta di Malcore, il bomber venuto dalla D: “Da bambino sfondavo i garage”

giancarlo-malcore-carpiQuasi tutti i bambini sognano di diventare calciatori. Il pallone fra i piedi, i primi calci, una porta qualsiasi da inquadrare. In mezzo a due cappotti, fra due alberi, oppure, semplicemente, la saracinesca di un garage. La stessa che Giancarlo, a 4 anni, colpiva con potenza e precisione. “Tiravo talmente forte che mio padre si affacciava per vedere chi fosse stato. Non poteva credere che fossero i miei tiri. Avevo già deciso che avrei fatto il calciatore”.

Giancarlo di cognome si chiama Malcore. È cresciuto a San Donaci, un paesino di 6mila abitanti del Salento. L’anno scorso era in serie D a Manfredonia, città di nascita di Matteo Lauriola, il direttore sportivo che ha scelto di portarlo a Carpi, due categorie più in alto. Sabato scorso, Giancarlo ha realizzato la sua prima tripletta in serie B. Tre gol all’Ascoli, tre punti importanti per il Carpi. “Sono molto contento – racconta ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – sono le prime vere soddisfazioni della mia carriera. A me sembrava già un sogno fare il ritiro quest’estate con una squadra di questo livello”.

Nessuna difficoltà nell’adattarsi a una categoria diversa, anzi. Malcore viaggia alla media di un gol ogni 79 minuti. Numeri alla Messi per il ragazzo che gli amici chiamavano il “Fernando Torres del Salento”. Giancarlo ride di questa definizione: “Sì, lo dicevano ma più per il colore di capelli e qualche tratto somatico simile. Come caratteristiche non c’entro molto: a me piace giocare la palla, sono più una seconda punta”.

Il Salento, la terra che l’ha cresciuto, lo ha poi lasciato andare via. E per un ragazzo cresciuto nelle giovanili del Lecce da quando aveva 8 anni, questa è ancora una ferita aperta. “Mi ero immaginato una carriera lunga nella squadra della mia città. Avevo fatto tutta la trafila con la maglia giallorossa. Sentivo che era il mio posto”. Eppure il momento di Malcore non arrivava mai. ”C’erano diverse persone che non mi ritenevano pronto per il Lecce. C’era sempre qualcuno reputato più bravo di me. Avevo perso un po’ di fiducia. Eppure Chevanton, uno dei miei idoli d’infanzia, mi spronava a insistere: diceva che prendevo sempre la porta. E che dovevo lottare su ogni pallone. È stato un compagno eccezionale. Perdemmo una finale in casa, proprio col Carpi. Era il 2013. Io la vidi tutta dalla panchina. E piansi”.

Poi iniziò una processione in un calcio periferico. Gavetta vera, fra Nocerina, Paganese, Chieti e Manfredonia. “Nelle categorie inferiori, 7 volte su 10 devi inventare una giocata. In B è vero che ci sono difese più attrezzate, ma hai anche giocatori capaci di metterti in condizione di segnare. E un’organizzazione tattica che aiuta chi deve finalizzare. Quella di mister Calabro, per esempio, mi dà una grande mano là davanti”.

Eppure il suo allenatore, in quest’avvio di stagione, gli ha riservato più di qualche panchina e sta sempre addosso al suo quasi compaesano. “Quando se la prende con me, si sfoga in dialetto. Così sa che il messaggio mi arriva prima”, scherza Malcore. “Apprezzo molto il fatto che sia esigente con me. Mi dice sempre di non mollare un centimetro. Io faccio di tutto per cercare di essere pronto, Non è un sacrificio, perché il calcio è la mia vita”. E magari un domani quella vita potrebbe essere quella di un calciatore di serie A: “Voglio arrivarci prima possibile e rimanerci a lungo. Non lo nascondo, è un mio obiettivo da quando ho iniziato”.

Suo padre Cosimo, grande appassionato di calcio e militare dell’Aeronautica, ha sempre creduto nei mezzi del figlio. È stato lui a indirizzarlo al calcio, togliendogli la palla da basket dalle mani, l’altra sua grande passione. Magari mamma Lucia avrebbe avuto qualche completino meno sporco da lavare, ma non importa. Il loro Giancarlo oggi ha 23 anni e ancora lo spirito di quel bambino che massacrava a pallonate la saracinesca di un garage.

“Voglio solo fare bene col Carpi. Ho compagni splendidi, che mi hanno fatto sentire subito a casa. Da Mbakogu che abbraccio ogni volta che vedo, a Pasciuti che non fa mai un errore tattico. Arrivare a 50 punti è il nostro primo obiettivo”.

Zona tranquillità, al riparo da brutte sorprese. Individualmente, invece, la missione è fare meglio dei 14 gol dell’anno scorso a Manfredonia. Era serie D, ma fa rete fa sempre lo stesso rumore. Ne ha già fatti 5, ne restano altri 10. Conviene scommettere su di lui?

“Chi lo ha fatto in passato, di solito ha vinto”, afferma a metà fra gioco e spavalderia. “Quando ero ancora in Salento, c’era il proprietario di un chiosco vicino a dove giocavamo che scommetteva contro di me, alzando sempre il numero di reti da fare. Gli andava male comunque. Era divertentissimo”. Quasi come un gol stupendo al Napoli in precampionato o una tripletta alla nona presenza in B. “Bello sì, ma ormai è già passato. Domenica arriva il Brescia, squadra tostissima. Ci faremo trovare pronti”.

Come sta facendo lui, Giancarlo Malcore da San Donaci, al primo anno vero in un campionato professionistico.

Luca Gerbino, emigrante di successo nella Svezia del pallone

WhatsApp_Image_2017-11-09_at_20.24.05_1In queste ore, qui in Svezia i nostri calciatori sono sulle prime pagine. ImmobileInsigneDe Rossi, Buffon: tutti protagonisti, ma il primo ad averci “messo la faccia” è stato un ragazzo di Treviso. Si chiama Luca Gerbino Polo. Il suo nome in Italia lo ricorderanno in pochi, ma a Bromma, quartiere di Stoccolma, è quasi una piccola celebrità.

“Sono in molti a fermarmi nei bar, nei ristoranti, anche solo per stringermi la mano o farmi i complimenti”. Sì, perché una sua rete all’82’ contro il Dalkur ha regalato la promozione nella serie A svedese (Allsvenska) con tre turni di anticipo al Brommapojkarna. Letteralmente “i ragazzi di Bromma”, squadra del quartiere dove Luca vive.

Ma Bromma, Stoccolma, la Svezia, non sono esattamente a due passi da Treviso, la sua Treviso. “Sono arrivato qui nell’estate del 2013 – racconta ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – perché ero stufo delle situazioni che trovavo in Italia”. Anni passati nelle serie minori, poi la svolta. “Ho giocato sempre in Serie C, fra Ravenna e Rimini, ma c‘era sempre qualcosa che non andava”. Figlio di una romagnola, da quelle parti si è sempre sentito un po’ a casa. Lasciarla non è stato uno scherzo ma in questa scelta anche il cuore ha avuto la sua parte: Carin, la sua ragazza è italo-svedese. “Abbiamo deciso insieme di venire a Stoccolma. Era l’inizio del 2013. Un freddo pazzesco. Presi un paio di pestoni in allenamento che ancora me li ricordo.

WhatsApp_Image_2017-11-09_at_20.24.03_2Prima esperienza al Vasta Syrianska, poi 21 reti in 23 partite all’Akropolis. Squadre di migranti, prima i siriani, poi i greci. Fino al salto in Serie B, o SuperEttan, come si chiama qui, con la squadra del suo quartiere. Paradossalmente, un profeta in patria. “È una società emergente, con un settore giovanile incredibile, formato da 4mila atleti, ragazzi e ragazze”. Un fiore all’occhiello certificato nell’ insegna all’ingresso del Grimsta Idrottsats, lo stadio di casa: “benvenuti nel club più grande d’Europa”.

Nel 2014, il Brommapojkarna sfidò il Torino in un preliminare di Europa League conquistato grazie ai punti del fair play. Un club poi decaduto e risalito grazie a Gerbino, ma anche a un allenatore che ha giocato anche da noi: Olaf Mellberg, centrale difensivo della Juve di Del Neri e capitano della Svezia del 2004. Sì, quella del presunto biscotto. “Io non gli ho mai chiesto niente di quella partita, non prenderei mai questa confidenza. Con lui mi trovo bene, è uno tosto, pretende tanto, ma se abbiamo vinto il campionato c’è anche tanto di suo”.

Adesso per Gerbino si spalancano le porte della massima serie. Parla svedese correttamente grazie ai programmi di apprendimento per migranti. Ha studiato e continua a farlo: una laurea alle porte in Service management, un futuro protetto da tre lingue parlate fluentemente. “In Svezia è impossibile vivere di rendita col calcio. Lo stipendio medio all’anno in B è 25 mila euro netti. In A sono 8 mila al mese. Lordi, però. Bisogna sapersi organizzare per tempo. Io sto cercando di farlo”.

Il futuro di Luca potrebbe essere ovunque. “Non ho nostalgia particolare dell’Italia, né sento il desiderio di passare tutta la vita in Svezia. Voglio tenermi aperte tutte le porte”.

L’anno prossimo però cercherà soprattutto di violarle. Negli stadi svedesi in cui non ha ancora giocato. Quelli tipo la Friends Arena. Sarà lì per vedere gli azzurri, col biglietto regalato dalla sua società. Settore svedese. “Obblighi societari, ma state sicuri che se faremo gol, esulterò”.

L’eliminazione dell’Italia nel ‘58, raccontata da Gino Pivatelli: “Io c’ero”

Gino_Pivatelli

“E chi se la dimentica quella partita? Avrei dato un braccio per andare al mondialeMi viene ancora da piangere se ci penso”. Il signore dall’altra parte della cornetta fa una lunga pausa. Sospira e forse una lacrima gli scende davvero. Gino Pivatelli, nel 1958, era il centravanti della nazionale che fallì la qualificazione ai mondiali contro l’Irlanda del Nord. Quel 15 gennaio era in campo a Belfast. Aveva 24 anni. Oggi ne ha 84 e vive a Bologna con la moglie Luisa, sposata nel ’58 “nel periodo in cui saremmo dovuti andare in Svezia per la Coppa del Mondo”, racconta al microfono di Gianlucadimarzio.com. “Avevo anche pensato di portarla a vedere i mondiali in viaggio di nozze. Ma alla fine preferimmo fermarci in Danimarca dai miei compagni al Bologna Jensen e Pilmark. Meglio così, mi sarei solo arrabbiato di nuovo”.

E sessant’anni dopo, quell’amarezza è ancora lì, tangibile e indifferente al tempo trascorso. “Non fu un incontro di calcio, fu una vergogna. Giocammo su un terreno scandaloso, una palude di fango. Sembravano sabbie mobili, si andava giù fino alla caviglia”. E anche un bomber come Pivatelli, 146 gol in carriera, quel giorno rimase all’asciutto. “Ebbi un paio di occasioni nel primo tempo che se mi capitassero adesso, lì fuori nel giardino, farei sicuramente due gol. Là facevi fatica a prendere la palla. No, non si doveva permettere di giocare una partita del genere. Ma sa, con quell’arbitro lì…”.

Istvan Zsolt, fischietto ungherese. Il vero colpevole – secondo Pivatelli – della sconfitta di Belfast. “La sua figura è la prima immagine che mi viene in mente di quella sfida. Me lo ricordo come se ce l’avessi davanti ora: senza capelli, con la pancia, ci fischiò tutto contro. Buttò fuori Ghiggia, ma fu solo la ciliegina sulla torta. Avevo anche l’impressione che fosse un po’ ubriaco. Mi deve un mondiale, quel signore lì”, continua il secondo marcatore di sempre della storia del Bologna dopo Pascutti. Un giocatore capace, nel 1963, di vincere una Coppa dei Campioni con il Milan contro il Benfica a Wembley. “Devo ringraziare Altafini, il più grande giocatore con cui abbia mai giocato. Fece una doppietta. Di là c’era Eusebio, ma anche lui dovette arrendersi. Josè in quelle giornate era troppo anche per lui”.

Una grande gioia che mitiga ma non cancella la delusione di Belfast.“Piangevamo tutti di rabbia negli spogliatoi. Anche gli oriundi, che a differenza di quello che si è detto in seguito, tenevano tantissimo alla maglia azzurra. Da Costa era uno dei più inconsolabili, altro che menefreghisti. Per non parlare di Schiaffino: un uomo e un atleta eccezionale. Aveva sempre un gesto o una parola giusta, anche là negli spogliatoi di Belfast. Un esempio vero”.

Pivatelli difende anche il commissario tecnico Foni, messo all’epoca sotto accusa dalla stampa per una formazione troppo spregiudicata: “Macché, lui è sempre stato un difensivista. Noi avevamo giocatori fortissimi nel tenere palla. Quello era il nostro piano e quello avremmo fatto. Il problema è che su quel maledetto campo non si stava neanche in piedi. Che doveva fare Foni? Era uno capace e anche una brava persona. Come Ventura del resto”.

Da Belfast a Stoccolma, una storia che non si deve ripetere. “Siamo in buone mani. Giampiero è un amico e un uomo di grande esperienza. Saprà mettere in campo una squadra adeguata. Sono molto fiducioso, non penso che falliremo quest’appuntamento”.

L’ex giocatore rossoblù da qualche anno non frequenta più lo stadio ma continua a seguire il campionato, con un occhio particolare per i club nei quali ha militato più a lungo, Bologna e Milan. “Di attaccanti col mio tiro non ne vedo tanti. Fanno più movimento di quello che facevo io di sicuro, però a calciare non so… Per il resto, mi piacerebbe veder vincere lo scudetto al Napoli. Lì ho giocato una stagione sola, ma mi è bastato per apprezzare quel pubblico fantastico. Auguro ai napoletani di festeggiare questo titolo, se lo meritano proprio”.

Pivatelli saluta e torna dalla moglie Luisa. Tra qualche mese festeggeranno 60 anni di matrimonio. Un amore coronato dopo una grande delusione sportivo. E alla fine ciò che è veramente rimasto di quel 1958 è ancora lì accanto a lui.

Italia 1958: l’anno di “Volare” e della Nazionale fuori dal mondiale

Alfredo_Foni_(allenatore)

L’ultimo anno di apertura delle case chiuse. Domenico Modugno che canta “Nel blu dipinto di blu” dal palco dell’Ariston a Sanremo. La Democrazia Cristiana al governo. Un bergamasco diventa pontefice e tutti lo ricorderanno come il “Papa buono”. L’inizio della Dolce Vita, qualche strada più in là, dall’altra parte del Tevere. Fotogrammi sparsi del 1958 in Italia. Storie di un anno da ricordare. O da dimenticare, perché quel 1958 si giocava un mondiale in Svezia. L’unico al quale non ci siamo qualificati da quando rotola un pallone.

Colpa di una partita. Maledizione di una notte di mezzo inverno a Belfast. Irlanda del Nord-Italia, 15 gennaio, stadio Windsor Park, ultima giornata del gruppo 8. Agli azzurri basta un pareggio per qualificarsi. Dimenticate i gironi lunghi di oggi. Raggruppamento a tre: noi, gli irlandesi e il Portogallo. Passa solo la prima. I lusitani, con 3 punti in classifica, sono fuori dai giochi. Con loro abbiamo perso a Lisbona e vinto a San Siro. Un doppio 3-0, ma il secondo ci permette di giocarci con relativa serenità l’ultima sfida. Abbiamo 4 punti, frutto di una vittoria di misura all’andata sull’Irlanda del Nord. Il ritorno, contro di loro, in realtà, l’avremmo già giocato a inizio dicembre, prima della vittoria coi portoghesi a Milano.

Un onorevole 2-2 nel fango, ma senza l’arbitro ufficiale; l’ungherese Istvan Zsolt è rimasto bloccato dalla nebbia a Londra. Il signor Tommy Mitchell da Belfast, professione panettiere, non viene accettato come “official referee” dalla nostra federazione. E allora si gioca una semplice amichevole. Per modo di dire, perché mai definizione fu più sbagliata.

Quell’incontro sarà sempre ricordato come la “battaglia di Belfast”: provocazioni continue sul campo e dagli spalti, invasione non pacifica del pubblico, giocatori malmenati. Un pandemonio originato da una dichiarazione estiva di Eddie Firmani, attaccante sudafricano della Sampdoria. Il giocatore avrebbe parlato alla stampa inglese, paragonando la Serie A a una sorta di laboratorio del doping. I britannici sono lettori attenti e spettatori irascibili. La notizia gira in fretta, i mezzi dell’epoca sono troppo scarsi per verificarla. Migliaia di irlandesi vogliono ripristinare a modo loro la lealtà sportiva. In quel marasma finiamo noi in 10. Mitchell “il panettiere” espelle Chiappella, nostro centromediano metodista (ruolo di cerniera fra difesa e metà campo) per un fallo di reazione su Danny Branchflower, idolo locale e stella del Tottenham.

Manca più di un mese alla partita vera, ma il mondiale iniziamo a perderlo quella sera. A Belfast ci guardiamo allo specchio e scopriamo di essere talentuosi ma leggeri. La squadra è allenata da Alfredo Foni. Ha vinto due scudetti con l’Inter puntando più a non prenderne. Si chiama catenaccio, pensiamo di averlo inventato noi, ma prima di tutti ce lo hanno insegnato gli svizzeri. Che nel mondiale a casa loro, 4 anni prima, ci hanno eliminato così. Loro lo chiamano verrou, ma è la stessa cosa.

Il nostro gruppo del ‘58 ha più pittori che muratori. Alcuni non sono fiori dei nostri vivai. È l’epoca degli oriundi, giocatori naturalizzati grazie a qualche parentela lontana o ai buoni uffici della dirigenza. Tutti giocatori offensivi: l’argentino Montuori, il brasiliano Da Costa e i due assi di Montevideo, Ghiggia e Schiaffino, che nel ’50 fecero piangere il Brasile con l’Uruguay. Dal Maracanazo a Windsor Park, otto anni dopo.

Foni decide di schierarli tutti nella notte che ci deve portare al mondiale. E a loro aggiunge anche Pivatelli, centravanti del Bologna. Lo schema in campo è il celebre “sistema”, o WM: 3-2-2-3. Giocava così il Grande Torino sparito tragicamente a Superga. Ci vogliono personalità spiccate e qualità tecniche eccezionali per giocare così. E magari, un campo da gioco in buone condizioni. Desiderio incompatibile con l’inverno di Belfast. Si gioca in una palude di fango. In cui affoghiamo, inconsistenti a centrocampo, assediati dietro. I primi 45 minuti smascherano i nostri difetti. Prima McIllroy con un tiro da fuori, poi Cush alla fine di un’azione corale trafiggono il nostro Bugatti. Andiamo al riposo sotto di due reti, Ci serve un miracolo per andare al mondiale. Un errore del portiere nordirlandese a inizio ripresa consente a Da Costa di riaprire i giochi. Ci proviamo, anche perché in porta c’è Uprichard, sostituto dell’ultim’ora di Gregg, bloccato a Londra dalla nebbia. Come successe al signor Zsolt un mese prima. Questa volta invece, l’ungherese è al suo posto in campo e a venti minuti dalla fine spegne le nostre ultime speranze. Cartellino rosso per Ghiggia che perde la testa contro il terzino McMichael. È l’emblema della frustrazione di una squadra che sprofonda e non reagisce più.

Fino al fischio finale. Siamo fuori dal mondiale di Svezia. Quello in cui Pelé si rivela al mondo, l’ultimo a cui non partecipiamo.

Questa volta dobbiamo passare dalla Svezia per giocare la Coppa del Mondo. Abbiamo due oriundi brasiliani in rosa: uno in attacco e uno chiamato a rinforzare il centrocampo. Perché forse la nostra qualificazione passerà da lì. A Stoccolma, a Milano, come a Belfast sessant’anni fa. Scelte decisive per volare in Russia. Come avrebbe detto Modugno ieri. O come dice Rovazzi oggi. Perché la nazionale è di tutti.

Claudio Giambene

Simone e Pippo​. Il momento magico​ dei fratelli Inzaghi

Fratelli_inzaghiEssere un Inzaghi, oggi, è qualcosa di magico. Mamma Marina e papà Giancarlo possono guardarsi negli occhi, sorridere e godersi il momento. Filippo e Simone, i loro figli, sono i fratelli più forti del calcio italiano.

Pippo, il primogenito, ha battuto l’Empoli e lo ha agganciato in testa alla classifica della serie B; il più piccolo, invece, una settimana fa ha battuto la Juve a Torino. E si è ripetuto a Nizza giovedì. La sua Lazio è terza in Italia e a punteggio pieno in Europa. Marina e Giancarlo sanno che non è un caso il loro successo. Fin dai tempi di San Nicolò, provincia di Piacenza: bambini felici solo con un pallone fra i piedi. Il gol a fare da spartiacque tra la gioia e la tristezza.

Soprattutto per Filippo, arrivare primo, sul pallone o in classifica, è sempre stato una questione di felicità. Forse anche per questo i suoi 316 gol da professionista sono sempre stati festeggiati in modo elettrico. Una liberazione, una priorità, un obiettivo raggiunto. Da allenatore però il campo ha una prospettiva diversa. E, se vuoi arrivare primo, i gol bisogna primo di tutto non prenderli. Pippo, o Filippo come direbbe mamma Marina, ci ha messo poco a imparare. Il suo Venezia, dopo 10 giornate, guida la B e con 7 reti subite è la squadra meno battuta del campionato.

Un paradosso pensando alla sua carriera. Oppure, semplicemente, una naturale conseguenza di una maniacale predisposizione al lavoro. Dalle diete ferree alla conoscenza individuale dei giocatori. Quando Tacopina lo ha chiamato a guidare il Venezia in LegaPro, nell’estate del 2016, si aspettava un rifiuto. Sbagliava. Pippo conosceva benissimo quella categoria e i suoi calciatori. Ha costruito una squadra fortissima, vinto il campionato in carrozza e festeggiato, letteralmente, in gondola. Ripartire dal basso, senza paure, dopo la delusione con il “suo” Milan. Forse era troppo presto o forse non c’era molto da fare. Inutile chiederselo. Non è da Inzaghi l’arte del rimuginare. Simone non si è mai preoccupato di essere stato scelto in extremis dopo il dietrofront di Bielsa. Vincere, o prepararsi per farlo, quello sì, è da Inzaghi. Papà Giancarlo quest’estate faceva la spola fra i ritiri dei suoi ragazzi in Cadore: il Venezia a Sappada, la Lazio ad Auronzo. Pippo e Simone separati da una trentina di chilometri, all’alba di una stagione che forse solo loro potevano immaginare già così.

Eppure in quei giorni di luglio, entrambi hanno iniziato a costruire due gruppi solidi, sinceramente legati alle loro guide. Allenatori che festeggiano i gol dei loro ragazzi come se avessero ancora un numero e il cognome sulle spalle. Amano i loro giocatori e sono ricambiati.

Preparazione tattica e lavoro psicologico di altissimo livello. Basta prendere, uno per tutti, l’esempio di Luis Alberto nella Lazio di Simone. Comparsa nella stagione scorsa, crack assoluto in questo. Merito suo, ma anche di chi ha saputo lavorare sulla testa dello spagnolo, trovandogli una collocazione in campo perfetta.

Simone, detto “almanacco” per la sua enciclopedica conoscenza del calcio, è in questo momento una sorta di Re Mida. Anche a Nizza, i suoi cambi hanno cambiato volto alla gara. “È uno degli allenatori più forti d’Europa”, ha detto in settimana suo fratello. Un giudizio che dice tutto sul loro rapporto. Zero invidie, nessuna competizione familiare. Anche se forse Pippo segretamente medita ancora la vendetta di quel Lazio-Milan primavera del marzo 2013. Si giocava il torneo di Arco: 2-0 per i ragazzi biancocelesti di Simone, primo e unico confronto diretto tra i due.

Sono passati quattro anni e tante panchine da professionisti: 62 per Simone, 100 per Pippo, festeggiati da primo in classifica in una Venezia che non aveva mai assaporato questa gioia nel nuovo millennio. Marina e Giancarlo possono sorridere. E sperare che la rivincita di Arco avvenga presto. Magari già dalla prossima serie A.

(pubblicato su gianlucadimarzio.com il 21/10/2017)

La farfalla granata che 50 anni fa smise di volare. Gigi Meroni: il genio interrotto

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Un antico poeta indiano, Rabindranath Tagore, diceva che “la farfalla non conta gli anni, ma gli istanti. Per questo il suo breve tempo le basta”.

Gigi Meroni è stato e sarà sempre la farfalla granata. Brevemente in vita, eternamente dopo la sua morte, un maledetto 15 ottobre del 1967.
Era l’idolo di tutti i tifosi del Torino. Aveva 24 anni e da due stagioni nessuno segnava quanto lui. Ma la gente non lo amava per un gol in più o in meno. Gigi Meroni era il ’68 prima del ’68.

Un moto spontaneo di libertà e anticonformismo, ala destra naturalmente in fuga da convenzioni e difensori, capelli lunghi, abitudini stravaganti e una capacità unica nel dribblare tutti e tutto. Fino all’ultimo tackle, quello di un “avversario” arrivato dal buio in una domenica piovosa di mezzo secolo fa. Una 124 Coupè guidata da un ragazzo di 19 anni che, poche ore prima era sugli spalti a tifare per lui in Torino-Sampdoria, lo travolge in corso Re Umberto.

Gigi vola sull’altro lato della carreggiata. Un’altra auto lo investe. Quel giovane che lo colpisce ha la foto del numero 7 granata in macchina e una camera piena di suoi poster. Si chiama Attilio Romero. Gli sospendono la patente e gli danno 6 mesi con la condizionale. Pena lieve, dolore infinito, che si porterà dietro sempre. Anche quando nell’estate del 2000 diventa, scherzo del destino, presidente del Torino. Un inatteso secondo tempo nella storia granata, finito anch’esso drammaticamente col fallimento del club nel 2005.

È impossibile capire dove sarebbe potuto arrivare Meroni. Il presidente Orfeo Pianelli lo aveva strappato al Genoa nel ’64 per ben 300 milioni di lire. Tre anni dopo aveva resistito, complice una sommossa popolare fomentata dagli operai Fiat di fede granata, al pressing della Juventus. L’Avvocato Gianni Agnelli arrivò ad offrire, invano, 750 milioni. Rifiutati, col groppo in gola. Ma neanche troppo. Perché Meroni era il calcio di periferia trasportato sui grandi palcoscenici. Era George Best senza l’alcool. Era Omar Sivori senza gli scatti luciferini. Era il fanciullino di Pascoli fuori e il superuomo di Nietszche in campo.

Lo assimilavano ai Beatles, un po’ per i capelli, un po’ perché era nato nelle stesse ore di George Harrison. Gigi li ascoltava, ma amava soprattutto Tenco e De Andrè. Voci e note da Genova, la città in cui aveva conosciuto Cristiana, una giostraia, l’amore della sua vita. Una ragazza italo-polacca, bellissima, che gestiva uno stand al luna park. Da lei si sparava con la carabina per vincere un orsetto. Gigi vinse lei. Non avevano neanche vent’anni quando i loro sguardi s’incrociarono per la prima volta, nella primavera del ’62. Cinque anni dopo, all’ospedale Mauriziano, sarà un urlo straziante di Cristiana ad annunciare indirettamente ai cronisti la morte di Meroni.

Monumento_Meroni_corso_Umberto

La sua scomparsa commosse una città intera, ma non la Diocesi locale, che non concesse la messa funebre al giocatore. La sua colpa? Amare una donna già sposata. Sì perché Cristiana qualche anno prima, su pressioni della famiglia, aveva sposato un assistente alla regia di Fellini. Un matrimonio di convenienza da cui fuggì repentinamente. Ma i giorni del divorzio erano ancora lontani. Cristiana iniziò la procedura alla Sacra Rota ma non era una cosa breve. I due convivevano in una mansarda a via Veneto. A volte portavano a spasso una gallina – l’animale domestico di Gigi – altre volte lei lo guardava dipingere. Era la sua musa, la sua modella, la sua casa. Gigi provò cento volte a terminare il ritratto di Cristiana. Gli occhi non uscivano mai come voleva. Restò una sorta di angelo senza sguardo, forse un modo per difendere quell’icona dalla visione del suo corpo sull’asfalto.

Due giorni dopo la sua morte, don Ferrando, cappellano storico del Toro, rischiò la scomunica e decise di celebrare ugualmente il funerale. Cristiana in prima fila e 30mila persone alle spalle. Una settimana dopo invece il Toro tornò in campo. In casa della Juve, in un derby con 23 giocatori in campo, 22 visibili e un fantasma. Sarà per questo che il Torino vinse 4-0, con 3 gol di Nestor Combin, uno dei migliori amici di Gigi. Sarà per questo che l’ultima rete la segnò Alberto Carelli, ala sinistra spostata a destra. Per la prima volta indossava la numero 7. Il gol non era il suo mestiere, ma quel giorno qualcuno stava giocando col destino. Dall’alto, purtroppo. E continuò a scherzare anche la domenica successiva contro la Spal: altro gol di Carelli, la mistica della maglia numero 7 che diventa incantesimo, il primo posto in classifica.

Solo un fuoco di paglia. Il Torino esaurì la sua rabbia. Per due mesi non vinse più e scivolò nelle retrovie, chiudendo il campionato al settimo posto. Da quel 15 ottobre del ’67 i tifosi granata contano gli anni per rivivere gli istanti fuggenti della loro farfalla volata via.
Quel battito d’ali era l’annuncio di una rivoluzione. Forse aveva ragione Tagore. “Quel breve tempo” basta a una farfalla. Il problema è che non basta a chi ama la bellezza di un dribbling e a chi non si stancherebbe mai di guardare l’arte in movimento. Per questo i Gigi Meroni non bastano mai.