Sigaretta pendula fra le labbra e un ciuffo tipico di chi non ha troppo tempo da spendere davanti a uno specchio. Luigi Petroselli somigliava più a un allibratore che a un politico di successo.
In testa, oltre all’inseparabile coppola,aveva il sogno di fare di Roma la città dell’uguaglianza. I suoi abiti non erano quelli dell’uomo di potere. Era nato a Viterbo nel 1932 da una famiglia operaia e comunista. La vanità gli era sempre sfilata accanto senza toccarlo. A Luigi non interessavano né vestiti firmati, né dimore lussuose.Aveva una naturale vocazione verso il prossimo, uno spirito di solidarietà che in gioventù lo aveva perfino portato in seminario. Il suo destino era prendere i voti, ma quest’espressione assunse per lui un significato diverso nel corso della vita.
Petroselli non diventò prete. Scelse di abbracciare l’altra grande “chiesa” dell’Italia del dopoguerra. Fu un comunista sincero, militante ma sempre critico verso distorsioni e abusi di potere del suo schieramento. Anticipò il Pci nella condanna ai fatti di Budapest del ’56. Fece lo stesso una dozzina di anni dopo, quando i blindati sovietici stroncarono nel sangue la primavera di Praga. Fu eurocomunista ancora prima di Enrico Berlinguer, di cui fu successore, all’inizio degli anni ’70, alla guida del partito a Roma.
Quando fu eletto sindaco della Capitale, nel settembre del 1979, venne descritto come un grigio burocrate comunista. Un funzionario, non un politico visionario e concreto. I compagni lo chiamavano “Joe Banana”, ponendo l’accento sulla sua capigliatura e sui suoi modi apparentemente rudi. “Il pugile”, “l’etrusco”, addirittura “l’edile” per via del suo inseparabile copricapo. Collezionò nomignoli e soprannomi, ma rimase, e non è un’ovvietà, sempre Gigi.
Questo fece di lui il sindaco più amato di sempre a Roma. Fu naturalmente un uomo del popolo, uno di quelli che stavano fra la gente non soltanto per tagliare un nastro o per il tempo necessario a farsi una foto.
Accorciare le distanze. Era questa la sua missione una volta arrivato al Campidoglio. Intendeva così annullare quel gap esistente fra il centro storico e le periferie. Fare sentire tutti i romani parte di una vera comunità. Diede voce e dignità a quelle borgate che erano state l’anima della Resistenza in epoca fascista. In epoca democristiana una feroce speculazione edilizia le aveva schiacciate. Petroselli se ne prese carico, trovando i soldi per un serio piano di edilizia popolare che pose fine al tragico fenomeno delle baracche, ritratto mirabilmente da Ettore Scola in Brutti, sporchi e cattivi.
La Roma che amministrò per un paio d’anni a cavallo tra anni settanta e ottanta era una città al bivio.
Fra dinamiche di inurbamento selvagge e strade macchiate dal sangue di uno scontro politico che sfiorava la guerra civile, era una capitale col fiato corto.
La cura Petroselli fu una grande boccata d’ossigeno, un biennio di speranze e di progetti. Una Roma capace di prendersi cura dei suoi cittadini dalla culla alla tomba, facendo proliferare asili nido e centri anziani.
Una città in grado di garantire una casa a chi non l’aveva, riuscendo nel miracolo (poi sperperato) di far nascere un intero quartiere popolare, Tor Bella Monaca, in cui far crescere quasi 30 mila persone.
Servizi e cultura, con la perla della nascita dell’Estate Romana, alla faccia di chi lo credeva un rozzo provinciale, scambiando una preventiva timidezza per incapacità relazionale.
Smentì tutti quando ricevette da perfetto padrone di casa la regina d’Inghilterra, scusandosi per il suo inglese incerto. Al suo fianco, come sempre, la moglie Aurelia, una first lady poco avvezza a mondanità e clamore.
Avevano scelto di vivere in un quartiere popolare, all’arco di Travertino, in zona Tuscolana.
Là, in mezzo alla gente, poteva vivere la città esattamente come la amministrava. Vivendola dal basso, in mezzo alle difficoltà quotidiane, senza lussi né privilegi. Pagò con un mutuo quella casa dove ancora risiede donna Aurelia, vedova da quel maledetto 7 ottobre del 1981 in cui un infarto stroncò Luigi. Morì sul lavoro, al Comitato centrale in via delle Botteghe Oscure, durante un intervento appassionato. Morì difendendo le proprie idee. Come Palmiro Togliatti a Yalta. Come sarebbe successo a Enrico Berlinguer tre anni dopo a Padova.
Una folla impressionante di romani lo pianse ai funerali lungo i Fori imperiali. Già, i Fori. Il suo progetto incompiuto di pedonalizzazione, realizzato in parte da Ignazio Marino. Aveva capito che il Colosseo, quelle statue, quei monumenti, non potevano essere, come disse il suo amico e collaboratore Antonio Cederna, “il fondale decorativo del traffico motorizzato della città”.
Per conservare il carattere eterno di Roma, occorreva preservare i tesori storici senza dimenticare di aprirsi alla modernità. Per questo voleva che le periferie orientali della città fossero il cuore pulsante della Roma del nuovo millennio.
Un desiderio condiviso dal sindaco attuale, presentatosi come strenuo difensore di quelle periferie spesso abbandonate dal Campidoglio. A guardare le varie Corcolle, Tor Pignattara e la stessa Tor Bella Monaca, confinate a discariche sociali, quei desideri forse avrebbero bisogno di una passione maggiore.
Quella che spingeva quel sindaco amato dalla gente e dimenticato dalle istituzioni capitoline a passare le giornate fra borgate e quartieri difficili, ad ascoltare. A condividere.
Roma est oggi è soprattutto sinonimo di centri commerciali e problemi sociali. Nessuna cerimonia ufficiale ieri ha ricordato Petroselli. Neanche una riga sul sito del Comune, né sui profili social del solitamente prolifico sindaco Marino.
Un peccato, perché il programma con cui è stato eletto ha molti tratti in comune con quello del sindaco comunista. Pedonalizzare i Fori non sarebbe bastato a Petroselli senza accorciare prima il percorso, fisico e mentale, dalla periferia al centro. Corcolle, San Basilio, Ponte di Nona aspettano che Marino imiti “l’etrusco” per tutte le pagine del suo libro. Non solo per la copertina.
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