Fino a poche ore fa era un perfetto sconosciuto. Tra una settimana, per tanti, tornerà a esserlo. Ma in uno strano mercoledì di settembre, in uno Juventus Stadium vuoto come la classifica dei bianconeri, è diventato un eroe. Di cognome fa Blanchard, ma non fatevi ingannare dal francesismo. Viene dalla Maremma. L’onomastica a volte svela l’amore senza frontiere dei nostri nonni in tempo di guerra. Sì, nel ’42 c’era anche questo.
Di nome invece fa Leonardo e la sua invenzione è un colpo di testa al 92′ che regala il primo punto in serie A al Frosinone. In casa dei campioni d’Italia. O di quello che ne resta. Ma questo ora conta poco. Perché quello che davvero resta è la magia di quella zuccata. I 15 minuti di celebrità trovati al secondo minuto di recupero.
Accanto a lui, Pogba salta a vuoto e si mette le mani in faccia disperato. Come in quella notte maledetta di Champions a Berlino, contro il Barcellona. Anche quella sera Leonardo c’era. Ma quella sera anche lui soffriva. Addosso non aveva la maglia del Frosinone, ma quella bianconera. Non era in campo a fare il difensore centrale, ma in curva a tifare insieme ai Vikings. Quella sera a Berlino, Leonardo non avrebbe mai pensato di far disperare i suoi compagni di curva e i suoi beniamini.
E quaranta minuti prima di confezionare lo scherzetto, aveva anche contribuito alla gioia momentanea degli juventini. Una sua deviazione su tiro di Zaza aveva regalato il vantaggio alla squadra di Allegri. Se proprio doveva succedere – avrà pensato senza pensarlo davvero – meglio che sia capitato qui. Pensieri e tormenti finiti con un colpo di testa. Il gol che ripaga i sacrifici senza certezze fatti per una vita. Per Blanchard è il dodicesimo segnato in dieci anni di carriera. Stagioni passate fra campi di periferia. Da Poggibonsi a San Gimignano, dal Pescina a Salò, dal Pergocrema a Pavia. Fino ad arrivare in Ciociaria. Due promozioni in due anni, l’ultima avvenuta il 16 maggio scorso.
Una data che meritava di trovare il suo spazio su un braccio già ampiamente dipinto. Tatuaggi che lo raccontano senza renderlo uno stereotipo. Non è tipo da atteggiamenti. Ama i cani e la sua compagna Fulvia. È stata lei il primo pensiero dopo essere entrato nella storia. Al gol ha esultato. Perché solo i calciatori costruiti forzano i loro sentimenti dopo l’apoteosi del loro lavoro. Segnare alla propria squadra del cuore deve fare un effetto strano, ma quando hai passato la vita a farti la fascia su campi con i tombini accanto alle linee laterali, non ci pensi a fare il fenomeno.
Il suo volto dopo la rete e nell’intervista del dopo partita è lo specchio dei sogni della classe media. È il bagliore improvviso dopo una vita nel limbo. Il suo sincero “grazie a voi” al bordocampista Giovanni Guardalà è il passaggio che tutti sognano. Quell’infinito che passa fra divano e gloria. Fra essere spettatori o protagonisti.
È la distanza che separa l’Olympiastadion di Berlino dallo Juventus Stadium. Leonardo Blanchard, classe 1988 da Grosseto, da qualche ora conosce quella differenza. Segnatevi questo nome, perché potreste anche non sentirne più parlare. O forse sentirlo parlare ancora. Con quell’accento toscano e quel cognome francese che agli juventini ricorda un’ omonima meteora degli anni ’90.
Veniva dal Metz, si chiamava Jocelyn e in dodici partite non mostrò cenni di vita. Lo ringrazierà anche lui perché da oggi il cognome Blanchard – accanto a Juventus – sarà associato al nipote di un soldato francese che trovò l’amore in Maremma. Uno che questa notte non la dimenticherà mai.
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