
Piazza Syntagma festeggia il no all’accordo con i creditori internazionali. il 61% dei greci si è detto contrario.
Piazza Syntagma è in festa. Si celebra un rifiuto. La gioia collettiva per aver saputo dire di no alle richieste di un’Europa vista come una banda di cinici usurai. No all’accordo proposto dai creditori internazionali. No a quella Troika che la Grecia di oggi considera come la Persia del V secolo a.C. Invasori, oggi come ieri. Più coraggiosi, quanto meno, i guerrieri di Serse e Dario. Più viscidi i tecnocrati tedeschi, che non lanciano frecce ma chiudono i rubinetti. I greci, da sempre, sono duri a morire. Sanno affondare come pochi e riemergere come nessuno. Figli di Temistocle e di Ulisse, surfano sul loro stesso naufragio sprezzanti del pericolo. Scrocconi per alcuni, eroi per altri, tagliano i fili e smontano il teatro dei burattini. Non lasceranno che sia la Germania a decidere il loro futuro. “Che si fotta frau Merkel”, urlano nelle strade.
Eppure c’è stato un giorno, undici anni fa, in cui quella stessa piazza urlava di gioia celebrando un tedesco. Era il 4 luglio del 2004 e, anziché per un no, piazza Syntagma impazziva per un gol. Quello di Angelos Charisteas contro il Portogallo allo stadio Da Luz di Lisbona. La rete che permise alla nazionale greca di diventare, per la volta nella sua storia, campione d’Europa. Un paradosso, a pensarci oggi. Soprattutto se si pensa che quel miracolo fu costruito da mister Otto Rehagel, l’allenatore tedesco che guidò la Grecia sul tetto d’Europa. Un trionfo che fece da prologo alle Olimpiadi di Atene del mese successivo. L’inizio di un’estate irripetibile per lo sport ellenico.
Herr Otto, da Essen, cuore siderurgico della Germania, rappresentò il Pericle di quel gruppo. Rigorosamente vestito in tuta, uomo di campo e di missioni impossibili, fu prima di tutto il grande motivatore di una squadra che considerava già un successo l’approdo alla fase finale. Del resto, era solo la seconda partecipazione della Grecia a un Europeo. Il materiale umano a disposizione non dava spazio a grandi aspettative. La stella era Giorgos Karagounis, zero reti in due stagioni nell’Inter delle grandi astinenze da vittoria. A guidare la difesa, svettava Traianos Dellas, un nome da antico romano per uno stopper che divenne un punto di riferimento di una Roma da zero tituli. In porta, addetto a miracoli, Antonis Nikopolidis, il George Clooney dell’Epiro. What else? Tanto, perché ogni protagonista di quella cavalcata meriterebbe un quadro dettagliato.
Ma quella Grecia non verrà mai ricordata citando il nome dei singolo, perché fu una sorta di catena di montaggio applicata al rettangolo di gioco. Disciplina tattica, giocate semplici, corsa, abnegazione totale. E fattore C. Maiuscolo, perché fu anche grazie a quello che il team di Rehagel passò il girone. Quattro punti ottenuti con una sontuosa vittoria contro i padroni di casa portoghesi, un pareggio contro la Spagna e una sconfitta contro la Russia già matematicamente eliminata. La Grecia avanza per differenza reti, grazie a un gol di Vryzas, all’epoca comprimario nella Fiorentina, nella gara persa con i russi per 2-1. Restano fuori gli spagnoli, eliminati dal Portogallo di Cristiano Ronaldo, Deco e Figo.
Quella Grecia era brutta, sporca e cattiva e quel tedesco, nato a pochi metri dalle fabbriche della Krupp, le aveva dato un’identità operaia. Un gruppo di api senza una regina, compatte fino allo stremo. Ai quarti, l’impresa più eclatante, eliminando la Francia campione in carica. La squadra di Zidane, Henry, Trezeguet, sbattuta fuori da un gol di Charisteas, un attaccante che non ritroverà mai in carriera la magia di quelle tre settimane. E così fu semifinale, con un tedesco a dettare le regole e un gruppo di umili greci pronti a eseguirle. Per l’Europa.
La Repubblica Ceca fu l’ultimo avversario prima della finale. Nedved, Poborsky, Rosicky, Baros. E in mezzo all’area Jan Koller, centravanti di due metri contro cui il greco Kapsis, 1,80 scarso, ingaggia un duello stile Davide e Golia. La Grecia gioca una partita d’attesa, per dirla in modo istituzionale. Ma la verità è che non passa la metà campo per decine di minuti. Tutti aspettano che crolli, ma non succede. E nel tempo supplementare, Traianos Dellas inzucca la rete che porta tutti a Lisbona. È finale. Contro il Portogallo padrone di casa. La stessa squadra già battuta all’esordio.
Mai nella storia di un Europeo, la squadra ospitante è stata battuta due volte dalla stessa avversaria. I portoghesi hanno già perso con i greci e hanno passato la vigilia a preparare la festa per la città. Ingenui, perché sarà il loro Maracanazo. Come il Brasile del ’50 con l’Uruguay, con Angelos Charisteas al posto di Alcides Ghiggia. Stessi colori, biancoblù contro avversari che piangono in portoghese, con accenti diversi. Fu un’impresa che il calcio ellenico difficilmente potrà anche solo riavvicinare. Quella sera, in piazza Syntagma, c’era anche chi sventolava bandiere tedesche. Lo spread era un perfetto sconosciuto e il Paese rideva, fiducioso per il boom olimpico. Un’esplosione che è arrivata, ma non esattamente nel modo in cui era attesa. Una bolla grande come una penisola e tante balle raccontate da una classe politica irresponsabile. Quello che è successo dopo, è storia dei giorni nostri. Rehagel ha lasciato la panchina greca, ancora acclamato come un eroe, dopo il mondiale del 2010, chiuso con una sconfitta contro l’Argentina di Messi.
Quell’Argentina poi perse. Come ha fatto anche in Coppa America nel fine settimana, castigata da un cucchiaio ai rigori del cileno Sanchez. Che di nome fa Alexis, come l’uomo che ad Atene non mette mai la cravatta e che con Syriza ha messo a nudo le contraddizioni europee. Al gol di Sanchez, il Cile è esploso in una festa collettiva che non si vedeva dal 1988, quando un referendum popolare bloccò di fatto la dittatura di Pinochet. Il regista Pablo Larraìn, da quella storia, ne ha tratto un film commovente. Si chiama No, perché quelle furono le due lettere scelte dal popolo cileno. Le stesse urlate dai greci di oggi. Incroci, corsi e ricorsi. Un paio d’anni fa, Angela Merkel cercò di usare la figura di Rehagel come trait d’union. Ma non aveva calcolato che Otto, ad Atene ribattezzato Rehakles (vedi Herakles, ossia Ercole…), non può essere considerato un ambasciatore. La vittoria di Lisbona lo ha reso un semidio e la gente lo adora, senza necessariamente ascoltarlo.
In ogni caso in quel marzo del 2013, l’uomo che a bordocampo indossava solo tute sintetiche, passa tre giorni ad Atene cercando di fare da mediatore. Ha la giacca e la cravatta. Chiede gioco di squadra, ma non si capisce bene su quale panchina sieda. Verrà presto sollevato dall’incarico. E sicuramente si sarà sentito sollevato anche lui, resosi conto della situazione. C’era una volta un tedesco che guidava la Grecia. C’era una volta in cui la Grecia era sul tetto d’Europa.
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