Forte Verena, altopiano di Asiago, provincia di Vicenza. Nella notte fra 23 e 24 maggio del 1915, partirono da qui i colpi di cannone che sancirono di fatto l’ingresso nella Grande Guerra dell’Italia. Un’entrata al fianco della Triplice Intesa, quella formata da russi, francesi e inglesi, contro austriaci e tedeschi, alleati ripudiati. Il conflitto del 15-18 aveva per l’Italia lo scopo di rivendicare le terre irredente, cercando di ripristinare l’unità territoriale. Vincemmo, ma a un prezzo carissimo. E fu una vittoria mutilata. Quando esplosero le prime cannonate, nessuno pensava infatti che quella Guerra avrebbe meritato la maiuscola nei libri di scuola. Ma fu proprio così: morirono almeno 600 mila italiani e gli insoddisfacenti trattati di pace successivi, aprirono le porte a un desiderio di vendetta nazionalista. Benito Mussolini cavalcò quel malcontento e quello che successe vent’anni dopo lo sapete tutti.
E quella decisione di “armarsi e partire” ebbe ripercussioni anche nel calcio dell’epoca. La serie A dell’epoca si chiamava Prima Categoria ed era divisa in raggruppamenti regionali che via via si assottigliavano, mandando avanti le migliori. Che alla fine erano sempre le stesse: Genoa, Torino, Pro Vercelli, Inter, Milan, Juve e Casale. Il pallone era una questione prettamente settentrionale, anche se il centro sud cominciava a muovere i primi passi, specialmente nella Capitale e a Napoli. Domenica 23 maggio del 1915 si doveva giocare l’ultima giornata di campionato. L’ultima del girone settentrionale, quello che di fatto assegnava il titolo di campione d’Italia. Diciamo “di fatto” perché da un paio d’anni la Federazione aveva introdotto una finalissima contro la vincente del girone del centro sud. Finita sempre tanto a poco. Un tennistico 6-0 del Pro Vercelli alla Lazio nel 1913 e un complessivo 9-1 del Casale sempre ai biancocelesti nel doppio confronto dell’anno successivo.
La vera lotta per il titolo era quindi nel girone di ferro che vedeva fronteggiarsi le squadre liguri, piemontesi e lombarde. Quell’anno la squadra da battere era il Genoa, che dopo qualche stagione di appannamento era tornata ai fasti d’inizio secolo. Il Grifone, la più antica società italiana, aveva messo in bacheca già sei allori. Il doppio rispetto a quelli vinti dalla Juventus. Eppure da dieci stagioni, i rossoblù non riuscivano a centrare il tricolore. Per tornare a farlo, il munifico presidente George Davidson, un imprenditore italo-scozzese che aveva rilevato la squadra nell’estate del 1913, non aveva badato né a spese né a regole. Con una campagna acquisti faraonica aveva comprato i Messi e Cristiano Ronaldo dell’epoca, Berardo e Mattea, da Vercelli e Casale. La Federazione, che aveva le sue sedi regionali all’interno di alcuni ristoranti, non gradì. Il professionismo non era accettato e il Genoa fu multato e costretto a giocare due partite lontano da Marassi, stadio inaugurato nel 1911. Mattea inoltre decise di restare a Casale.
Davidson era recidivo. L’anno precedente aveva strappato ai cugini dell’Andrea Doria gli attaccanti Sardi e Santamaria. Un trasferimento che andò liscio, finché i due non si presentarono a uno sportello della Banca Cooperativa Genovese per ritirare un cospicuo assegno: tremila lire. La sfortuna volle che il funzionario fosse proprio un socio dell’Andrea Doria, che prima inveì contro gli ex idoli e poi denunciò la vicenda. I due bomber furono squalificati nella stagione 1913-14, ma nell’anno successivo fecero impazzire Marassi: 26 gol Santamaria, 10 Sardi. Meglio di Skuhravy-Aguilera.
Un attacco scoppiettante e la sagacia tattica dell’allenatore, mister William Garbutt, l’uomo da cui nasce in Italia la prassi di chiamare così chi siede in panchina, non bastano però a sbaragliare tutte le concorrenti. Ce ne sono due che inseguono il Genoa a breve distanza prima dell’ultima fatidica giornata. Il Torino di Vittorio Pozzo, futuro ct due volte campione del mondo con l’Italia e l’Inter, trascinata dal tandem offensivo Agradi-Cevenini. Quest’ultimo è ancora il recordman assoluto per gol segnati nel derby di Milano, anche grazie alla militanza su entrambe le sponde.
E per l’ultima giornata, con una classifica che vede il Genoa primo a 7 punti con Torino e Inter a 5, il calendario prevede Milan-Inter e soprattutto Genoa-Torino. Ai rossoblù di mister Garbutt basta un pareggio, ma due settimane prima in Piemonte hanno preso una sventola inaudita: 6-1, con una doppietta di Mario Fiamberti, calciatore fino al 1915, luminare di psichiatria negli anni dopo il conflitto.In quel caso era stato lui a far diventare matta, senza cure possibili, la difesa genoana. Pozzo sognava già il bis a Marassi per agguantare i rivali a 7 punti e andare agli spareggi.
Anche l’Inter sognava gli spareggi. Si era riportata in corsa battendo proprio i granata e adesso confidava in una vittoria nel derby e in un concomitante successo del Toro a Genova per accedere a uno spareggio a tre. Ma quella domenica nessuno giocò. Il 23 maggio del 1915, tre giorni dopo il voto favorevole del Parlamento sull’ingresso in guerra dell’Italia, gli arbitri scesero in campo per leggere un comunicato, con le squadre al loro fianco. Uno stringato telegramma della Federazione imponeva l’immediato stop alle attività sportive. Nove parole:
In seguito mobilitazione per criteri opportunità sospendesi ogni gara.
Quella che doveva essere una battaglia sportiva di 90 minuti, combattuta a colpi di classe, scivolate e tiri da fuori area, fu annullata. Lasciò il posto a una guerra durata quattro anni, di trincee e cannonate, di morti e mutilazioni. Vittorio Pozzo, che parteciperà al conflitto come tenente degli alpini, ricordava quel giorno con una semplicità disarmante e commovente:
All’improvviso non giocammo più e partimmo soldati.
Non tutti tornarono. Quando la Federazione, nel 1921, decise di assegnare il campionato del 1915 al Genoa, non tutti lo seppero. Il terzino Claudio Casanova, l’ala Carlo Marassi, l’attaccante Alberto Sussone e il portiere Adolfo Gnecco quel 23 maggio del 1915 erano pronti ad affrontare il Torino. Forse avrebbero festeggiato il titolo quella sera. Morirono tutti e quattro poche settimane dopo, su campi in cui le loro doti non contavano più niente. La guerra si portò via anche James Spensley e Luigi Ferraris, figure cruciali del Genoa degli albori.
Poi tutto finì e lentamente si tornò a giocare a calcio, provando a contare gli incalcolabili danni morali e materiali di quel conflitto. Cento anni dopo, commentiamo lo sport, parlando frequentemente di guerre e battaglie sul campo. Usiamo espressioni iperboliche perché vogliamo enfatizzare, forse perché non ci siamo passati o forse solo perché ogni tempo ha un suo linguaggio. Ma non possiamo mai dimenticare quel 23 maggio del 1915. Il giorno in cui la Guerra annullò l’ultima battaglia.
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