Le mani sul volto. La testa scossa. Il triplice fischio dell’arbitro. La gioia degli altri. La disperazione di chi non ce l’ha fatta. Le corse sfrenate di chi ha vinto., l’immobilismo orizzontale di chi ha perso. Felicità e abbracci da una parte, lacrime e vuoto dall’altra. Finiscono sempre così le finali. È la meravigliosa crudeltà dello sport. C’è un vincitore e un perdente. Sempre. Cambiano gli attori ma la trama del film porterà comunque lì. E sarà lietissimo fine contro struggimento.
Per qualcuno il dolore della mancata vittoria è più fragoroso. Per qualcuno l’incredulità di aver preso la porta del Paradiso in faccia fa più male. Perché quel qualcuno poteva essere l’eroe e invece è solo il primo dei delusi. Soprattutto nel calcio, la distanza fra l’essere eroi e assistere in prima fila alla festa altrui si misura in centimetri.
Ed è successo anche in Juventus-Lazio, finale di Coppa Italia, giocata mercoledì sera all’Olimpico di Roma. Filip Djordjevic, attaccante dei biancocelesti, ripenserà a lungo a questa gara. Entrato sul finire dei tempi regolamentari, pochi minuti dopo l’inizio dei supplementari ha avuto l’appuntamento con la storia.
Un violento tiro mancino, un sinistro da 30 metri, che sorprende la difesa juventina. Il portiere si tuffa. Non ci arriva. 120 mila occhi seguono la traiettoria del pallone. Palo interno, sfera che corre rapida sulla linea e incoccia sull’altro legno. I difensori spazzano il pericolo. Il centravanti serbo urla senza voce e sgrana gli occhi. Nella sua testa era già gol, ma non lo è. Ezio Vendrame, poeta e mezzala degli anni ’70, avrebbe sorriso per un tiro del genere. Il doppio palo era il suo vero obiettivo ogni volta che si presentava sul dischetto per battere un rigore. Djordjevic invece maledice il fato. Mani nei capelli e repertorio gestuale tipico dell’eroe mancato. Ancora non lo sa, ma 100 secondi dopo nell’altra metà campo Alessandro Matri, entrato come lui pochi minuti prima del novantesimo, segnerà per la Juve il gol decisivo. È lui l’uomo del destino. Per una questione di centimetri.
Il clamoroso doppio palo di Filip Djordjevic
Centimetri. Come quelli di cui parlava un indimenticabile Al Pacino in Ogni maledetta domenica, film cult per chi ama lo sport nei suoi sentimenti più profondi. “La vita è una questione di centimetri e così è il football”, sostiene coach Toni D’Amato, arringando la squadra. Parla di football americano, quello con la palla ovale. Quel football dove si usano più le mani dei piedi. Ma cambia poco. “La somma dei centimetri fa la differenza fra vincere e perdere” e “quei centimetri sono ovunque”. Al Pacino pensava alla faticosa conquista di terreno e non al righello della Dea Bendata. Ma a misurare la distanza fra la gloria e lo smarrimento, sono soprattutto le briciole della sorte.
Djordjevic non dimenticherà quel doppio palo. Può chiederlo a qualche suo più o meno illustre predecessore. Per esempio a Gianluca Sordo, centrocampista del Torino dell’inizio anni ’90, che colpì una clamorosa traversa ad Amsterdam contro l’Ajax. Era la finale di ritorno della Coppa Uefa del 1992 e mancava un minuto alla fine. Con due pareggi, il Toro perse la coppa. La scena di Emiliano Mondonico, allenatore granata, che agita in aria una sedia, gonfia la drammaturgia dell’evento. E quel ragazzo di 23 anni che poteva entrare nella leggenda granata, in pochi anni sparì senza lasciare particolari tracce nel grande calcio.
Il racconto di quella notte di Amsterdam del ’92 nel commovente ricordo di Emiliano Mondonico
Oppure Djordjevic potrebbe chiedere a Mauricio Pinilla, cileno dell’Atalanta che nello scorso mondiale in Brasile, andò a un passo dall’eliminare i padroni di casa negli ottavi di finale. Una saetta dal limite dell’area che superò Julio Cesar e s’infranse contro la traversa. Una beffa che s’ingigantì pochi minuti dopo, quando lo stesso attaccante sbagliò uno dei tiri dal dischetto che condannarono il Cile all’eliminazione. Quella traversa, Pinilla può mostrargliela anche togliendosi la maglia. Pochi giorni dopo, decise infatti di tatuarsela sulla schiena. Un disegno e sotto un’eloquente scritta: “One centimeter from glory”.
Legni che ancora risuonano, come quello di Rob Rensenbrink, un nome che vi farà fare una faccia perplessa ma che avrebbe, lui sì, potuto cambiare davvero la storia. Mondiale del ’78, finale Argentina-Olanda. Al ’90 siamo sull’1-1. Sono i mondiali dello scandalo, della vergogna dei desaparecidos, di Videla che punta sul pallone per far dimenticare le atrocità del suo regime. Una sconfitta della squadra di casa sarebbe stato un colpo mortale al sistema. Quello che successe, potete vederlo qua sotto.
Il mondo è strano, perché se quella zampata mancina fosse andata pochi centimetri più a sinistra, Rob Rensenbrink sarebbe stato un simbolo eterno per la sua nazione e per tanta altra gente. Capocannoniere del mondiale ed eroe nazionale. Le madri di Plaza de Mayo, che reclamavano inutilmente la scomparsa dei loro figli, gli avrebbero eretto un monumento. Quel pallone invece rotolò sul palo e nei supplementari l’Argentina segnò due reti. Campioni del mondo, per la gioia della dittatura. Secondi gli olandesi, come spesso è accaduto a una delle nazionali più forti e incompiute della storia del calcio. Ma quello che conta di più è che Rob da quel giorno non ha avuto più gloria. Aveva vinto tanto con l’Anderlecht e avrebbe potuto avere ancora una carriera luminosa davanti. Ma così non fu.
Giocò stancamente qualche altro anno, senza più grinta né stimoli. Quel gol mancato allo stadio Monumental di Buenos Aires non se lo staccò mai di dosso. L’uomo serpente, come lo chiamavano in Belgio, aveva smesso di sgusciare. All’inizio degli anni ’80 smise col calcio. “Per l’Olanda sarò sempre quello del palo”, disse prima di chiudersi in un mutismo che dura ormai da decenni. Sosteneva anche che “quella palla non sarebbe mai potuta entrare”. Nessuno ha mai capito se lo dicesse per discolparsi o se incolpasse il destino. A luglio compirà 68 anni. Dicono che viva nelle campagne belghe. Se Djordjevic penserà ancora a quel tiro, vada a fare due chiacchiere col vecchio Rob nelle Fiandre. Portandogli gli auguri. Per l’in bocca al lupo, ormai è tardi.
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