
“Meglio bruciare che spegnersi lentamente”. Le ultime parole, prima di spararsi un colpo di fucile in faccia, Kurt Cobainle prese in prestito da una canzone di Neil Young. In quel biglietto, appoggiato accanto al suo corpo esanime, tutta la sua voglia di liberarsi. Di fuggire, di raggiungere col corpo una mente che si era già spinta oltre i limiti terreni.
Lo trovarono morto l’8 aprile del 1994. Si era ucciso tre giorni prima, nella sua casa di Lake Washington, a un soffio da quella Seattle che gli aveva fornito droghe, successo e immortalità. Era solo, come non riusciva più a essere da tanto tempo. Chi lo trovò, disse che gli sembrava solo addormentato. Lì, disteso sul pavimento, coi capelli biondi a coprire il viso di un angelo che aveva presto smarrito l’innocenza, Kurt aveva deciso che doveva farla finita.
Se lo era chiesto già tante volte. Per esempio a Roma, nell’89, subito dopo l’uscita di Bleach, l’album che aveva portato i Nirvana alla ribalta mondiale. Quella sera suonavano al Piper. Il pubblico in visibilio, la paura di diventare un fenomeno commerciale, la voglia di restare se stesso. Era scioccato. Voleva sciogliere il gruppo e tornare alla sua vita. Costantemente attraversata da una patina di morte. Una sensazione amplificata dal suo luogo di nascita, Aberdeen, nel profondo e cupo Northwest americano, fra boschi tetri e fabbriche alienanti.
Non si sciolsero quella sera i Nirvana. L’aria decadente di Kurt, le sue camicie di flanella a scacchi, i jeans strappati, divennero presto i simboli di una generazione che rifiutava il sistema. Senza attaccarlo, ma chiedendo solo di poterne restare ai margini. Magari sotto un ponte, come il luogo che Kurt elesse sua dimora negli anni in cui Aberdeen era diventato un hangar troppo soffocante per la sua creatività. Nel ’91 esce Nevermind, l’album della consacrazione. 75 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Tutti lo vogliono, troppi si arricchiscono grazie alla sua musica. Lui odia tutti. E si rifugia nella droga, insieme a Courtney Love, cantante delle Hole, sua discussa compagna fino alla morte.
Courtney dà alla luce una bambina. La chiamano Francis Bean. “Bean”, perché Kurt quando la vede per la prima volta, ancora nella pancia della madre, la scambia per un fagiolo. Equivoci da ecografie o da allucinazioni. Kurt e Courtney si amano. Poi si odiano. Ma restano insieme. Lo fanno violentemente, fuori dagli schemi, sopra le righe. E fra troppe righe. Il leader dei Nirvana, all’inizio degli anni ’90 è un fenomeno mondiale: un eroe da emulare o un eroinomane da riaggiustare.
Kurt non ne vuole sapere di ripulirsi. Ciò che gli fa male, lo fa stare bene. Ciò che lo uccide, è il rischio di diventare un’icona pop. L’ultimo album dei Nirvana, In Utero, è il suo disperato grido contro il successo. Sonorità diverse, affiorate dopo un ritiro della band fra le montagne del Minnesota. Testi rudi, sofferenti. Grunge, in una parola. Come la Seattle che lo aveva abbracciato fin troppo stretto. La sua voce roca e vellutata come un maledetto arcobaleno dopo un temporale infinito.
Qualcuno pensa che sia tornato il sole. Ma si sbaglia. Marzo 1994. Stanza 514 dell’Hotel Excelsior a Roma, in via Veneto. Vacanze romane, con Courtney e Francis Bean. Kurt brinda alla ricerca della serenità. Solo che allo champagne unisce il Roipnol, un sonnifero potente. Si addormenta. Per tante ore. Lo salvano. Ha provato ad andare nell’altro mondo, ma lo hanno fermato a metà viaggio. Lo stile è da rockstar, la fragilità è quella del bambino che a sette anni visse, senza accettare, il divorzio dei genitori.

Un destino rinviato solo per poche settimane. Fino al colpo decisivo, il 5 aprile. “It’s better to burn out that to fade away”, lo abbiamo detto all’inizio. Rimase soltanto la sua cenere. Una parte restò a Courtney. Una parte è conservata in un tempio buddista, a Ithaca, stato di New York. Come Ulisse alla fine del suo viaggio. Ma un po’ delle sue ceneri finirono anche nel fiume Wishkah, vicino alla sua Aberdeen. Lungo le sue rive, Kurt aveva vissuto una parte della sua gioventù. Drogandosi e scrivendo, urlando il dolore o inglobandolo.
È la storia di uomo che ha vissuto morendo. Alimentandosi di un dolore lacerante, troppo facilmente etichettato come “tossico”. Forse non è giusto né piangerlo, né rimpiangerlo. Non avrebbe mai accettato di invecchiare, né di essere compatito. Lui era Kurt Cobain e per chi è cresciuto sussurrando o urlando al cielo le sue parole, lo resterà sempre.
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